martedì 27 settembre 2016

RICERCA E INNOVAZIONE NELLA MESSA IN SCENA DI “LA MEDEA”

Sto preparando un saggio sull’attore dall’antichità al secolo XIX, identificando le linee di conflitto e dibattito, le conquiste e le questioni irrisolte. La maggiore frattura si è certo avuta già nel secolo IV a.e.v., quando i frutti del lavoro sia del poeta sia dell’attore non derivano più dall’ispirazione divina, dall’enthusiasmos che eccita e commuove il pubblico come un contagio (pre-artaudiano) apollineo (e lo stesso Platone appoggia questa tesi, pur contraddicendosi); d’ora in avanti l’attore, che si è fatto professionista e creativo, affida la propria performance alla techne, alla tecnica ancora rozza e informe.
Avviene il contrario di quello raccomandato da Platone (vedi Ione e Fedro): per fare spazio al dio, l’hypocritès (colui che risponde al Coro, l’attore) deve farsi piccolo, ritirarsi in se stesso, scomparire come individualità; altrimenti non può attingere al mondo delle idee.
L’attore, invece, si fa sempre più egocentrico ed esibizionista, suscitando perfino la disapprovazione di Aristotele. Coalizzato in consorterie, privilegiato (esenzione dalle tasse e dal servizio militare, impunità e mecenatismo) e fattosi in fretta divo venerato dal pubblico, l’attore gode di una stagione più che soddisfacente. Perlomeno l’artista di grande successo, perché la forma tespiana di teatro itinerante si rinnova nella Roma repubblicana e imperiale; ma questi guitti che si tramandano il mestiere di padre in figlio, pur bravissimi, sono considerati poco più che vagabondi inaffidabili. E la chiesa opera una vera e propria crociata contro non solo l’attore impudico e senzadio, ma contro il teatro stesso.
Il teatro, fino all’avvento del regista nel secolo XIX, è fatto dall’attore. Un attore narcisista che certo non scompare, sulla scena, per fare posto al personaggio, del quale si ritiene l’artifex.
Si tratta di una parabola ascendente che raggiunge il culmine a fine Ottocento, con il Grande Attore (e la Grande Attrice) protagonista assoluto, beniamino del pubblico, osannato e riverito come un dio in terra.
Poi arriva Stanislavskij e il personaggio è tutto frutto dell’intenso e profondo lavoro dell’attore su se stesso, un lavoro scientifico che non affida niente al caso o all’ispirazione “divina”.

Come affrontare l’intensa e complessa problematica dell’interpretazione con i ragazzi (10-13 anni) di “La Medea”? L’intenzione è di tornare alla dimensione degli hermenèia di Platone, la capacità di interpretare gli dei da parte del poeta (ricordiamoci che tra poeta e declamatore, cioè attore, c’era ancora identificazione). La strategia è quella di presentare il personaggio come persona “morta” (tutti i personaggi, anche quelli che si riferiscono a persone viventi, risultano vivi solo nella lettura o nella messa in scena teatrale) in attesa di tornare alla vita. Non può risorgere da sola, ha bisogno di attingere linfa vitale da un lettore/interprete; e costui deve farsi da parte, staccarsi dalla propria esistenza quotidiana, creare uno spazio interiore ad hoc, lasciare la ribalta al personaggio.
Non è facile, per un attore, mettere se stesso in ombra per riportare alla luce, in una sorta di resurrezione, un personaggio strappato al sepolcro della creazione artistica. Questo, comunque, è il primo passo. Come prestare voce e corpo al personaggio? Ma, soprattutto, con quale identità si presenta? Nel corso dei secoli, si passa dal tipo al carattere, giungendo alla formulazione che il personaggio è una persona reale.
Non sono d’accordo.
Il personaggio è tale solo nell’ambito della propria opera, al di fuori della quale diventa una reinvenzione estranea allo spirito iniziale. Che si voglia convincere lo spettatore che il personaggio è vivo e reale è coerente con il cinema. Il personaggio inteso in questo modo fa parte dello spettacolo, ma il teatro è un’altra cosa. Il teatro non è uno spaccato naturalistico e veristico sulla realtà, ma un’espressione vocale e gestuale che deve fare i conti non con le cineriprese ma con la musica, il canto, la danza, lo spazio e la coerenza estetica interna che compatta la scena dall’inizio alla fine.
Il personaggio cinematografico (a meno che non faccia il verso al teatro) non può fare l’eco a un partner, o cantare invece di recitare, o gesticolare al di fuori delle convenzioni, o indossare vestiti incongrui; quello teatrale sì.
L’interpretazione del personaggio tiene conto dello “spicchio di vita” presentato nell’opera testuale e solo dalle sue battute e da quelle degli altri personaggi desume e intuisce cronache e sentimenti extranarrativi. L’attore si concentra quindi solo sul testo, dal quale trae tutto ciò che gli serve per dare voce e corpo al personaggio.
Non si tratta solo di un’analisi psicologica, condotta sulla concretezza della drammaturgia, ma della concertazione di un personaggio con gli altri e della ricerca di tutte le modalità espressive vocali e dinamiche che lo rendono presente, vivo ed emozionante. L’attore da vivo si fa quiescente, il personaggio da morto si fa vivo.

