giovedì 3 dicembre 2015

UN RACCONTO STORICO: IL MAVLET DEI LUPI

Aquilino
Il Mavlèt dei lupi




MANIFESTO a Milano giugno1728: “Ritratto della Fiera Bestia veduta sul contado di Novara dove ha fatto e sta facendo strage di uomini e donne di ogni età, particolarmente nel territorio di di Oleggio,  Ghemme, di Momo e di Barengo e come si è ragguagliato da lettere e notizie riportate nella pubblica Gazetta di Milano n° 26 del 30 giugno 1728”


Nel giugno del 1728 avevo otto anni, essendo nel ’20 nato il 31 di dicembre, giorni di falò nelle cascine per bruciare sia l’anno vecchio sia gli spiriti maligni che gli si erano accumulati addosso. E forse uno spiritello me lo portavo anch’io nel cuore, come sospettavano in molti, dopo che il mio gemello era venuto alla luce morto; e così fino a due anni prima mi era capitato di sentirmi chiamare “il gemello vivo”. Poi altre vicende di vita s’erano portate via il sospetto che il fratellino l’avessi ammazzato io nella pancia della mamma. Questo, e il giorno della nascita infuocato come un inferno, avevano fatto di me uno da tenere d’occhio. Forse fu proprio il sospetto a rendermi irrequieto e passionale, impulsivo e temerario. Battezzato Pietro (e Paolo il morticino), fui chiamato dai più il Mavlèt per la mia abilità con il falcetto, adoperato con l’incoscienza del bambino che vuole bruciare i tempi per entrare a far parte del mondo degli adulti. Non ero un bambino benvoluto, soprattutto a causa delle piccole prepotenze e di una sanguigna predisposizione alla rissa, con la quale m’illudevo di risolvere i contrasti. Eppure non pativo solitudine. Avevo il mio esiguo seguito di succubi, del quale la coetanea Margherita Spagnoli era la regina. 

Il giorno 8, un lunedì, accompagnavo mio padre al mercato delle bestie,  avendo da rimpiazzare una capra che ci era morta, del cui latte mia madre aveva necessità. Allora non lo sapevo, ma dopo la mia nascita mia madre non era più rimasta incinta. L’aveva considerato un brutto segno divino, una punizione per chissà quali colpe non tanto sue quanto di qualcuno che aveva vicino, o il figlio o il marito, per cui si negò a mio padre che s’aggiustò con una vedova consolatrice; e con me fu sempre più brusca. Altri figli non potendo avere, mio padre si legò a me, l’erede. E le mie intemperanze le accettò come forza di carattere, lasciando a mia madre il compito, a lei gradito, di raddrizzarmi all’obbedienza con parole e con fatti per me dolorosi.
Nel giorno di mercato c’era una ressa straordinaria di cui i negozianti si erano più volte lagnati con il podestà. Con cinque mulini e sette forni, e più di cinquemila abitanti, Oleggio attirava moltitudine dai borghi di confine. Mio padre ne godeva i frutti, dato che il suo lavoro di carradore era stimato fin nel Milanese. Il lunedì era quasi impossibile entrare in un’osteria, c’erano vacche ovunque, non solo in piazza, fin sotto i portici; e non scherzo se dico che più volte una capra o un asino erano entrati in una mescita suscitando l’ira dell’oste.
“Ci lasciano tanta merda da spazzare, vero” rideva mio padre”, ma basta chiamarla concime e vedere che gli affari prosperano, che c’è da lamentarsi?”

Pure in quella confusione di compravendite e baratti, richiami striduli e colloqui animati, incidenti come il toro che scappava tra la gente facendo qua ridere e là gridare di paura, la notizia dell’accaduto piombò limpida come un mastello di acqua ghiacciata sulla testa di uno sprovveduto.
Mi stava parlando un fattore amico del papà, il Gerolamo Bonini, che nonostante la mia bizzarria mi aveva in simpatia.
“Mavlèt” mi contava accarezzandomi la testa, “ci ho un campo da diserbare e se vieni te in quattro e quattr’otto…”
Ma s’interruppe per l’agitazione allarmata che ci crebbe intorno. Ci vollero alcuni minuti per capire che un lupo aveva fatto disgrazie giù in direzione del porto, dove cinque garzoni stavano trasferendo le vacche da un pascolo all’altro. In zona non era una novità, quella del lupo. Si sapeva di assalti a Ghemme, nella primavera. Ma soprattutto rimbalzavano di qua e di là le storie di decine di morti sbranati portate in paese dal biellese e dal varesotto; e il mio papà era uno di quelli, con il suo lavoro, che raccoglieva i racconti meglio della Gazzetta. Io, che mi tenevo in disparte per non farmi cacciare, sentivo tutto e tutto venivo a conoscere. Di come il lupo impara che la preda umana è facile da catturare se è un bambino o una bambina; e di come trasmette l’esperienza agli altri lupi; e anche di come è goloso del sangue, per cui comincia il pasto dalla gola; e di come ci sono lupi che forse lupi non sono, ma spiriti maligni, diavoli, creature dell’inferno; e di come bisogna seppellirli in una fossa profonda quattro braccia annegati dentro la calce viva.
Cogliemmo una voce:
“… l’hanno portata nello spedale, ma ormai…”
“Tu sta’ qua con Gerolamo” mi comandò mio padre lanciando un’occhiata all’amico. Feci segno di sì, serio, ma era una delle mie tante bugie. Il Bonini troppo infervorato a chiacchierare per farmi da guardia, me la svignai verso la chiesa della Santa Maria Annunciata, dove c’era lo spedale. Lo sapevo che non mi facevano entrare, lo sapevo che là dentro c’era qualcosa che non dovevo vedere, ma nessuno mi fermava mai, quando mi fissavo di fare qualcosa. 

