giovedì 30 maggio 2013

SCUDO E PORPORA

Da quando la dea Atena si è interessata a lui, la vita di Albino Guidi si è fatta burrascosa. La dea lo invita a prendersi cura del giardino, ma attira su di lui l’ira di Ares e Ade. Albino vorrebbe solo scrivere e fare teatro e invece, tra una fioritura e l’altra, deve affrontare divinità spietate e mostri terrificanti. Anche in paese c’è chi lo osteggia dato che lui, spirito libero, non riconosce autorità civile e religiosa. Vita e morte intessono i suoi giorni, e a vincere è l’accettazione dell’ineluttabile.   
    
 Il romanzo costituisce il quarto episodio della serie di Albino Guidi (Un fauno in legnaia, D’Armonia di sangue, Se muore un Arlecchino).
Albino Guidi è un ex insegnante in pensione, scrittore e drammaturgo. La dea Atena entra nella sua vita, raccomandandogli di avere cura del giardino. Le apparizioni di Pan, un centauro, Ares… gli creano problemi in paese. Il prete, padre Conservo, lo accusa di satanismo.
Nel secondo episodio Albino accoglie Mnemosine nella filodrammatica che alla fine darà uno spettacolo straordinario nella piazza del paese con l’intervento delle Muse. La titanide è in fuga da Ares che se la prende con Albino fino quasi a ucciderlo. Sulla piazza apparirà lo stesso Zeus in trono per riportare l’ordine e mandare in esilio Ares.
Nel terzo episodio Atena manda da Albino le Cariti, note come Grazie, per guidarlo nella gestione di un gruppo teatrale di ragazzi. Nel frattempo, ritrova una vecchia conoscenza: un regista del Piccolo Teatro che lo invita a fare parte di una compagnia. In tutti e due gli spettacoli, sia quello dei ragazzi sia quello dei professionisti di Milano, è presente l’Arlecchino che viene però sostituito rispettivamente da Eros e da Ermes. Ade, il dio dell’oltretomba, per vendicare Ares cerca di uccidere Eros, crimine che grida vendetta. Nel teatro di paese appare lui stesso, sulla barca di Caronte, e scatena Echidna. Ma le Erinni e soprattutto Persefone intralciano i suoi piani criminosi e ristabiliscono l’armonia.


La dea Atena presenta ad Albino la moglie di Proteo, Ausia, signora delle metamorfosi. Deve aiutarlo a investigare sull’uccisione di una ragazza, nella quale è implicato un suo ex alunno. Le indagini lo portano in un lussuoso rifugio dove s’incontrano lo Scudo e il Porpora per abusare di giovani donne. I due hanno stretto un patto infernale con Ade. Nella “villa” dalle mille porte sono presenti spacciatori, faccendieri e autorità locali. Ci sono anche divinità mostruose come Eris e Aracne. Si farà giustizia? 




lunedì 27 maggio 2013

30 GIUGNO: DEATH WATCH




“Death watch. Pane e lacrime” è un monologo di Aquilino vincitore del Premio Lago Gerundo e pubblicato da Lampi di Stampa. Zaccheo, incarcerato innocente, diventa omicida in carcere per difendere la propria dignità di uomo libero. Condannato a morte.
Un monologo per tre attori (dai 14 ai 18 anni). Anzi, per quattro. Una presenza femminile neutra, che osserva e ripete parole: la madre evocata da Zaccheo e lo specchio del pubblico. Anche i due musicisti fanno parte del dramma. Tutti sono Zaccheo, il protagonista.
Tre voci presentano l’ambiente, un loculo sotterraneo nel quale si convive e si sopravvive tra guardie, guerrieri di cella e insetti. Tre voci raccontano  le relazioni difficili e sofferte con i vicini di cella, con il sistema carcerario e con sé stessi. La psicosi è in agguato, l’obesità anche, e pure la perdita della pietà.
Zaccheo, però, è un “uomo da poco”. Non si sa difendere dai violenti, ma si sa opporre, con la propria umanità, alla spersonalizzazione del carcere. Viene incaricato di cucinare i pasti per i condannati a morte. Egli non solo li prepara con cura, ma ci versa le proprie lacrime.
Quando gli propongono l’ergastolo come alternativa, egli rifiuta. Non può trascorrere tutta la vita sul Pianeta Vendetta, come chiama il sistema della giustizia. Sceglie di morire, ma a una condizione. Che gli lascino cuocere il pane. Un pane senza lacrime: non ne ha più. Lo spezza, lo offre a chi è venuto ad assistere all’esecuzione.

La regia divide in due parti il monologo. Nella prima il ritmo è sincopato, i movimenti più convulsi, la recitazione si muove tra registri diversi. Nella seconda parte, quasi un preludio alla serenità d’animo di Zaccheo che sta per affrontare il silenzio della morte, il respiro più ampio e pacato manifesta l’accettazione dignitosa di un destino ingiusto. Zaccheo non si sente solo. Lo sguardo interiore prende coscienza di quanta ingiustizia c’è al mondo. Non esprime odio, rancore e ribellione. Le sue parole sono un atto d’accusa consapevole e composto, ma implacabile.
Tre interpreti per un solo personaggio, tre celle appena accennate su un tappeto di pvc nero. Alle sue estremità i musicisti e un leggio. Dietro, una sedia che a metà rappresentazione ospita la madre. Il suo sguardo impassibile e nitido sottolinea la ferocia del trattamento subito dal figlio.
I tre interpreti non hanno come referente il pubblico, al quale volgono anche le spalle come se non esistesse. Essi dialogano tra di loro. Vivono in un luogo chiuso da barriere architettoniche, psicologiche e morali.  Non recitano una parte, la vivono per conto proprio, consci che l’aiuto, più che dall’esterno, può venire da loro stessi.
Luce bianca, senza effetti particolari.
Corpi in tuta arancione, musiche al computer contrapposte o armonizzate con la chitarra, voci di adolescenti e nient’altro.