Stanislavskij pone alla base dell’interpretazione due processi: la personificazione e la reviviscenza. Con il primo l’attore assume “il corpo” del personaggio: espressività fisica, voce, azioni fisiche coerenti. Con il secondo analizza con l’immaginazione il testo suddiviso in sezioni, identifica le emozioni e i sentimenti, li rivive, li proietta sulla personificazione.
L’attore diventa il personaggio solo grazie alle proprie qualità: immaginazione, memoria, fisicità, autocontrollo, sensibilità, conoscenza e cultura. Il personaggio, quindi, fin che non è interpretato non esiste; sulla carta esso è solo uno stimolo per l’attore.
Io dico che sulla carta egli è nel sepolcro e attende che qualcuno lo risvegli e crei le condizioni affinché possa rialzarsi e fare la propria parte.
Agli allievi fornisco un monologo-guida. Le battute del personaggio sono annotate con azioni testuali  e con azioni psichiche, seguite da un breve commento.
Azione testuale: tracciare il personaggio, fornire indicazioni di massima su spostamenti, movimenti e azioni. Azione psichica: la traduzione in azione fisica di ciò che si sente a livello emozionale e sentimentale, non secondo una gestualità codificata, ma cercando la reazione istintiva e primordiale del corpo senza filtri culturali.
Ecco un esempio.
CREONTE     

riceve il peplo dai bambini e lo porge a Glauce Glauce, mia figlia, indossa il peplo donato da Medea. postura regale, compie un ampio giro ----- il dono rappresenta la resa di Medea, è convinto di avere trionfato senza usare la violenza e senza danni eccessivi
accompagna Glauce allo specchio Corre allo specchio. Ne vedo l’immagine riflessa. disegna con le mani l’incanto dell’amore per la figlia ----- nello specchio vede la bellezza della figlia come se fosse quella del regno, un regno di felicità, armonia, pace
lo dice a Giasone Sono felice della sua felicità. abbraccia il genero ----- non ha figli maschi, ma il matrimonio assicura la discendenza
va da Coro, il popolo Ora che sono anziano, posso ritirarmi in un angolo d’ombra e dedicarmi alle cose piccole che danno sollievo. A lei e a Giasone l’onere del regno. il Coro si alza, lui si siede e lo invita a imitarlo, si guarda intorno, guarda lontano, come se vedesse il proprio futuro tranquillo ----- è stanco del potere, da tempo cercava uno come Giasone per affidargli il regno
scatta in piedi Qualcosa di terribile. si copre la testa, si chiude gli occhi, si tappa le orecchie, non vuole vedere e sentire, un presagio spaventoso ----- di colpo, collega l’incontro con Medea, la sua finta remissività, la sua fama, i doni
corre da Glauce, l’accoglie tra le braccia, i due barcollano senza meta La mia bambina impallidisce, trema in tutto il corpo, si accascia a terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. movimenti scomposti, segmentati, la testa che si piega da ogni parte ----- cerca di fare una diagnosi, ma sa spiegarsi che cosa succede
va a prendere il telo rosso e glielo avvolge intorno al capo Il diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i capelli. come un mare in burrasca, un’onda che si alza e si abbatte ----- pensa ansiosamente a come aiutare la figlia
ora anche Glauce è un’onda e i due invadono la scena Urlando, si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema si fonde alla carne. ----- un urlo interiore, il terrore, l’impotenza, il senso della fine
i due ora si scontrano, il telo li avvolge e li unisce come un corpo solo La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. un tremito convulso, la voce stridula e impastata ----- la decisione di non abbandonarla, di morire con lei
il telo rosso si allunga intorno a loro Corriamo abbracciati e diffondiamo l’incendio nella reggia. ora è come se danzassero avvinti ----- l’addio alla figlia
si fermano, si osservano, si scambiano accenni di carezze La carne si stacca a brandelli dalle ossa. gesti fluidi e lenti, come se si togliessero l’un l’altro la carne dalle ossa ----- la consapevolezza serena di morire insieme
schiena a schiena, calano seduti Muoio così, abbracciato a lei. E lei muore con me. ognuno dei due si passa le mani sugli occhi per chiuderli ----- l’accettazione del fato
a occhi chiusi, respiro profondo Il mio ultimo pensiero è per la vendetta: che possano morire anche i figli di Medea, che possa soffrire anche lei, ma cento volte di più. la testa cade, poi grugnendo la rialza e aiuta Creusa a tornare al posto ----- il tiranno si è risvegliato, l’accettazione della morte muta in rabbia e odio