Ci arrivai con una corsa a urti e spintoni, gettai un’occhiata giù dalla costa dei Mazzeri e vidi la folla che arrancava per venire a sentire la brutta notizia; e là sulla porta nord della chiesa trovai un muro di gente che non potevo valicare. Mio padre ci era passato oltre perché faceva parte della Confraternita, ma io… Approfittai della sosta per aguzzare le orecchie. Sentii una voce acuta, mi feci sotto più che potei e intravidi il mio amico Giuseppe Vanoli. Lo stordivano di domande e lui, con gli occhi stregati di lacrime, raccontava tra i singhiozzi. La bestia era lunga due braccia, alta uno e mezzo, con la testa porcina, le orecchie cavalline, il pelo caprino lungo e folto, bianchiccio sotto il ventre e anche sulla coda lunga, ma rossiccio e corto sul dorso, con le zampe sottili, il piede largo, le unghie lunghe e grosse, e largo anche il petto, e stretto il fianco... E tutti annuivano perché era davvero bravo a ricordare e a contare facendosi coraggio; ma tanti li vedevo che si scambiavano occhiate come a dire: è un lupo o un drago? un mostro o un diavolo?
Non persi altro tempo, girai dietro il campanile e trovai sgombra l’entrata del prete, così la chiamavamo, proprio dirimpetto alla casa parrocchiale. M’infilai dentro con il fiato sospeso, dato che non entravo mai volentieri nella chiesa dell’Annunciata. Tutti noi bambini sapevamo che sotto il pavimento c’erano gli scheletri di quelli che erano stati impiccati nel campo della forca di Galnago, poco fuori il borgo. Sapevamo pure che gli impiccati erano morti non-morti, perché la loro anima non la volevano nemmeno i diavoli dell’inferno. E quindi se ne stavano là sotto a prendere a pugni la pietra e un giorno o l’altro sarebbero venuti fuori e allora ci sarebbe stata la fine del mondo. Infatti, fissavamo con orrore il pavimento che in più punti si era incurvato, come se lo tirassero dal basso. Qualcuno sentiva anche bruciare le piante dei piedi e si metteva a saltellare intanto che sentiva messa guadagnandosi sberlotti dalla madre.
Lanciai un’occhiata alla madonna di legno rivestita d’oro, che per fortuna se ne stava lì a controllare e a proteggerci.
E sentii il mio respiro forte che suonava tutta l’ansia che avevo dentro.

Me ne sto rasente al muro, convincendomi di essere invisibile; non posso avvicinarmi di più, mio padre è là davanti all’altare maggiore; discute con i suoi pari; se mi vede, mi sbatte fuori a calci. L’occasione propizia arriva presto. La ressa si scompagina per l’arrivo del prete in compagnia di cinque clarisse del monastero di San Giuseppe. Approfitto della confusione (tutti si spostano e hanno da raccontare) per mescolarmi ai chierichetti. Penso: li ha fatti venire per l’estrema unzione? Seguo il prete oltre la soglia dello spedale dei poveri addossato alla chiesa e dal buco d’ombra in cui mi calo la vedo come se ce l’avessi qui a portata di carezza, Margherita Spagnoli di anni otto appena compiuti, la mia regina. Non ha più il naso, non ha più un braccio, i vestiti laceri hanno il colore del sangue tiratole fuori del corpo in un colpo solo, la gola squarciata e così il petto, e ha gli occhi chiusi e la bocca aperta, ma non ha un’espressione di paura, è come addormentata e mi dico che sta facendo un bel sogno e che non ha nemmeno sofferto.
La fisso, la vedo e non la vedo, mi dico è Margherita e mi dico non è Margherita, la vedo e vorrei che aprisse gli occhi e mi salutasse e invece la vedo e penso: copritela, poveretta, che così nessuno deve vederla.
Sento urlare, è la madre, arriva come una tempesta che spinge via tutti e si abbatte sulla sua bambina straziata.
Nello stesso momento suona la campana a martello e non passa un’ora che suonano quelle dei cantoni; e immagino che anche nei paesi vicini i parroci diano l’ordine, e questo è l’allarme e l’ultimo saluto a Margherita, così come a martello rintocca il mio dolore.
Scappai via, con l’odio per i lupi nel mio piccolo cuore già tanto agitato.