INTERPRETI: Nicola Crippa, Gilberto Gerundini, Giovanni Gerundini (Zaccheo); Lorenzo Crippa e Carlo Fanchini (musica); Alba Galbusera (madre); ottimizzazione movimenti di Monica Ergotti.
SCENOGRAFIA: tappeto di pvc 420X210.
MUSICA: computer, chitarra classica, bongo.
LUCI: due piantane con due fari da 500 watt o luce bianca in sito.
PALCO: uno spazio di almeno 5 metri per 3.
DURATA: circa un’ora.
TECNEKE: ass. culturale Arci, Via Repubblica 50, 28047 Oleggio (NO).
Tel. 0321992140 (Aquilino) - 3470422513 (Alba) - 3461873758 (Marina).  C.F. 94069750035.

sabato 25 maggio 2013

PASSEROTTI: APPLAUSI APPLAUSI APPLAUSI


L’esordio dei “Passerotti” di fronte a un pubblico di genitori e amici è stato coinvolgente e convincente. I numerosi bambini presenti si sono divertiti molto e il pubblico ha apprezzato in toni entusiastici un lavoro che fonde teatro mimetico con l’astrazione degli esercizi di tecnica teatrale. Recitazione, quindi, di stampo classico, fusa con la ritmica del corpo e la coreografia su musiche o effetti sonori. Prendo spunto per approfondire due discorsi già iniziati: il rapporto con il pubblico e la partitura ritmica della recitazione.

Durante lo spettacolo, nonostante che in fase di apprendimento si predicasse e praticasse il contrario, alcuni interpreti non hanno resistito dal farsi anche spettatori di sé stessi e dei compagni, staccandosi dal ruolo per osservare divertiti le gag o per rendersi complici del piacere del pubblico, ridendo e rivolgendo sguardi fuori contesto. La pressione emotiva è stata troppo forte, favorita dal debutto in una sala di dimensioni ridotte (un centinaio di posti), stipata di pubblico riconoscibile, con la prima fila di piccoli spettatori a due metri dalla pedana-palcoscenico. Il bambino-attore ha voluto così dimostrare l’empatia per un pubblico che dimostrava in modo caloroso l’apprezzamento. In lui ribolliva un caleidoscopio di emozioni e sensazioni: sono bravo? vi diverto? davvero vi piaccio? sentite com’è divertente? continuate ad applaudire, vi prego! vedrete tra poco! Egli si è trovato a fare i conti con un sé stesso attore, bambino, figlio, compagno e complice, protagonista di un gioco impossibile da tenere tutto per sé, e quindi da comunicare in via diretta agli astanti. Insomma, il teatro in alcuni momenti si è trasformato in una festa in famiglia.
La dimensione dell’approccio diretto interprete-pubblico non disturba lo spettatore e anzi, soprattutto quando si tratta di bambini, lo coinvolge e lo diverte. Lo spettatore non ci vede un’imperfezione, ma lo sfoggio della spontaneità del bambino che, per l’adulto, è sempre spettacolare. 

Ma c’è un punto di vista diverso, quello del Nonteatro, che vede nel rapporto diretto attore-spettatore (quando esula da un piano di regia) una contaminazione della magia scenica, che per un istante viene perfino annullata. E non si tratta solo di ignorare il pubblico, atteggiamento che può scivolare nell’ostentazione e quindi nel rafforzamento della sua presenza, ma di crearsi una forma mentale che riduca la realtà al palcoscenico, negando ogni altra forma di esistenza oltre i suoi confini. Lo sguardo da spettatore dell’attore, che per un momento si fa pubblico, o il suo interagire con la platea, infrange la bolla che separa la scena dalla realtà quotidiana con lo stesso effetto di un risveglio brusco durante un sogno incantevole. Dal teatro magico passiamo al teatro della narrazione, del cabaret, dell’intrattenimento.

Uno spettacolo che dovrebbe durare cinquanta minuti viene ridotto dai bambini a quaranta. Hanno fretta di esprimere la battuta per levarsi dall’impiccio, fretta di arrivare nei brevi spostamenti, fretta di concludere per godersi gli applausi. Ma non è solo questione di fretta. Ogni pausa scenica non dovrebbe essere solo un momento di vuoto (che lo spettatore coglie nella sua inefficacia e ridondanza del niente), ma l’occasione per introiettare un passaggio, per sottolineare con lo sguardo, o un gesto minimo, o anche solo la respirazione l’episodio precedente; o per anticipare il successivo. Siamo nel campo del sottotesto e della pre-espressività. Ma come trasmettere una dimensione tanto irreale e a-fisica al bambino? Come farlo recitare, oltre che con la voce e il corpo, anche con l’animo? Come regolargli la respirazione in modo che coincida con le parole e con le emozioni e i sentimenti? Come parlargli di corpo interiore e di  anima esterna? Ho già scritto che buona parte del training teatrale, con il bambino, avviene per imitazione. Impossibile fargli imitare una disposizione d’animo interiore, invisibile. Ci si può arrivare per gradi. Si parte dal corpo e man mano si procede verso il suo interno, alla scoperta dell’universo nel quale nascono le emozioni, i sentimenti, i pensieri non razionali, i sogni. Il teatro non è solo tecnica. È educazione e conoscenza. E quindi tempo.