Agli allievi fornisco anche un time-lapse testuale, ossia tutte le battute di un personaggio in successione, avulse quindi dalle circostanze, che vanno ricostruite. In quelle battute c’è tutta la linfa vitale per la definizione del ruolo.
Ecco l’esempio di Creonte, preceduto da alcune indicazioni-stimolo che facilitino l’analisi dell’attore.

ipocrita – maschilista – xenofobo – insicuro – vendicativo – legato a Corinto, alle proprie cose, alla figlia – poco influente sul corso delle cose, non ha il controllo che crede di avere - disgusto, diffidenza, ansia, amore, misoginia, odio, onore, orgoglio…
CREONTE      Glauce, mia figlia, indossa il peplo donato da Medea. Corre allo specchio. Ne vedo l’immagine riflessa. Sono felice della sua felicità. Ora che sono anziano, posso ritirarmi in un angolo d’ombra e dedicarmi alle cose piccole che danno sollievo. A lei e a Giasone l’onere del regno. Poi, qualcosa di terribile. La mia bambina impallidisce, trema in tutto il corpo, si accascia a terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. Il diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i capelli. Urlando, si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema si fonde alla carne. La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. Corriamo abbracciati e diffondiamo l’incendio nella reggia. La carne si stacca a brandelli dalle ossa. Muoio così, abbracciato a lei. E lei muore con me, straziata. Il mio ultimo pensiero è per la vendetta: che possano morire anche i figli di Medea, che possa soffrire anche lei, ma cento volte di più.
CREONTE     Non amo gli stranieri. Non parlano la nostra lingua, non adorano i nostri dei, hanno usi diversi, non ci si può fidare e infatti sono ladri e rissosi. Medea è della Colchide, la regione dell’oro che attrae avventurieri e predoni, un paese oscuro dove si pratica la stregoneria.
CREONTE     Anche Giasone è andato in Colchide con gli Argonauti, ma lui è un eroe e l’ha fatto per riavere il trono di Iolco che gli spetta di diritto. La sua discendenza aristocratica gli impone dei doveri, e lui si è sempre comportato bene. Purtroppo dalla Colchide ha portato qui una donna maligna. Quando gli ho offerto in moglie mia figlia Glauce, gli ho detto chiaro che Medea e i suoi figli non devono rimanere a Corinto. E lui ha accettato senza esitazioni. Così fa un uomo messo di fronte alle proprie responsabilità. Quando il destino chiama, nessuna esitazione, dritto alla meta.
CREONTE     Quella donna è pericolosa. Lo dicono i miei consiglieri, lo dicono i sudditi. Un domani potrebbe montare la testa ai figli, convincerli che il trono di Corinto spetta a loro. Capaci di suscitare le fiamme della guerra civile. Noi siamo gente pacifica.
CREONTE     Temo che con i suoi poteri faccia del male a me e a mia figlia. Via, via, non la voglio qui. Vada a morire lontano dalla mia città.

Da dove si parte? Dal silenzio, dal rilassamento, dalla disponibilità a “essere invasi” dal personaggio, dall’accettazione che i compagni non sono più quelli di prima, ma si dispongono a diventare (per buona parte) un’irreale realtà individuale. Di conseguenza, ci si chiama con il nome del personaggio, non con quello reale. I primi esercizi riguardano la presa di distanza da sé e la capacità di mentire. Il teatro è menzogna; ma, come ha detto il sofista Gorgia, la sua riuscita consiste nel fatto che lo spettatore sa e accetta di essere ingannato. Quindi: più è falso, più è vero.
Ci si muove in uno spazio che è come una scatola magica, un carillon con più figurine: lo si apre ed esse ruotano sulla musica, fino a che lo si chiude di nuovo. Lo spazio chiuso è rappresentato da un ampio telo bianco steso sul pavimento: quello è il palcoscenico-pianeta dove per breve tempo i personaggi vivono il proprio dramma, sempre come se fosse la prima volta.
Non lo vivono per il pubblico, ma per se stessi e per gli interpreti. Il pubblico è infatti negato e la performance non ne tiene conto. L’attore può dargli le spalle, può abbassare la voce, libero da ogni costrizione di comunicazione con la platea. Il teatro è un gioco, con le sue regole e la sua astrazione dal reale. Tutto ciò comporta la mancanza di una scenografia: solo il “suolo” bianco e gli oggetti, bianchi: scaletta per Medea, sedia girevole per Creonte, cubi per il Coro... L’unica macchia vivace è un telo rosso.