Mentre correvo verso casa, giù in valle il lupo, giunto sotto San Donato, azzannò un uomo e tre donne, si avventò contro la Marta della cascina Bellora uscita a quietare i cani che lo respinse con la forca; morsicò quindi la sorella Domenica e un’altra donna. Raggiunta un’altra cascina aggredì una ragazzetta e un bambino e deviò verso i boschi del fiume azzannando Domenico Rega alla mascella, e Marianna Bonis al fianco. Ripresa quindi la fuga verso sud morsicò alla gamba una pastorella salvata dai cani e spaccò il naso a un carrettiere che se ne liberò a frustate.
Nei giorni seguenti non si parlò d’altro. La domenica fu organizzata una processione con messa solenne, alla quale si può dire che parteciparono tutti gli abitanti. Si erano da pochi giorni lasciati per il funerale di Margherita ed erano ancora confusi dal dolore e dalla paura. Su richiesta dei consoli, da Novara fu inviato un distaccamento di cavalleria per stanare la bestia che però (ma era sempre la stessa?) si era spostata di nuovo a Ghemme, dove sbranò un neonato abbandonato nella culla dai genitori in fuga. Nel corso del mese si contarono sedici aggressioni e all’inizio di luglio, da Milano, giunse il Capitano delle Cacce per comandare un esercito: trecentocinquanta uomini con tridente e falce e altri centocinquanta armati di schioppo, tra i quali il mio papà. Dal quale mi presi uno scappellotto perché ripetei per tre volte la mia supplica pressante di partecipare alla battuta con il mio falcetto.
Dopo tanto succo d’erba, voleva sangue di lupo per vendicare Margherita.
Non trovarono il lupo, solo la testa e un braccio di un tale Bartolomeo Perazzone di Cavaglià, di anni nove, ch’era di passaggio con la famiglia e si era appartato per un bisogno.

La calata della bestia sui prati di pascolo fu il motivo per cui imparai prima del previsto l’arte del carradore. Mia madre era sempre più assente verso gli altri e più attenta ai propri mali e alle proprie necessità spirituali, per cui passava più tempo in chiesa e dallo speziale che in casa. Fu quindi mio padre a decretare che non andassi più a fare erba per le conigliere o a tenere animali al pascolo. Resistetti più che potei ai suoi comandi, dato che mi toglieva la possibilità di frequentare i coetanei. E poi m’ero fissato che prima o poi avrei incontrato il lupo assassino e gli avrei tagliato la testa.  Mi carcerò nella bottega insieme agli artigiani e agli apprendisti, a fare il poco che potevo, esortandomi a imparare. A mio padre volevo bene, non riuscivo a portargli astio; tutto l’odio per la mia situazione lo riversai sui lupi. Era colpa loro se la mia infanzia finiva e cominciava l’età adulta.
Dopo qualche mese di mugugni, il carattere esuberante, la curiosità innata e l’abilità per le cose pratiche mi spianarono il terreno verso un’accettazione serena del destino; e mi guadagnai il rispetto e l’amore di mio padre che mi vedeva apprendere in fretta.
Quando compii quattordici anni, mi regalò uno schioppo.
“In giro non lo porti, se non ci sono anch’io. E spari quando te lo dico io” mi disse serio.
Accettai senza recriminazioni, essendomi fatta la convinzione che procedere un passo dopo l’altro premia la pazienza prevenendo le cadute. Il mio carattere d’impulsi e ripicche si piegava al vento della vita. Mi misi quindi in attesa di un’altra caccia al lupo, che purtroppo non giunse. Le bestiacce attaccavano tutte nel biellese, facendo grande strage. Le poche venute giù dalle colline seguendo il Ticino trovarono contadini armati che vegliavano sui piccoli mandriani, come tanti editti avevano raccomandato. E furono inforcate e portate in piazza come trofei per convincere la gente a tenere alta la guardia.
Io fremevo dalla voglia di correre nelle terre infestate per combattere contro i demoni che mi avevano portato via la piccola Margherita. Il cui ricordo, però, era sempre più sbiadito. Non sbiadiva l’odio per i lupi.
Con il tempo, imparai non solo a costruire e vendere carri, ma ad andare d’accordo con la gente, per quanto qualcuno mi trovasse sempre un poco brusco.
“E i lupi, Mavlèt?”
A chi me lo domandava, lanciavo un’occhiata che non gli faceva fare altre domande.