lunedì 20 maggio 2013

NONTEATRO O TEATRO NON


Venerdì 17 maggio 2013 si presenta l’associazione Tecneke presso l’Enaip di Oleggio. La sala contiene sedie per una cinquantina di persone e molte restano in piedi. Il direttivo stabilisce con i presenti una relazione informale. Illustra le finalità e il programma artistico, quindi fornisce alcune informazioni sui due trailer. Prima si rappresenta “Death watch”, una quindicina di minuti con la parte iniziale e quella finale. Poi dieci minuti dall’inizio di “L’ultima fermata”.
In questo pezzo, le attrici si relazionano con il pubblico, loro referente diretto. I loro sguardi espliciti portano il pubblico sulla scena, lo rendono non solo spettatore, ma anche partner, consentendogli di stabilire una complicità che viene apprezzata. Il pubblico è abituato dalla televisione a essere considerato parte dell’evento e personaggio attivo (può telefonare in diretta). Si sente rassicurato dal rapporto con gli attori, sia perché viene riconosciuto come testimone sia perché ha l’illusione di poter dare un contributo alla rappresentazione mediante l’applauso e il giudizio etico ed estetico. Ma ciò che più lo gratifica è una sorta di sudditanza espressa dai teatranti nei suoi confronti: siamo qui per te, recitiamo per te, ti concediamo l’arbitrio dell’applauso e dell’espressione verbale sia come apprezzamento sia come rigetto. Il pubblico è riconosciuto come presenza giudicante. Il teatro un tribunale: gli attori-imputati espongono i fatti e la giuria-pubblico esprime la sentenza. Oppure un colloquio d’esame: l’attore-candidato dà prova delle proprie capacità e l’esaminatore lo premia o lo punisce con un voto.
Ma, soprattutto, si rinnova, a teatro, il rito sociale della rete di rapporti: tutti in comunicazione con tutti, tutti con diritto di parola e di critica. Rassicurante. Se l’altro mi si rivolge, decide di comunicare con me, e attende il mio giudizio, è uno come me, non è un estraneo, non è una minaccia.
E' il teatro al quale siamo abituati. Di pensiero, di emozione, di trasmissione di valori e atteggiamenti, di comunicazione diretta. Dalla tragedia greca al Grande Attore ottocentesco, e da Pirandello ai narratori contemporanei, il teatro trova definizione nel pubblico, che lo giustifica e lo vitalizza. Gli innovatori del Novecento, a partire da Artaud,  hanno acceso laboratori, che ancora non si sono spenti, per dare un senso più profondo alla presenza del pubblico, facendola diventare partecipazione. Il Teatro della Crudeltà diffonde la Peste tra gli spettatori, ossia una visione dell'uomo più autentica e profonda, che conduca a un mondo nuovo. Ma c'è anche chi dal pubblico si ritira, come Grotowski, che non produce più spettacoli, ma solo laboratori al chiuso, ad uso e consumo dei soli attori. Teatro come indagine di sé e del mondo, delle relazioni con gli altri e con il cosmo.

Il pubblico, in un'altra prospettiva, non dovrebbe accedere al luogo della rappresentazione per sentirsi più protagonista dei protagonisti, per vedersi benservito fino alla piaggeria, per essere investito del potere di emanare sentenze e giudizi. La sua attivazione come “pubblico utile”, che contribuisce alla riuscita dello spettacolo con attribuzioni di senso individuali e diverse fino alla contrapposizione, pone l’attore nella condizione di asservire la propria interpretazione all’umore, alla comprensione e al gusto dello spettatore, conferendole la forma che meglio si adegua alla massima condivisione possibile. È inevitabile che l’attore si ponga la questione, in ogni momento dello spettacolo, se la sua performance sia gradita e apprezzata. Si preoccupa di intuire l’atteggiamento interiore del pubblico spiandolo e mettendosi in ascolto, creandosi l’aspettativa del plauso o perlomeno dell’approvazione. Tutto questo costituisce una distrazione enorme e limita l’efficacia delle sue interrelazioni sceniche. Qual è la finalità del suo agire, forse il piacere dello spettatore? E perché non il proprio? L’illuminazione dello spettatore? E perché non la propria? L’attore deve agire per sé, per i compagni, per la scena. Automaticamente la sua energia si riverbera sul pubblico, che l’accoglie come un dono.
Attore e pubblico sono in due dimensioni diverse e cercare di farle combaciare porta alla distruzione di ambedue: l’attore si contamina e diventa in parte spettatore degli spettatori; lo spettatore si sente in dovere di recitare la parte di chi assiste e giudica. La scena è un luogo proibito al pubblico, è ermetico, esclusivo. Se lo si apre, il pubblico si rivela invadente, inquinante, condizionante, disturbante.

Gli attori di “Death watch” non stabiliscono alcuna relazione. Sanno che c’è il pubblico, ma lo ignorano e non gli concedono niente, se non uno sguardo profondo e diretto in un solo momento e per un tempo breve.  Sono liberi di utilizzare lo spazio nella massima libertà, senza più l’obbligo del viso alla platea. Possono recitare dando le spalle. Un simile atteggiamento raggela. Il pubblico, che percepisce la chiusura del luogo scenico, non reagisce con distacco, ma acuisce la propria presenza come se dovesse aguzzare la vista e tendere le orecchie. L’attenzione è quindi accentuata ed è una reazione normale. Tutti osservano con maggiore distacco ciò che è nitido e vicino; mentre impegnano di più l’attenzione se l’immagine si nega per la lontananza o la mancanza di chiarezza.
Nello spettatore scatta il voyeurismo, il piacere di spiare dal buco della serratura, la ripicca di esagerare la cordialità verso chi si mostra restio, la curiosità di indagare su ciò che si nasconde. Egli, pur nella tensione di un’attenzione acuita, si rilassa perché l’attore non lo impegna in un rapporto diretto che a volte risulta imbarazzante e irrispettoso del reciproco spazio privato. Scopre che i rapporti sociali possono essere più un dovere che un piacere. Lo spettatore si sente responsabilizzato. Non è l’attore a doverlo attivare nell’attenzione, nella comprensione e nel godimento estetico, ma è lui stesso che deve farsi presenza empatica.
La carica drammatica non viene soffocata, ma evidenziata. Recitare nel luogo chiuso, tagliare fuori il pubblico dalla rappresentazione, non fa che accentuarne la forza espressiva.  assoggetta