Ma non tutti gli attori della compagnia assumono il ruolo di un personaggio tragico. Tre di loro si muovono all’esterno del suolo bianco, portandosi dietro uno sgabello che consente loro di sedersi e diventare spettatori. Si spostano in platea, interagiscono con il pubblico. Il loro compito è di spiegare, commentare, esprimere reazioni emotive. Sono mediatori drammatici, fanno da raccordo tra il luogo chiuso della scena negata e il pubblico, nello stile brioso degli intrattenitori.
Una formula che abbiamo già sperimentato con “Le Baccanti”.

Finora, abbiamo punti d’inizio, complessi e stimolanti, ma non ancora una tecnica completa e strutturata. Ci sono idee da sviluppare, come la gestione della recitazione. Sono previsti ben tre cori. Uno è quello classico emanato dal testo; in questo caso è il popolo di Corinto. L’altro è quello dei mediatori-intrattenitori, la cui funzione scaturisce comunque dalla tragedia classica: fornire informazioni, chiarire punti oscuri, esprimere punti di vista ed emozioni. Ho intenzione di rendere corali anche alcuni momenti, quando tutti i personaggi riecheggiano o contrastano l’espressione emotiva di uno di loro. Questa conduzione corale interesserà anche i movimenti, ancora non so come nello specifico. D’altronde, nessuno di loro è personaggio senza gli altri. C’è un destino comune, la storia di ognuno che si intreccia con quella degli altri, una coesione, una sinergia nel bene e nel male che fa sì che nel luogo chiuso vi sia, alla fine, un solo personaggio, quello dello spirito dell’opera.

E i costumi? Nessuna scelta estetica che fa tanto sfilata di moda. E certo nessun mimetismo. Ecco qualche idea iniziale. Creonte è però già cambiato: un enorme soprabito di pelle nera e un elmo tipo longobardo o ostrogoto, trovato al mercatino dell’usato di Feriolo.




RICERCA E INNOVAZIONE NELLA MESSA IN SCENA DI “LA MEDEA”

Sto preparando un saggio sull’attore dall’antichità al secolo XIX, identificando le linee di conflitto e dibattito, le conquiste e le questioni irrisolte. La maggiore frattura si è certo avuta già nel secolo IV a.e.v., quando i frutti del lavoro sia del poeta sia dell’attore non derivano più dall’ispirazione divina, dall’enthusiasmos che eccita e commuove il pubblico come un contagio (pre-artaudiano) apollineo (e lo stesso Platone appoggia questa tesi, pur contraddicendosi); d’ora in avanti l’attore, che si è fatto professionista e creativo, affida la propria performance alla techne, alla tecnica ancora rozza e informe.
Avviene il contrario di quello raccomandato da Platone (vedi Ione e Fedro): per fare spazio al dio, l’hypocritès (colui che risponde al Coro, l’attore) deve farsi piccolo, ritirarsi in se stesso, scomparire come individualità; altrimenti non può attingere al mondo delle idee.
L’attore, invece, si fa sempre più egocentrico ed esibizionista, suscitando perfino la disapprovazione di Aristotele. Coalizzato in consorterie, privilegiato (esenzione dalle tasse e dal servizio militare, impunità e mecenatismo) e fattosi in fretta divo venerato dal pubblico, l’attore gode di una stagione più che soddisfacente. Perlomeno l’artista di grande successo, perché la forma tespiana di teatro itinerante si rinnova nella Roma repubblicana e imperiale; ma questi guitti che si tramandano il mestiere di padre in figlio, pur bravissimi, sono considerati poco più che vagabondi inaffidabili. E la chiesa opera una vera e propria crociata contro non solo l’attore impudico e senzadio, ma contro il teatro stesso.
Il teatro, fino all’avvento del regista nel secolo XIX, è fatto dall’attore. Un attore narcisista che certo non scompare, sulla scena, per fare posto al personaggio, del quale si ritiene l’artifex.
Si tratta di una parabola ascendente che raggiunge il culmine a fine Ottocento, con il Grande Attore (e la Grande Attrice) protagonista assoluto, beniamino del pubblico, osannato e riverito come un dio in terra.
Poi arriva Stanislavskij e il personaggio è tutto frutto dell’intenso e profondo lavoro dell’attore su se stesso, un lavoro scientifico che non affida niente al caso o all’ispirazione “divina”.