Mi sposai che avevo appena diciotto anni nel maggio 1739, quando da tre mesi eravamo diventati sudditi del re Carlo Emanuele III di Savoia e sottoposti all’autorità del governatore il marchese Rivarolo, di stanza a Novara. Austriaci o savoiardi, noi si pensava a costruire carri e la vita ci portava come una corrente di fiume, che quando si ferma fa palude. Feci tre figli, e a tutti e tre insegnai come fa il lupo, che sta in agguato, sceglie la preda facile, balza fuori come una saetta e se la trascina in un posto tranquillo dove l’azzanna alla gola e la mangia. Di stare attenti soprattutto in primavera, gli insegnai, che le lupe hanno i cuccioli da nutrire.
Fu nel 1765, io di anni 45, che mi ritrovai di nuovo nella tempesta dei lupi mangiatori di uomini e nella bufera dei lupi assatanati, i lupi rabidi. Rabbiosi come lo diventavano le prede ferite, destinate a una morte atroce.
Ero con il mio figliolo maggiore, Paolo, presto a sposarsi con una brava ragazza figlia di panettiere, che s’andava a Milano per una fiera, partiti a notte ancora fonda con il carro migliore, da mostrare per fare contratti anche a lungo termine. Avevamo lavoro per anni, nella nostra bottega.
Ci fermammo a Cusago per ritirare un credito e facemmo ristoro in una locanda, dove mi stupii di trovare l’oste di poche parole, scuro in viso; anzi, di espressione sconvolta. C’erano alcuni operai che si raccoglievano per andare insieme al lavoro e a bassa voce domandai se fosse successa qualche disgrazia.
“Una disgrazia grande” mi rispose uno. “Gli è morto il figlio che sarà neanche tre giorni. Mangiato dal lupo.”
Quella parola, ogni volta che la sentivo, mi scatenava un lampo nella testa e dovevo subito sapere tutto e anche di più, così lo invitai a raccontarmi.
Antonio Gaudenzio di anni dieci portò la vacca al pascolo, ma s’addormentò nella calura del pomeriggio e al risveglio non trovò più l’animale. Lo cercò lungo tutta la piana erbosa, poi entrò nel bosco che si estende tra il Naviglio e la strada per Novara, ma non ebbe l’animo di andare oltre i pochi passi, per paura dei lupi che vi stazionavano. Tornò a casa con la speranza che la vacca ci fosse già arrivata per conto proprio, ma così non era. Il padre lo accolse in malo modo, minacciandolo di castighi paurosi se non avesse riportato la bestia prima del buio, che già cominciava a calare. E così piangendo di disperazione e terrore il bambino se ne tornò al bosco, e ci rimase.
Il padre, non vedendolo tornare, capì quanto era stato crudele a rimandarlo indietro e alle prime luci dell’alba partì alla ricerca del figlio. Trovò invece la vacca che pascolava tranquilla, ma dell’Antonio nessun segno. Ci volle l’aiuto dei compaesani per trovare, il giorno dopo, un lembo di camicia e i calzoncini insanguinati; e, cento passi più in là, la testa scarnata e una mano che pareva aperta a fermare la belva.
Il racconto mi fece piombare in una cupa costernazione e mio figlio Paolo si accomodò al mio silenzio e procedemmo come due che avessero litigato, lo sguardo fisso in avanti.