Se pensiamo al teatro di “quarta parete”, quanto scritto sopra appare ingiustificato. Anche nel dramma borghese e soprattutto nel teatro realista il pubblico “spia” ciò che avviene sul palcoscenico. Ma l’atteggiamento dell’attore è del tutto diverso. Egli adegua ogni spostamento e ogni gesto alla consapevolezza di un pubblico frontale, con il quale stabilisce un contatto continuo di energia. Egli recita per il pubblico, non per sé stesso o per i compagni di scena.
L’attore di “Death watch” si comporta come un bambino assorto in un gioco appassionante. Egli esclude dalla sua sfera d’azione tutto ciò che lo circonda. Osservato, non si sente per niente disturbato e prosegue imperterrito nella sua condotta. Se qualcuno lo chiama, se qualcuno esprime giudizi, se qualcuno applaude… egli non sente. La percepisce a livello sensoriale, ma non elabora l’informazione, che ritiene inconsistente. Il suo gioco è vivo, ma la biologia che lo sostiene è aliena, appartiene a un mondo diverso, nel quale le regole della quotidianità sono stravolte. Il corpo non agisce per utilità, ma per puro piacere espressivo, raccordando muscoli, spazio, voce e ritmo.
La determinazione attoriale a condurre il gioco per sé e per i compagni, escludendo il mondo, accresce il fascino di quanto va facendo e crea, nello spettatore, l’incanto dell’incomprensibile e del segreto, del misterico e dell’esclusivo. Indirizza lo spettatore non verso l’immedesimazione con il personaggio, ma con l’attore. Perché è l’attore-danzatore che lo spettatore osserva, non il personaggio. Sente nascere in sé il desiderio di emularlo, di fare parte della congrega magica sul palcoscenico, di varcare la soglia del luogo chiuso per avvicinarsi ai rituali del corpo espressivo.

In conclusione, l’esclusione del pubblico è la strategia per la sua attivazione sensoriale. L’attore non lo blandisce per strapparne l’applauso. Non cerca in esso il riconoscimento della propria arte e la gratificazione dell’Io. Non lo aggredisce per esibire la forza interpretativa che può ridursi a effettaccio. Non lo rincorre con parole tornite per spingerlo ad affrontare esegesi testuali e registiche. Non si sottomette al suo umore variabile e al suo potere massmediale.
L’attore propone un gioco, fornisce un esempio di vita, conduce un agone nel quale è comunque vincitore, è ciò che fa senza esibirsi, vive una tempesta di emozioni e un idillio di pacificazione, si trasforma in ritmo, si tuffa nella parola e nuota per attraversare fiumi impetuosi, riconosce sé stesso nei compagni di scena, tutti agonisti senza competizione, dato che la contesa è con sé stessi, nella propria carne, nella propria verità.

Ecco, questo potrebbe essere il punto di partenza per un teatro Non o per un Nonteatro. La negazione del pubblico è una spinta in una direzione precisa. Verso la negazione della scenografia, della recitazione, della musica, della luce, della voce, dell’amministrazione quotidiana del corpo. Non si tratta di negazione come nichilismo.
Negare significa distillare. Togliere l’accumulo di pensiero convergente, di consuetudine e ritualità appassita, di mascherature tristi, di convenzioni insensate e ricominciare dal locale svuotato di tutto, uno spazio lindo da riempire con l’immaginazione.
Ricominciare dal niente o dal poco per inserire nello spazio chiuso solo l’essenziale significativo che nulla tolga alla centralità del corpo. I giochi d’immaginazione dei bambini non attingono la loro ricchezza dai centri commerciali, ma dalle scoperte di oggetti rifiutati, relitti di spazzatura, o reperti naturali, organici e non, o dalle evocazioni, formule magiche che creano situazioni.
Il Nonteatro ha come riferimento il corpo-mente in grado di sopperire con un gesto suggestivo o con l’utilizzo inconsueto di un oggetto alla mancanza di strutture. Il Nonteatro produce da sé lo spazio teatrale, l’arredo dello spazio e l’attore spazializzato in un contesto di parole. Il Nonteatro non è però ideologia integralista. Chi fa piazza pulita per rinnovare, non ha preconcetti. Utilizza ciò che ha a disposizione, e quindi lo spazio teatrale rifiutato può ospitare senza preclusioni luci led, radiomicrofoni, computer, impianti di amplificazione. Il teatro Non è forma mentale, non eresia pauperistica. Cerca la propria originalità eliminando strutture obsolete e sovrastrutture, verso un’identità nitida e forte.

sabato 18 maggio 2013

LA PRESENTAZIONE DI TECNEKE


Sala stipata venerdì sera per la presentazione di “Tecneke” all’Enaip di Oleggio. Di fronte al pubblico il direttivo composto da Marina Betti, Benedetta Bonacina, Silvia Camera, Gianna Cannaos, Ileana Corradi, Michela Criscuolo. La presidente Alba Galbusera illustra le finalità dell’associazione e il direttore artistico Aquilino presenta il programma. In cantiere ci sono due spettacoli. “Death watch” debutta a Borgomanero il 29 maggio ed è a Oleggio il 30 giugno, nel chiostro del Museo Civico. Sarà replicato all’Enaip di Oleggio e Novara e presentato ai giovani del festival “Novara one love” presso il circolo Big Lebowski a luglio. Testo e regia di Aquilino, interpretato da Nicola Crippa, Alba Galbusera, Gilberto Gerundini, Giovanni Gerundini; di Lorenzo Crippa e Carlo Fanchini sono le musiche originali dal vivo, di Monica Ergotti l’ottimizzazione dei movimenti. Vi si raccontano le ultime ore di un condannato a morte.