Come affrontare l’intensa e complessa problematica dell’interpretazione con i ragazzi (10-13 anni) di “La Medea”? L’intenzione è di tornare alla dimensione degli hermenèia di Platone, la capacità di interpretare gli dei da parte del poeta (ricordiamoci che tra poeta e declamatore, cioè attore, c’era ancora identificazione). La strategia è quella di presentare il personaggio come persona “morta” (tutti i personaggi, anche quelli che si riferiscono a persone viventi, risultano vivi solo nella lettura o nella messa in scena teatrale) in attesa di tornare alla vita. Non può risorgere da sola, ha bisogno di attingere linfa vitale da un lettore/interprete; e costui deve farsi da parte, staccarsi dalla propria esistenza quotidiana, creare uno spazio interiore ad hoc, lasciare la ribalta al personaggio.
Non è facile, per un attore, mettere se stesso in ombra per riportare alla luce, in una sorta di resurrezione, un personaggio strappato al sepolcro della creazione artistica. Questo, comunque, è il primo passo. Come prestare voce e corpo al personaggio? Ma, soprattutto, con quale identità si presenta? Nel corso dei secoli, si passa dal tipo al carattere, giungendo alla formulazione che il personaggio è una persona reale.
Non sono d’accordo.
Il personaggio è tale solo nell’ambito della propria opera, al di fuori della quale diventa una reinvenzione estranea allo spirito iniziale. Che si voglia convincere lo spettatore che il personaggio è vivo e reale è coerente con il cinema. Il personaggio inteso in questo modo fa parte dello spettacolo, ma il teatro è un’altra cosa. Il teatro non è uno spaccato naturalistico e veristico sulla realtà, ma un’espressione vocale e gestuale che deve fare i conti non con le cineriprese ma con la musica, il canto, la danza, lo spazio e la coerenza estetica interna che compatta la scena dall’inizio alla fine.
Il personaggio cinematografico (a meno che non faccia il verso al teatro) non può fare l’eco a un partner, o cantare invece di recitare, o gesticolare al di fuori delle convenzioni, o indossare vestiti incongrui; quello teatrale sì.
L’interpretazione del personaggio tiene conto dello “spicchio di vita” presentato nell’opera testuale e solo dalle sue battute e da quelle degli altri personaggi desume e intuisce cronache e sentimenti extranarrativi. L’attore si concentra quindi solo sul testo, dal quale trae tutto ciò che gli serve per dare voce e corpo al personaggio.
Non si tratta solo di un’analisi psicologica, condotta sulla concretezza della drammaturgia, ma della concertazione di un personaggio con gli altri e della ricerca di tutte le modalità espressive vocali e dinamiche che lo rendono presente, vivo ed emozionante. L’attore da vivo si fa quiescente, il personaggio da morto si fa vivo.

Stanislavskij pone alla base dell’interpretazione due processi: la personificazione e la reviviscenza. Con il primo l’attore assume “il corpo” del personaggio: espressività fisica, voce, azioni fisiche coerenti. Con il secondo analizza con l’immaginazione il testo suddiviso in sezioni, identifica le emozioni e i sentimenti, li rivive, li proietta sulla personificazione.
L’attore diventa il personaggio solo grazie alle proprie qualità: immaginazione, memoria, fisicità, autocontrollo, sensibilità, conoscenza e cultura. Il personaggio, quindi, fin che non è interpretato non esiste; sulla carta esso è solo uno stimolo per l’attore.
Io dico che sulla carta egli è nel sepolcro e attende che qualcuno lo risvegli e crei le condizioni affinché possa rialzarsi e fare la propria parte.
Agli allievi fornisco un monologo-guida. Le battute del personaggio sono annotate con azioni testuali  e con azioni psichiche, seguite da un breve commento.
Azione testuale: tracciare il personaggio, fornire indicazioni di massima su spostamenti, movimenti e azioni. Azione psichica: la traduzione in azione fisica di ciò che si sente a livello emozionale e sentimentale, non secondo una gestualità codificata, ma cercando la reazione istintiva e primordiale del corpo senza filtri culturali.
Ecco un esempio.
CREONTE     