Era pomeriggio quando giungemmo alla fiera e Paolo aveva fame, così ci accomodammo sulle panche di un’osteria all’aperto, che faceva carne e polenta sulla brace. Chiesi subito dei lupi, di quello che sapevano. E la moglie dell’oste ci disse:
“Lupi, sì. E la jena?”
“La jena?”
“Ma non lo sapete che un tale Bartolomeo Cappellini si è fatto scappare una delle due jene che mostrava alla gente dentro una gabbia? E lo sapete voi cos’è una jena?”
Ce lo spiegò con passione, soprattutto perché la sua nipotina era nel gruppo dei ragazzi che avevano trovato scampo sugli alberi, quando la bestia li aveva attaccati.
“E il Cappellini?”
“Lo cercano per metterlo in prigione, ma quello se n’è già uscito dallo stato austriaco e dicono che è già in Veneto a farsi scappare anche l’altra bestia.”
La donna era tutta presa solo dalla jena, ma io volevo sentire le novità dei lupi; e me le passò una brigata di giovani che parevano studenti e chissà che cosa ci facevano lì.
“Di lupi ce n’è fin alle porte di Milano” raccontò uno, “tanto che la gente vive nel terrore. E allora c’è chi si vede venire incontro un vitello o una capra e grida al lupo e scappa. Gli schioppi sono a portata di mano e si spara fin troppo. La sapete quella del contadino che ha sparato palle incatenate e ha buttato giù l’albero invece della bestia? E dell’altro che ha lasciato una vacca attossicata al limite del bosco e ha avvelenato i cani dei vicini?”
“Io ne so una” raccontò un altro. “Di quei baldi giovani… proprio come noi… che si recarono all’osteria di tutto armati e finito il pranzo uno di loro uscì e rientrò gridando che c’era il lupo proprio lì fuori. Balzarono tutti alla battaglia, l’oste soddisfatto perché un ammazzamento avrebbe richiamato avventori. Ma ancora adesso è lì che aspetta i giovani a saldare il conto.”
Raccontavano e ridevano, com’era nello stile della gioventù, ma io rimuginavo sui danni e sullo scompiglio che i lupi portavano tra la brava gente. E mi veniva voglia di armarmi e di entrare nei boschi gridando:
“Sono qua, lupi! Sono il Mavlèt dei lupi! Quello che vi ammazza tutti!”
Lupi senza pietà, lupi che mangiavano i bambini innocenti. Lupi rabbiosi. Entravano nei centri abitati e mordevano tutto, anche le porte delle case, anche gli alberi dei viali. Sul loro cammino erano capaci di mordere cento capi di bestiame, i cani dei fattori, i fattori stessi. E quelli che venivano morsi diventavano rabbiosi a loro volta e chi li salvava da un morbo che pareva inventato da Satana in persona?
Lupi, una disgrazia che più grande non c’è.
Adesso, però, sono vecchio.
Non vado più alle fiere oltrefiume, ci vanno i figli.
Io siedo in bottega e borbotto se un lavoro mi pare fatto male dalle nuove leve che non hanno più la pazienza di una volta. Quando viene gente, domando:
“E i lupi? Si dice qualcosa, dei lupi?”
Certo che se ne dice.
A Varallo Sesia non hanno mangiato il braccio di una bambina dell’età della mia Margherita? Solo che questa l’han salvata le vacche che si sono rivoltate contro la bestia e pare che l’abbiano perfino incornata, perché ha lasciato sangue sull’erba. La bambina vivrà monca, ma vivrà. E su nell’Ossola, i lupi a branchi. Un danno enorme, per il bestiame; tanto che i Consoli hanno comandato una caccia stabilendo un premio di 25 lire a chi un lupo e di 35 lire a chi un orso consegna vivi o morti. E il secolo finisce e sto per finire anch’io. Mia moglie se n’è andata da tempo, i miei figli sono sposati, mi hanno dato nipoti in quantità.
La vita viene, la vita se ne va.

Ma i lupi restano, questo ho capito. Per quanto gli diamo la caccia, loro s’inforestano su in montagna, poi vengono giù e qualcuno è ammazzato. Ma gli altri figliano e tornano a vendicare i morti. Mangiano bambini perché sono facili da prendere. Sono fatti di carne, i bambini. Se fossi un lupo, anch’io mangerei bambini. A Milano diventano ancora matti di paura, per i lupi.
“La Congregazione Municipale di Milano notifica al pubblico d’avere in via sussidiaria alle providenze già date dalla Regia Conferenza Governativa, ed attese le straordinarie circostanze del caso, stabilito un premio di Zecchini 50 per l’uccisione di quella qualunque Bestia, che da qualche tempo infesta la Provincia, e die’ morte ad alcuni fanciulli riportandosi per la prova, e pagamento al disposto nel recente Avviso della prefata Regia Conferenza, e di avere inoltre ordinata per agevolare tale uccisione la consegna de’ fucili, e bajonette dell’ armerìa civica, che si richiederanno per le Comunità dai Regi Cancellieri distrettuali muniti delle opportune facoltà contro loro obbligo in iscritto di farne la restituzione in istato lodevole tosto cessato il bisogno.”
Questo scrivono a Milano il 7 Agosto 1792.

L’anno dopo, per il mio figlio maggiore Paolo c’è un lutto che ferisce anche me, perché il Clemente Valentini, fornaio, era un bravuomo davvero, generoso e di buon carattere. Un tale Antonio Dazio, detto il Cravè, uno di brutta fama, alto e secco e rugoso come un vitigno, prima dell’alba di un giorno maledetto, ha fatto uscire il suocero di mio figlio per fargli rendere conto di una partita di pane che voleva senza pagare, come già altre volte, perché il Cravè è uno che con la prepotenza pensa di aggiustare la vita.
Clemente gli dice che basta, non è giusto che si faccia mantenere, che deve cercarsi un lavoro e quello, gonfio di vino come una botte, gli dà di bastone e poi di coltello e lo trascina dalle parti del castello e lo butta giù dalla ripa.
Preso dopo una settimana in quel di Arona e riportato a Oleggio è condannato a galera perpetua, con la gente che grida: impiccalo! impiccalo! e se lui è stato un lupo, tanti lupi parevano quelli che lo volevano morto.
E così è, che lupi si è di natura e lupi si diventa anche noi uomini. E adesso che sono vecchio e pronto a chiudere questa partita con la vita, ci vedo meglio di prima che ero giovane e troppo svelto, e quello che vedo non fa paura, mette pace.
I lupi non leggono, e nemmeno ricevono le notizie seduti in una bottega di carradore come faccio io. I lupi, però, sanno. Che per prendersi i bambini devono battagliare con l’uomo. La natura è fatta così, mi dico mentre mi appisolo. Che uno ammazza l’altro per sopravvivere. Siamo solo noi uomini che ammazziamo senza un perché, che facciamo le guerre chissà perché. Eravamo degli austriaci, poi siamo diventati dei Savoia, adesso siamo dei francesi di Napoleone. I lupi sono liberi. Il pensiero più strano che mi viene è questo: io muoio, ci manca ormai pochi mesi, me la sento; e loro continuano a vivere, a ringhiare, a correre, ad azzannare, a uccidere, a mangiare i bambini.
E non è così, la vita?