“L’ultima fermata”, di Aquilino, regia di Benedetta Bonacina, con Alba Galbusera, Michela Gatti e Monica Ergotti, presenta l’incontro tra una misteriosa immigrata e una donna che dovrebbe partire per una vacanza; è l’incontro tra due dimensioni parallele che trovano il modo di comprendersi e di avviare un percorso comune.
Prende la parola Alessandra Alessandri a nome della rappresentanza del Gruppo 46 di Amnesty International di Novara che espone i dati sulla pena di morte nel mondo e invita a firmare due petizioni. La collaborazione con Amnesty continuerà a ogni replica di “Death watch”.
Tommaso Banfi, affermato attore di Milano, ribadisce la validità di un teatro che nasce dal basso con ambizioni serie e motivate.
Subito dopo, il pubblico assiste ai trailer delle due opere che incontrano il favore del pubblico, manifestato con lunghi applausi. Un goloso e ricco rinfresco viene offerto dalla panetteria Manfredino e dall’azienda vinicola “Il Roccolo” di Mezzomerico.
Dalla presentazione: “Non abbiamo soldi, non abbiamo mezzi, non abbiamo una sede, ma abbiamo idee, capacità e determinazione. Non abbiamo niente, eppure abbiamo tutto. Partiamo da questo, che può sembrare poco e a me sembra tanto. Siamo convinti che non sia importante avere, e che prima di essere si renda necessario il voler fare. 
Vogliamo tentare di spingerci al di là della filodrammatica e del teatro d’evasione, verso un’idea di teatro che lo raccordi alla vita autentica e ai suoi significati universali. Un teatro di pensiero, parola, danza e musica, di coinvolgimento non solo intellettuale, ma anche ritmico e visivo. Un teatro che emozioni e risvegli curiosità e interessi, che non proclami e non moralizzi, ma raggiunga il pubblico in modo più incisivo e vero della televisione e del cinema.”

giovedì 16 maggio 2013

BAMBINI, PIRATI E APPLAUSI!

Grande, grandissimo successo. I pirati hanno incantato i coetanei nella pomeridiana ed entusiasmato gli adulti alla sera. Il pubblico non voleva più lasciare la sala. Complimenti a non finire, ma soprattutto una festa del teatro, una celebrazione del rapporto attore-spettatore che si è manifestata con un'adesione emozionata e divertita, un calore che si è  propagato ai cuori dei piccoli interpreti stampandovi un ricordo indelebile.
Nelle immagini, le presentazioni finali con il lancio dei palloncini.
Viva il teatro, e continui a vivere. 


martedì 14 maggio 2013

LA POESIA DI NICOLA

L'amico Nicola Cinquetti, autore di libri per ragazzi, mi ha mandato la sua prima raccolta di poesie "adulte". Poesie che raccontano di ragazzi e bambini, uno in particolare, il sé stesso che è stato e rimane bambino nel cuore. Visione dello sguardo e dell'animo, impetuoso e riflessivo, attento e sognante, variegato e vivace, questo bambino ricorda con nostalgia e curiosità, ancorato a un passato che diviene certezza del presente e spinta per il futuro. 

Quando scoprii d'essere al mondo, 
mi scoprii bambino.
Cosciente, ero ben cosciente
che ad altri erano dati altri destini
- mio padre, per dire, era un adulto - 
ma quello era il mio e mi calzava.
La storia che mi raccontavano
- che sarei poi cresciuto
per trasformarmi in qualcos'altro -
non era per me che una fiaba.

Tutto un battere di materassi
e un rimbombo di ringhiere
e lenzuola sciolte all'aria
come esanimi fantasmi invernali.
Sciamano fresche le nuvole
al sole di marzo, e le donne
- tutto un battere di materassi
e un rimbombo di ringhiere -
le donne chiamano a primavera.

Nicola Cinquetti, Poesie di via Bisenzio, Scripta Edizioni




venerdì 10 maggio 2013

DIETRO LA PORTA

Otto bambini di nove e dieci anni. Lasciati soli in una stanza chiusa. Dalla porta provengono: versi di Godzilla, gocciolii, pianti, urla, sirene, spari, latrati, carillon, musiche... I bambini-attori reagiscono agli stimoli sonori con: movimenti ritmici, sfoghi emotivi, giochi. Alla fine sarà l'immaginazione a fornire loro una via di fuga.