riceve il peplo dai bambini e lo porge a Glauce Glauce, mia figlia, indossa il peplo donato da Medea. postura regale, compie un ampio giro ----- il dono rappresenta la resa di Medea, è convinto di avere trionfato senza usare la violenza e senza danni eccessivi
accompagna Glauce allo specchio Corre allo specchio. Ne vedo l’immagine riflessa. disegna con le mani l’incanto dell’amore per la figlia ----- nello specchio vede la bellezza della figlia come se fosse quella del regno, un regno di felicità, armonia, pace
lo dice a Giasone Sono felice della sua felicità. abbraccia il genero ----- non ha figli maschi, ma il matrimonio assicura la discendenza
va da Coro, il popolo Ora che sono anziano, posso ritirarmi in un angolo d’ombra e dedicarmi alle cose piccole che danno sollievo. A lei e a Giasone l’onere del regno. il Coro si alza, lui si siede e lo invita a imitarlo, si guarda intorno, guarda lontano, come se vedesse il proprio futuro tranquillo ----- è stanco del potere, da tempo cercava uno come Giasone per affidargli il regno
scatta in piedi Qualcosa di terribile. si copre la testa, si chiude gli occhi, si tappa le orecchie, non vuole vedere e sentire, un presagio spaventoso ----- di colpo, collega l’incontro con Medea, la sua finta remissività, la sua fama, i doni
corre da Glauce, l’accoglie tra le braccia, i due barcollano senza meta La mia bambina impallidisce, trema in tutto il corpo, si accascia a terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. movimenti scomposti, segmentati, la testa che si piega da ogni parte ----- cerca di fare una diagnosi, ma sa spiegarsi che cosa succede
va a prendere il telo rosso e glielo avvolge intorno al capo Il diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i capelli. come un mare in burrasca, un’onda che si alza e si abbatte ----- pensa ansiosamente a come aiutare la figlia
ora anche Glauce è un’onda e i due invadono la scena Urlando, si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema si fonde alla carne. ----- un urlo interiore, il terrore, l’impotenza, il senso della fine
i due ora si scontrano, il telo li avvolge e li unisce come un corpo solo La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. un tremito convulso, la voce stridula e impastata ----- la decisione di non abbandonarla, di morire con lei
il telo rosso si allunga intorno a loro Corriamo abbracciati e diffondiamo l’incendio nella reggia. ora è come se danzassero avvinti ----- l’addio alla figlia
si fermano, si osservano, si scambiano accenni di carezze La carne si stacca a brandelli dalle ossa. gesti fluidi e lenti, come se si togliessero l’un l’altro la carne dalle ossa ----- la consapevolezza serena di morire insieme
schiena a schiena, calano seduti Muoio così, abbracciato a lei. E lei muore con me. ognuno dei due si passa le mani sugli occhi per chiuderli ----- l’accettazione del fato
a occhi chiusi, respiro profondo Il mio ultimo pensiero è per la vendetta: che possano morire anche i figli di Medea, che possa soffrire anche lei, ma cento volte di più. la testa cade, poi grugnendo la rialza e aiuta Creusa a tornare al posto ----- il tiranno si è risvegliato, l’accettazione della morte muta in rabbia e odio

Agli allievi fornisco anche un time-lapse testuale, ossia tutte le battute di un personaggio in successione, avulse quindi dalle circostanze, che vanno ricostruite. In quelle battute c’è tutta la linfa vitale per la definizione del ruolo.
Ecco l’esempio di Creonte, preceduto da alcune indicazioni-stimolo che facilitino l’analisi dell’attore.

ipocrita – maschilista – xenofobo – insicuro – vendicativo – legato a Corinto, alle proprie cose, alla figlia – poco influente sul corso delle cose, non ha il controllo che crede di avere - disgusto, diffidenza, ansia, amore, misoginia, odio, onore, orgoglio…
CREONTE      Glauce, mia figlia, indossa il peplo donato da Medea. Corre allo specchio. Ne vedo l’immagine riflessa. Sono felice della sua felicità. Ora che sono anziano, posso ritirarmi in un angolo d’ombra e dedicarmi alle cose piccole che danno sollievo. A lei e a Giasone l’onere del regno. Poi, qualcosa di terribile. La mia bambina impallidisce, trema in tutto il corpo, si accascia a terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. Il diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i capelli. Urlando, si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema si fonde alla carne. La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. Corriamo abbracciati e diffondiamo l’incendio nella reggia. La carne si stacca a brandelli dalle ossa. Muoio così, abbracciato a lei. E lei muore con me, straziata. Il mio ultimo pensiero è per la vendetta: che possano morire anche i figli di Medea, che possa soffrire anche lei, ma cento volte di più.
CREONTE     Non amo gli stranieri. Non parlano la nostra lingua, non adorano i nostri dei, hanno usi diversi, non ci si può fidare e infatti sono ladri e rissosi. Medea è della Colchide, la regione dell’oro che attrae avventurieri e predoni, un paese oscuro dove si pratica la stregoneria.
CREONTE     Anche Giasone è andato in Colchide con gli Argonauti, ma lui è un eroe e l’ha fatto per riavere il trono di Iolco che gli spetta di diritto. La sua discendenza aristocratica gli impone dei doveri, e lui si è sempre comportato bene. Purtroppo dalla Colchide ha portato qui una donna maligna. Quando gli ho offerto in moglie mia figlia Glauce, gli ho detto chiaro che Medea e i suoi figli non devono rimanere a Corinto. E lui ha accettato senza esitazioni. Così fa un uomo messo di fronte alle proprie responsabilità. Quando il destino chiama, nessuna esitazione, dritto alla meta.
CREONTE     Quella donna è pericolosa. Lo dicono i miei consiglieri, lo dicono i sudditi. Un domani potrebbe montare la testa ai figli, convincerli che il trono di Corinto spetta a loro. Capaci di suscitare le fiamme della guerra civile. Noi siamo gente pacifica.
CREONTE     Temo che con i suoi poteri faccia del male a me e a mia figlia. Via, via, non la voglio qui. Vada a morire lontano dalla mia città.