a)      Documenti vari presso il Museo Civico di Oleggio.
b) Comunicazione presentata al  Seminario “VIVERE LA MORTE NEL SETTECENTO”organizzato dalla “Società Italiana di Studi sul Secolo XVIII” - Santa Margherita Ligure 30 settembre - 2 ottobre 2002.  Si ringraziano gli Autori Aldo Oriani  e Mario Comincini.

c)      Nel ballatoio ligneo che si affaccia sull'atrio della Biblioteca Nazionale Braidense si trova una raccolta di scritti e opuscoli vari di argomento lombardo, costituita da una serie di cartelle che riportano sul dorso la segnatura Miscellanea 14.16. Nell'atmosfera un po' cupa, appesantita dalle strutture di legno antico, ma illuminata dai violenti fiotti di luce che si riversano dalle finestre che si aprono su un cortile interno del palazzo di Brera, emergono dalle cartelle dalla copertina violacea opuscoli di formati differenti, legati insieme. Uno di questi, che appare in apertura di cartella, è un opuscolo di poco più di sessanta pagine, stampato in caratteri piuttosto grandi, su una carta di colore chiaro, di qualità discreta; nel frontespizio il titolo Giornale circostanziato di quanto ha fatto la Bestia feroce nell'Alto Milanese dai primi di Luglio dell'anno 1792 sino al giorno 18 settembre p. p. In Milano, A spesa dello Stampatore Bolzani, [1792]- Segnatura: Biblioteca Nazionale Braidense - 14.16.E.8.20 - Edizione digitale a cura di Guido Mura.

lunedì 16 novembre 2015

I RAGAZZI DI SASSUOLO LEGGONO "KOATTI"

Mi ha scritto Anna Maria Manzini, maestra della classe 5A della scuola primaria "G. Bellini" di Sassuolo (Mo). Gli alunni hanno letto "Koatti", un mio vecchio libro di Salani del 2004. Mi hanno chiesto di rispondere ad alcune domande, un'intervista che riporto qui sotto. Sono rimasto stupito della richiesta. Da tanto tempo non scrivo più per ragazzi (e mi spiace, ma i motivi sono numerosi) e Koatti è purtroppo sempre rimasto in ombra, non ho mai capito perché. Alla classe è piaciuto molto e a quanto pare è sempre attuale. Bene, chissà che prima o poi non mi rimetta a scrivere. Purtroppo la delusione di "Orrendi per sempre" è ancora viva e mi demotiva: il quarto volume è pronto, ma la Giunti non lo pubblica. Al suo posto, decine di libretti e libracci di consumo, da mettere sugli scaffali di un centro commerciale insieme alle scatole di trippa. Povera letteratura! Quando conta solo la vendita e il successo, la letteratura finisce nelle mani sbagliate, le stesse che stanno uccidendo la cultura, la pace, il pianeta. Pubblico le foto dei ragazzi e ripeto loro: non abbiate mai paura o noia dell'intelligenza! Rifiutate la comodità del cervello spento.









L'INTERVISTA

1)      Dove scrivi i libri?



Questo è il mio angolo scrittura (sullo schermo ci sono le vostre domande), davanti alla finestra che dà sulla mangiatoia per gli uccelli (pettirosso, merli, cinciallegre, cinciarelle, passeri, tortore, verdoni, ghiandaie, codirossi, storni…).

2) Ci sarà un Koatti parte 2?

Penso di no. Non ho più rapporti con le case editrici. Mi sono staccato dalla letteratura per ragazzi perché si pubblica poco e soprattutto poco di quello che mi piace. Scrivo romanzi, saggi e teatro.

3) Quando scrivi i libri, che emozioni provi?

Tutte le emozioni che il lettore trova nel libro, ma più intense. Scrivere è vivere cento vite.

Saluti da Giada,Ali e Pietro Paolo e Sara B.

ciao!