Teatro che non rifà il verso alla televisione. Il teatro non vive di soli lustrini e comicità superficiale. Un atto unico propedeutico: come muoversi, come esprimersi, come relazionarsi. Un corpo in movimento armonico. Una voce che sa variare. Una presenza scenica sicura. I bambini del primo corso di teatro organizzato dal Comitato Genitori sono stati chiamati "Passerotti" (era ancora vivo il Teatro dei Passeri, diventato ora Tecneke). I Passerotti hanno acquisito alcune tecniche di base per mettersi a volare. Per loro si è spalancata la porta di un luogo magico, il teatro. Con prove severe, giochi di improvvisazione, tante risate, (faticoso) apprendimento di attenzione e autocontrollo, disponibilità alla collaborazione e al rispetto per gli altri, i Passerotti volano sopra la platea accolti dagli applausi.

giovedì 9 maggio 2013

CHE COSA ABBIAMO IMPARATO DA “DEATH WATCH”


L’OPERA
“Death watch” è sulle scene, portato da Tecneke. Un gruppo di ragazzi dai 14 ai 18 anni.
Si tratta di un monologo. Piuttosto lungo. L’ho ridotto, ma non stravolto nella struttura. Non c’è problema nella riduzione di un testo linguistico per ricavarne il testo scenico. Nella mia scrittura (quella attuale, inedita, tre opere che segnano una svolta), prevedo una messa in scena virtuale che avviene nella mente del drammaturgo. Tutto vi è delineato, ma niente vi è materializzato, in uno scenario simile a quello del sogno. La messa in scena reale, a opera del regista, non crea conflitto. Per l’autore la drammaturgia si è già conclusa e ciò che avviene sul palcoscenico non è più di sua competenza. Viene eliminata la dicotomia insanabile che ha fatto ammattire Pirandello. Vengono negati i “diritti morali”. La drammaturgia da palcoscenico è libera per tutti.
Il monologo racconta in prima persona le ultime ore di un condannato a morte. L’argomento non ha condizionato più di tanto la messa in scena. Angoscia, protesta, dolore, dignità e ingiustizia sono già nel testo, non occorre creare un’ulteriore struttura registica per rimarcarle. Il testo chiede solo di essere vissuto da un attore che reciti e si muova sulla scia di un cantante-danzatore.

GLI ATTORI E I PERSONAGGI
Un monologo, un personaggio, un attore. Il monologo è stato invece affidato a tre interpreti più due musicisti e una figura femminile. Ognuno dei tre interpreti è il protagonista Zaccheo, e anche la guardia, il vicino di cella, il giudice… La voce del protagonista rimbalza da una gola all’altra, diventa una molteplicità di voci che tolgono senso alla sua individualità e lo fanno diventare molti, tutti. Ognuno è Zaccheo, ognuno è nella cella della morte. Fin dall’inizio ho rifiutato, nonostante le perplessità dei ragazzi, ogni indagine psicologica e ogni tentativo di recitazione mimetica. Mi è capitato di sentire leggere il monologo da attori dilettanti con anni di corso sulle spalle: un impeto e una visceralità che invece di facilitare la comunicazione la rendono ostica, erigendo un muro di espressività sovrabbondante e di falsità involontaria che taglia fuori il pubblico da ogni empatia. Ho invece cercato il ritmo della situazione, espresso dalle musiche originali al computer di Lorenzo e alla chitarra e bongo di Carlo; e condiviso dalla parola in movimento, in una coreografia continua che fondesse parola, musica e corpo in uno spazio vivo.
La mimesi non è rifiutata in nome di un astrattismo difficile da reperire con un testo letterario tradizionale; accanto a esacerbazioni vocali, si ascoltano i toni consueti della comunicazione, dal proclama alla narrazione, dal dramma allo sfogo accorato. Una struttura verosimil-naturalistica nella quale s’inseriscono espressioni verbali spazializzate che si accordano allo stato d’animo situazionale, con il doppio riferimento alla realtà interiore e a quella ambientale. 
Svincolare l’attore dal personaggio, renderlo disponibile a interpretare più personaggi e situazioni diverse, ci ha consentito di lavorare molto sulle dinamiche a tre. Abbiamo tolto l’attore dalla prigionia dell’interpretazione unica, facilitandogli il processo di rimanere sé stesso pur diventando un altro, aiutandolo a costruire la partecipazione attiva, sulla scia delle azioni fisiche di Grotowski, senza lasciarsi assorbire dall’immedesimazione. Ricorrere alla tecnica per rivivere con il corpo emozioni e sentimenti. Un modo di recitare ritmico e collettivo che porteremo nella prossima produzione (si spera Caligola di Camus), approfondendone i principi: controllo motorio, relazioni mutevoli con i partner, brusche variazioni di interpretazione e ruolo, attenzione costante al ritmo.
Che cosa abbiamo imparato? Che una interpretazione tradizionale, da teatro mimetico, da Grande Attore ottocentesco (mai estinto) avrebbe portato saturazione, noia, rifiuto di ascolto. Rifacendo il verso a televisione e cinema. Che un testo in apparenza “pesante” viene alleggerito, nella sua ricezione da parte del pubblico, dal ritmo e dal movimento e dalla flessibilità della voce. Che l’abbinamento personaggio-interprete può essere rivisto e diventare personaggio-interpreti o personaggi-interprete. Che l’immedesimazione nel personaggio può essere frammentaria e discontinua e comunque non impedisce il controllo di sé e sull’ambiente. Che tanto e tanto c’è da imparare sulle azioni fisiche legate alla visione dell’attore/danzatore di Artaud, Mejerchol’d, l’ultimo Stanislavkij, Grotowski, Barba… e tanto da imparare anche sulla voce. E anche sulle complicità, sulle cooperazioni, sui sottili legami espressivi che tendono a compattare tre interpreti in uno solo, senza alcuna invadenza della privacy reciproca, senza prevaricazione psichica. L’unificazione delle diversità avviene nella fede comune nel gioco, e nella convinzione che nessuno, da solo, può portare a compimento ciò che va fatto insieme.