Da dove si parte? Dal silenzio, dal rilassamento, dalla disponibilità a “essere invasi” dal personaggio, dall’accettazione che i compagni non sono più quelli di prima, ma si dispongono a diventare (per buona parte) un’irreale realtà individuale. Di conseguenza, ci si chiama con il nome del personaggio, non con quello reale. I primi esercizi riguardano la presa di distanza da sé e la capacità di mentire. Il teatro è menzogna; ma, come ha detto il sofista Gorgia, la sua riuscita consiste nel fatto che lo spettatore sa e accetta di essere ingannato. Quindi: più è falso, più è vero.
Ci si muove in uno spazio che è come una scatola magica, un carillon con più figurine: lo si apre ed esse ruotano sulla musica, fino a che lo si chiude di nuovo. Lo spazio chiuso è rappresentato da un ampio telo bianco steso sul pavimento: quello è il palcoscenico-pianeta dove per breve tempo i personaggi vivono il proprio dramma, sempre come se fosse la prima volta.
Non lo vivono per il pubblico, ma per se stessi e per gli interpreti. Il pubblico è infatti negato e la performance non ne tiene conto. L’attore può dargli le spalle, può abbassare la voce, libero da ogni costrizione di comunicazione con la platea. Il teatro è un gioco, con le sue regole e la sua astrazione dal reale. Tutto ciò comporta la mancanza di una scenografia: solo il “suolo” bianco e gli oggetti, bianchi: scaletta per Medea, sedia girevole per Creonte, cubi per il Coro... L’unica macchia vivace è un telo rosso.

Ma non tutti gli attori della compagnia assumono il ruolo di un personaggio tragico. Tre di loro si muovono all’esterno del suolo bianco, portandosi dietro uno sgabello che consente loro di sedersi e diventare spettatori. Si spostano in platea, interagiscono con il pubblico. Il loro compito è di spiegare, commentare, esprimere reazioni emotive. Sono mediatori drammatici, fanno da raccordo tra il luogo chiuso della scena negata e il pubblico, nello stile brioso degli intrattenitori.
Una formula che abbiamo già sperimentato con “Le Baccanti”.

Finora, abbiamo punti d’inizio, complessi e stimolanti, ma non ancora una tecnica completa e strutturata. Ci sono idee da sviluppare, come la gestione della recitazione. Sono previsti ben tre cori. Uno è quello classico emanato dal testo; in questo caso è il popolo di Corinto. L’altro è quello dei mediatori-intrattenitori, la cui funzione scaturisce comunque dalla tragedia classica: fornire informazioni, chiarire punti oscuri, esprimere punti di vista ed emozioni. Ho intenzione di rendere corali anche alcuni momenti, quando tutti i personaggi riecheggiano o contrastano l’espressione emotiva di uno di loro. Questa conduzione corale interesserà anche i movimenti, ancora non so come nello specifico. D’altronde, nessuno di loro è personaggio senza gli altri. C’è un destino comune, la storia di ognuno che si intreccia con quella degli altri, una coesione, una sinergia nel bene e nel male che fa sì che nel luogo chiuso vi sia, alla fine, un solo personaggio, quello dello spirito dell’opera.

E i costumi? Nessuna scelta estetica che fa tanto sfilata di moda. E certo nessun mimetismo. Ecco qualche idea iniziale. Creonte è però già cambiato: un enorme soprabito di pelle nera e un elmo tipo longobardo o ostrogoto, trovato al mercatino dell’usato di Feriolo.




domenica 4 settembre 2016

LE METAFORE DEL GIARDINO

Dopo numerosi ripensamenti, mi sono deciso: pollice verso. Quando elimino una pianta sana e generosa, mi rimorde sempre la coscienza, quindi devo agire d’impulso: occhiata di sbieco, decisione pronta, esecuzione immediata. Si tratta di due esemplari di Goji. “Il Lycium barbarum è un arbusto caducifoglio appartenente alla famiglia delle Solanaceae, originario dell'Asia orientale e naturalizzato nell’Europa centrale e settentrionale. È una delle due specie di Lycium a frutti rossi che spesso si trovano in vendita nei negozi di alimenti naturali con il nome di bacche di Goji; l’altra specie è il Lycium chinense. Fra le due il Lycium barbarum è il più ricco di vitamine, sali minerali e antiossidanti ed è famoso in Asia per le sue bacche, annoverate nella farmacopea cinese” (da Wikipedia).