-----------------------------------------------------------------------------------------------------

4) Racchia, Bombolo e Acido esistono davvero?

In parte sì perché mi ispiro sempre a bambini e ragazzi che ho conosciuto durante le mie attività (insegnante di scuola media, animatore teatrale di classi di scuola elementare ecc.). Un personaggio non è il clone di una persona reale, ma contiene in sé aspetti diversi di tanti individui esistenti, una specie di collage di vita.

5) Se non esistono davvero come li hai scelti nel libro?

6) Tu da piccolo scrivevi libri? Quanti anni avevi quando hai cominciato?

Mi è sempre piaciuto leggere e scrivere e a scuola ero bravo. Uno zio che lavorava in una cartiera mi portava scatoloni di libri e altri ne acquistavo (in un negozio che vendeva un po’ di tutto, non c’era una vera e propria libreria). Mi sedevo sul pavimento in un angolo della cucina e leggevo tanto e tanto. La mamma addirittura mi sgridava. Mi piaceva l’avventura (Verne, Salgari…). Anche perché fuori di casa di avventure ne vivevo tante, nei boschi o nei campi o in luoghi fantastici come il cimitero (ci andavamo a caccia di lucertole) o la discarica a cielo aperto sempre fumante (alla ricerca di cose vecchie da utilizzare per i giochi o per realizzare piccoli zoo dove mettevamo insetti e animaletti)

Noi siamo Luca, Manar, Mohamed e Sara Q.

ciao ciao!

-------------------------------------------------------------------------------------------------------

Buongiorno signor Aquilino, noi siamo Samuele, Malak, Gianluca, Carmela.

ciao ciao ciao!

Ti vorremmo fare delle domande :

7) Come è nata la tua passione per scrivere?

Un giorno di pioggia (più o meno alla vostra età) mi sono messo a comporre una poesia e mi è talmente piaciuta che non ho più smesso di scrivere (poesie, diario, racconti…) e adesso non ne posso più fare a meno. Sono scritturadipendente, guai se non avessi una tastiera sulla quale digitare!

8) Perché hai voluto intitolare il tuo libro Koatti?

In verità, è stata la casa editrice Salani a scegliere il titolo. A me non piaceva, mi sembrava che svilisse i personaggi, ma l’ho accettato. Da Wikipedia: “Coatto è un termine gergale regionale dal dialetto romanesco, con uso scherzoso e talvolta spregiativo, per indicare un individuo rozzo, arrogante, dalla parlata volgare e dall’abbigliamento privo di gusto, che vive nelle zone periferiche, suburbane, nelle borgate. Ha perso l'originaria connotazione malvagia o malavitosa, pur esibendo comportamenti trasgressivi e conducendo uno stile di vita al limite della legalità. Sinonimo: bullo. Termine divenuto oramai di pubblico dominio, ha corrispondenza con il dialettale meridionale tamarro, il campano guappo, il pugliese cozzalo, il siciliano occidentale tascio ed orientale torpo, il sardo gaggio.” A me non sembra che i miei cari personaggi siano… coatti.

9) Perché hai voluto ambientare Koatti nella periferia della periferia della città?

Purtroppo, il pianeta è spaccato in due. Da una parte ci sono i paesi ricchi e le metropoli, dall’altra i paesi poveri e le periferie. Anche l’umanità, quindi, è divisa in due: da una parte i ricchi che si credono i più bravi, i più educati e i più onesti, ai quali spettano solo i diritti; dall’altra i poveri che sono creduti i più incapaci, i più incivili e i più delinquenti, ai quali spettano solo i doveri. I miei personaggi sono poveri, ma sono ricchi di immaginazione, di sentimenti, di entusiasmo.

Domande

10) i tre ragazzi tornano alla periferia della periferia o sono rimasti a Milano?

Per loro non c’è posto in città, devono tornare dove sono nati. Tuttavia, grazie alle loro doti, un giorno potrebbero decidere di cambiare l’esistenza. Possono mettersi a studiare con impegno, scegliere un settore lavorativo che dia soddisfazione, andare ad abitare in una località immersa nella natura.

11) Vivono altre avventure tornando a casa?

Certo. Tipi come loro non se ne stanno sprofondati sul divano davanti al televisore e non trascorrono tutto il tempo con i videogiochi. Vogliono vivere con intensità, guidati dalla curiosità e dalla voglia di realizzare qualcosa di bello. Ogni giorno, per loro, tante avventure!

12) Da bambino cosa ti piaceva fare?

Abitavo in un paese che si chiama Tradate, circondato dai boschi. La mia prima casa era in un cortile rurale, con le stalle e i fienili. Quanti giochi! Quante avventure! C’erano mucche, asini, tacchini… Ci si rotolava sul fieno, si andava nei campi sul carretto trainato dal cavallo (prima bianco, poi rosso). Si cercavano i grilli. Si prendevano i girini dai fossi e li si allevava fino a quando diventavano rane. Di sera si dava la caccia ai pipistrelli (allora non c’era ancora l’ecologia e il senso di protezione e salvaguardia della natura).