LO SPAZIO
Il palcoscenico è costituito da un tappeto nero in pvc di quattro metri e venti per due e dieci. Minuscoli segnalini delimitano lo spazio individuale: una cella di un metro e quaranta per due e dieci. All’inizio, le celle hanno i muri, segnalati dal gioco mimico. A un certo punto lo spazio si amplia: le docce, le celle contigue, sopra e sotto e di lato e di fronte, la stanza dei visitatori… Le pareti scompaiono, i tre detenuti Zaccheo passano da una cella all’altra. La loro voce raggiunge i compagni di morte, il giudice, il pubblico che assiste all’esecuzione, l’umanità intera. Uno spazio, quindi, che da claustrofobico si fa cosmico. Non ci sono oggetti di scena. Solo tre palline da bouncing. E la sedia, che la madre porta in scena per assistere allo spettacolo da un punto di vista contrapposto, con il viso al pubblico, facendosi lei stessa spettatrice, presenza muta: osserva i detenuti Zaccheo e vede la gente che osserva i detenuti Zaccheo e lei. Lo spazio si annulla nella scena finale, quando i tre attori si spogliano e lasciano nelle celle le tre tute arancioni; diventa lo spazio della morte; e poi lo spazio del compianto quando la madre s’inginocchia con una tuta in grembo.
Abbiamo imparato che non serve scenografia per costruire l’ambiente della prigione. Sono sufficienti le mani che costruiscono i muri e le suggestioni della parola in movimento e della musica che ritma il corpo. Abbiamo imparato che un oggetto in scena dev’essere utile e utilizzato. Viene inserito per essere usato, non per motivi estetici. E che un costume (in questo caso le tute arancioni) può fare spettacolo in assenza di scenografia, sia per il colore sia per il distacco che crea dal vestito quotidiano. Anche in questo caso, la visione non è statica, non è il bel quadro estetico di Diderot, ma è dinamica: parole, volumi e suoni in movimento.
Tutto ciò che manca sulla scena (cella, sbarre, branda, sgabello, wc, lavandino, scatole…) non crea un vuoto, ma uno stimolo invisibile a ricreare lo spazio con l’immaginazione. L’attore viene spinto verso una rappresentazione mentale e virtuale, nella quale la consapevolezza della situazione viene eccitata e fortificata. Paragono questa scelta alla dinamica del mimo (vedi Decroux e teatro orientale e in genere il teatro che Barba chiama eurasiatico nella sua ricerca di antropologia teatrale) che effettua un’azione avviando l’azione contraria e assorbendola poi in quella da portare a termine. L’inconciliabilità dei contrari, la chiama Alfio Petrini. Sfruttare sia la presenza sia l’assenza. Ecco, abbiamo imparato che il teatro è povero. Fa a meno di lustrini e finzioni scenografiche e il poco che utilizza lo carica di simbolo. Abbiamo imparato che tutto il nostro teatro sta in un bagagliaio: tappeto, tute, computer, chitarra, bongo… E che non abbiamo bisogno di un edificio teatrale, per rappresentarlo. Ci basta un salone con una presa di corrente. Possiamo utilizzare anche le luci di sala. Un teatro con poche esigenze.

IL PUBBLICO
Abbiamo imparato che il pubblico non esiste. Per essere precisi, esiste solo quando vogliamo noi. Gli interpreti non si pongono problemi di comunicazione e di relazione con un gruppo di spettatori seduti di fronte a loro. Immaginano un pubblico circolare e spettrale, che non può interferire con il loro gioco teatrale perché è lontano e invisibile. La situazione è quella di un gruppo di bambini concentrati in un gioco talmente intenso che perdono ogni contatto con la realtà. Non vedono chi li vede e li osserva, non hanno coscienza del tempo che scorre, vivono in uno spazio-altrove, stabiliscono tra di loro relazioni inusuali e immaginarie, comunicano anche con filastrocche, movimenti simili a una danza, vocalizzazioni inconsuete. A un tratto, decidono di levare lo sguardo sull’adulto che li spia, ed è uno sguardo alieno, che viene da un altro mondo, uno sguardo superiore, quasi inquisitorio. Non si aspettano commenti al proprio gioco, non ne vogliono proprio. Il loro gioco è segreto e riservato, non vogliono farne partecipi gli altri.
Gli interpreti di “Death watch” sono liberi di orientarsi in qualsiasi direzione, di recitare con le spalle al pubblico, di muoversi in una bolla che non ha più punti cardinali. Si tratta, più che di una consegna rigida, di una forma mentis che li libera dall’oppressione dello sguardo che osserva, giudica, critica. A loro non interessano né critiche né consensi. Non danno alcun valore all’applauso. Non considerano gli spettatori come persone presenti, ma come simulacri che rappresentano l’umanità. Sono gelosi del proprio gioco scenico e non ne fanno partecipe nessuno. Lo spettatore può solo spiare.
Si tratta di un rifiuto del pubblico? No, vale ancora il principio di attivare mediante il contrasto, di fare uso degli opposti senza eliminazioni, di attivare il pubblico non con un invito esplicito (che spesso genera invece opposizione o indifferenza) ma con la mancanza di ogni tipo di attivazione, che è invece nelle aspettative. L’attore si pone su un piano superiore, dal quale inverte il rapporto consueto: è lui a osservare, senza guardarlo, il pubblico (la funzione della madre e dello sguardo diretto dei tre interpreti); è lui a relegare gli spettatori su un palcoscenico e a giudicare la loro rappresentazione, cioè la loro vita.
Abbiamo, insomma, imparato che quanto avviene sulla scena è di pertinenza nostra, un gioco esclusivo di comunicazione indiretta. Allo spettatore arriva, di riflesso, ciò che è già arrivato agli attori. Abbiamo imparato che lo spettacolo non consiste nel rapporto dell’attore con il pubblico, ma in quello del pubblico con l’attore. Spetta allo spettatore relazionarsi e attivarsi per cogliere un significato estetico ed etico di ciò che vede. Non gli sono concessi né applausi né interferenze di altro tipo. Il flusso di recitazione lo investe senza soluzione di continuità. Se vuole rendersi “utile”, il pubblico deve vincere l’inerzia e stabilire un contatto di propria iniziativa. Ciò a cui assiste è un gioco rituale e non può parteciparvi, ma può desiderare di farlo.