Per onestà, informo che il loro gusto non è certo invitante e che non sono tipo da industriarmi per essiccarle, rendendole più gradevoli. Al  momento della maturazione ne ingoiavo qualcuna, ogni volta pensando: bisognerà che trovi il modo di essiccarle (ma non sono il tipo).
La pianta è vigorosa, cresce in modo disordinato sparando lunghi tralci in ogni direzione, e ha pure le spine. Necessita di cure in quanto alcuni tralci seccano, e va comunque sostenuta e tenuta in forma. Insomma, tanto lavoro per qualche assaggio acido.
Tuttavia, l’ho piantata io, l’ho coltivata da quando era un arbustello di trenta centimetri, portandola a una maturità rigogliosa (fino all’invadenza) che la ricopre ogni autunno di miriadi di bacche, più belle da vedere (fino a un certo punto, dato il caotico intrecciarsi dei rami) che buone da mangiare.
In quanto alla salute, ho i mirtilli e il ribes nero, mi posso accontentare.

Poco accorto come al solito, la interro d’angolo tra il fico e il nespolo. Ogni volta faccio come se dicessi a un bambino piccolo lasciato solo in una stanza piena di giochi: sta’ lì fermo e aspettami. I primi anni gli passo accanto e storco la bocca: sembra non voler crescere (il Goji, non il bambino). Poi si fa un ceppo nodoso e robusto e lancia tralci come fuochi artificiali.
Mi è d’inciampo quando taglio l’erba, quando raccolgo i fichi e le nespole, quando lo sguardo si sofferma con disgusto sul groviglio.
Va bene la salute, va bene la gola, ma se il giardino non è anche il posto dello spirito va a somigliare a un supermercato. Anche il fico mi dà frutti in abbondanza (a me e alle vespe), ma riempie lo sguardo di storia. Il nespolo a primavera è un trionfo di fiori bianchi.
In conclusione, lo faccio a pezzi e poi con pochi colpi di zappa lo sradico.
Addio, Goji.
E questo è un sacrificio. 

Lui è la vittima immolata non a un dio, ma al mio ego che profuma di infinito (e basta alzare gli occhi alle stelle). Io, sacrificatore, ne condivido la pena, perché anche una parte di me è stata sacrificata. Quella delle illusioni (sicuro dell’efficacia e della bontà delle bacche e di un tocco di esotico), e anche quella dell’efficienza (non sono pragmatico, acquisto piante per capriccio e secondo l’estro del momento), e quella dell’amor proprio (anni di cure per niente), e infine quella degli affetti (ogni pianta del giardino è una presenza viva di frequentazione giornaliera, con conversazioni silenziose brevi e intense).
D’altronde, amo i sacrifici.
Ogni scelta è un sacrificio e io amo le scelte perché portano ai cambiamenti.
Eliminato brutalmente il Goji, ora l’angolo è armonico, equilibrato, idoneo alla raccolta dei frutti: bello e buono, come il mio teatro Kalon.
Ogni volta che coglierò un fico o una nespola mi ricorderò di te, Goji, sacrificato alla gestione kalon del giardino, punito perché hai deluso le aspettative dopo cento dilazioni, ucciso dal mio invecchiare che fissa con occhio storto ciò che richiede manutenzione eccessiva senza dare niente in cambio.
Tu sei morto, io sono vivo e sto meglio di prima.

È stato quindi un sacrificio utile. In tempi di accumulatori seriali, privatizzatori nevrotici, egotici egoisti e neocapitalisti psicotici l’idea del sacrificio potrebbe costituire una panacea. Non dico dell’elemosina che altro non è se non una transazione finanziaria: ciò che elargisco mi rientra in termini di autobeatificazione, immagine sociale e riduzione delle tasse. Dico della capacità di rinunciare a qualcosa con immediatezza e sollievo (come perdere peso, come recuperare una respirazione profonda, come raggiungere una vetta) e di cambiare il paesaggio interiore ed esteriore della propria esistenza. Tutto ciò che possediamo è legato a noi dai ricordi e fa parte della nostra storia, ma quando si elimina ciò che ristagna nel solaio della psiche non si fa altro che una potatura: l’organismo si rinvigorisce.
Scrivo di sacrificio non per obbedire a norme morali e religiose, non per farmi grande di fronte all’autorità o a un dio, ma per alleggerire me stesso di una parte dei pesi di cui si sobbarchiamo a volte senza buonsenso; e quindi per farmi più lieve. In questo farsi piccoli e leggeri di fronte all’immensità della vita sta un senso profondo di gioia e di adesione al senso vero dell’esistenza, che sta nel suo opposto, nella morte.

L’estirpamento del Goji fa seguito ad altri sacrifici, tra i quali il taglio di un pruno di una decina di metri che ramo dopo ramo ho fatto a pezzi da solo, in tre giorni di lavoro; e poi tutto in discarica.
Sguardi nuovi sul mondo, rinnovarsi.
E ora? Forse un cotoneaster germogliato spontaneo dove pongo la ciotola invernale per gli uccelli. Ne ho un altro che ha già raggiunto i due metri e questo non ha spazio per espandersi. Gli lascio fare l’ultimo inverno e poi…

Si nasce, si muore, così è.