   

mercoledì 8 maggio 2013

PASSEROTTI 13: SESSO E SPAZIO



L’osservazione riguarda solo un piccolo gruppo, otto bambini, quindi non è generalizzabile, ma mi è di stimolo per la didattica. Dopo una fase iniziale di disorientamento comune di fronte alla strutturazione dello spazio in volumi, settori e percorsi, affiancata all’utilizzo del corpo in modalità non quotidiane e già sperimentate, si è assistito a una diversa assimilazione da parte di maschi e femmine.

Le consegne non erano complesse, ma richiedevano una riformulazione mentale del corpo nello spazio, diversa da quella appresa nel gioco e nello sport. Si doveva, per esempio, operare spostamenti in una griglia, seguendo percorsi stabiliti la cui memorizzazione non era difficile, solo inusuale.

Ho visto le femmine adeguarsi infine alle richieste e occupare lo spazio scenico con la sicurezza acquisita dalla ripetizione e dalla coordinazione movimento-parola. I maschi manifestano ancora adesso qualche insicurezza, soprattutto di fronte alla segmentazione di movimento-parola. Prendiamo in considerazione questo esercizio: dirigersi verso un partner, rivolgersi a lui con determinati gesti e con una frase; spostarsi di due passi in direzione del pubblico ed esprimere un a parte con cambiamento di tono e di gestualità; tornare dal partner e completare la battuta; lasciare il partner e riprendere la postazione iniziale con un altro breve a parte  verso il pubblico, implicante una sosta.

Non è facile. Bisogna viaggiare su due binari paralleli, utilizzando ora l’uno ora l’altro, con fluidità e repentini cambiamenti espressivi. Ebbene, i maschi vanno in confusione più facilmente. Essi prediligono una comunicazione scorrevole e ininterrotta, monotona e lineare. Tendono a risolvere ogni prestazione con la sintesi e la velocità. Amano il gesto di forza, la corsa, l’impeto, la confusione. Quando si trovano a dovere operare un controllo stretto sui movimenti, sui gesti e sulla voce si sentono a disagio, manifestano una forma di pigrizia mentale che li spinge verso la superficialità e l’approssimazione. Molti di loro, in virtù di questa ritrosia a rientrare in uno schema, prediligono l’improvvisazione e la variazione spontanea, che spesso però si riducono a intervento a sproposito.

Anche le ragazze sono dotate di inventiva, ma la manifestano quando viene richiesta, non nei momenti di applicazione degli schemi. Se devono seguire delle istruzioni, le seguono assecondando la consegna. Se, invece, viene loro richiesto di inventare e immaginare, allora liberano l’immaginazione. Insomma, da una parte una struttura più anarchica, dall’altra più statalista.

Ecco che il teatro obbliga i maschi a porre un freno all’esuberanza e al disordine mentale e comportamentale, e stimola le femmine ad attingere alle proprie risorse creative, spingendole anche verso la divergenza e la rottura di abitudini e pressioni sociali. Un invito, in ambedue i casi, a uscire dai ruoli codificati per esplorare nuove modalità di stabilire relazioni. 

sabato 4 maggio 2013

LE POESIE DEI MURI: laboratorio in biblioteca


LE POESIE DEI MURI
Biblioteca Civica Enzo Julitta” di OIeggio
in collaborazione con l’I.C. Verjus, Scuola Secondaria, classe I B
a cura di Aquilino

Laboratorio per riavvicinare gli alunni alla poesia a partire dalla semiotica. Identificazione del segno come qualcosa che rinvia a qualcos’altro. Utilizzo della parola come materiale per costruire e decostruire, formando frasi che indirizzino verso il pensiero divergente come capacità di produrre una gamma di possibili soluzioni per un dato problema, in particolare per un problema che non preveda un’unica risposta corretta.

La procedura si avvale di una macchina fotografica digitale, di un computer in cui riversare le fotografie e di una stampante. La fase preparatoria, in forma di training, avviene in classe.
PRIMA FASE, classe I B, mercoledì 24 aprile 2013
L’animatore introduce la realtà espressiva della poesia e scrive sulla lavagna tre parole dettate dagli alunni. Ogni parola produce una famiglia di sei termini per attinenza e suggestione. Dalle combinazioni anche casuali di una parola per gruppo si formano frasi di tre parole che, elaborate in via formale o narrativa, costituiscono la poesia.
Gli alunni fotografano dettagli delle pareti e degli oggetti, producendo immagini di tipo astratto. Le immagini vengono presentate sulla Lim, lavagna interattiva multimediale. 
A un’immagine vengono abbinate una decina di parole, su stimoli dell’animatore che guida l’osservazione di spazi, linee, colori, forme. Ogni alunno o gruppi di alunni combina le parole scritte sulla lavagna per giungere a un prodotto che contenga suggestioni inusuali.
SECONDA FASE, la classe I B accompagnata dall’insegnante Francesca
Ferazza, in biblioteca, giovedì 2 maggio 2013
Gli alunni ripetono il procedimento appreso in classe. Fotografano dettagli sui muri e procedono alla lista di parole e alla composizione della poesia. Le immagini vengono stampate e sotto ogni stampa viene scritta la poesia. Le stampe vengono esposte per i visitatori della biblioteca.