13) Stai scrivendo un altro libro?

Sto scrivendo “Il romanzo di Eracle” per adulti. “Jane & Tarzan”, una commedia sempre per adulti. La riduzione della tragedia “Le Baccanti” di Euripide per ragazzi (ho un gruppo teatrale di 17 ragazzi dalla quinta alla terza media). “Nel paese dei mi piace”, riduzione teatrale di “Pinocchio” per una seconda media. Trovate foto e video su facebook (aquilino.di.oleggio), blog (http://aquilinoaquilino.blogspot.com) e sito (www.aquilino.biz).

14) Hai degli animali ?quali e quanti?

Nessun animale domestico. Ho il riccio in giardino che va e viene (sono apparsi anche un coniglio e uno scoiattolo, l’anno scorso) e gli uccelli.



IL GRUPPO DI ROBERTO,MARCO,VITTORIA,LORENA

ciao ciao ciao ciao!

----------------------------------------------------------------------------------------------------

Domande

15) Quali emozioni hai provato quando hai scritto KOATTI?

16) Quanti libri hai scritto?

Li trovate sul mio sito www.aquilino.biz. Tra ragazzi e adulti una cinquantina.

17) A chi pensi quando scrivi ?

Ai personaggi. Vivo i fatti che racconto come se fossi loro.

18) Sei contento di aver scritto così tanti libri ?

Molto contento. Ma ne voglio scrivere ancora!

CARLO,CHIARA D,PRANVERA,CHIARA ANNA

ciao ciao ciao ciao ciao!

________________________________________________

Buongiorno signor Aquilino, noi siamo Gabriele, Anastasia, Dilki, Samantha ed Elena.

ciao ciao ciao ciao ciao!

19) Perché hai voluto scrivere Koatti con la k?

20) Ti sei emozionato quando hai scritto il libro?

21) Da dove hai preso la passione dei libri?

Probabilmente dal fatto che sono un sognatore. Mi piace sognare sia a occhi aperti sia a occhi chiusi. Vorrei sognare sempre.

22) Cosa ti appassiona di più quando leggi un libro?

Mi appassiono solo quando i personaggi sono veri, esprimono sentimenti ed emozioni coerenti e realistici, ai quali il lettore crede. Ma questo non basta. Ogni libro deve lanciare messaggi. Deve dire cose importanti sul mondo e sulla società. Ogni libro dev’essere uno scorcio di verità.

23) Ti piace avere tanti fan?

Certo, fa piacere. Mi fa sentire utile.

24)Quale era il tuo sogno da piccolo?

Fare lo scrittore.



Un caro saluto a tutti. Vi ringrazio perché vi siete interessati a me e al mio libro. Leggete, leggete sempre!

Aquilino









venerdì 6 novembre 2015

ERACLE NEL MITO, NELLA STORIA E NELLA TRAGEDIA GRECA: conferenze con diapositive





Per tre giovedì sono impegnato in conferenze che sembrano accostare argomenti lontani tra loro, e che sono invece legati da quei fili che nella Storia dei banchi di scuola risultano invisibili. Il punto di partenza è la lettura di "Trachinie" di Sofocle, la tragedia poi ripresa da Seneca che racconta gli ultimi istanti di vita di Eracle. L'eroe muore per colpa inconsapevole della moglie Deianira, spinta a riconquistarne l'amore dalla gelosia per la prigioniera Iole che egli porta a Trachis in qualità di concubina. 
Come si fa a leggere una tragedia su Eracle senza approfondire la conoscenza di un protagonista dell'età del bronzo tanto bistrattato da registi e cartoonist? L'hanno trasformato nell'Ercole-culturista capace solo di ammazzare mostri, ma i complessi miti elaborati su Eracle ci portano molto lontano e molto in profondità nelle vicende umane.
Eracle, nel bene e nel male, rappresenta il passaggio da un'età primitiva a una di "civilizzazione", dando a civiltà il senso inteso dalla maggioranza: organizzazione del suolo (bonifica, tecnica agricola, regolamentazione dei fiumi...), della società (la democrazia), dei rapporti tra stati (commercio)...
Questo, perlomeno, è il piano di Zeus. Per attuarlo, Eracle deve distruggere il passato, uccidendone i mostri. Ma è davvero convinto della bontà del piano divino? Oppure intravede un mondo diverso, di uguaglianza e giustizia sociale, e di rispetto dell'ambiente?

Come si fa anche a leggere una tragedia greca senza indagare sulla nascita del teatro, su Dioniso, sui tragediografi? La tragedia greca è ancora attuale dopo duemila cinquecento anni. Quali sono i suoi punti di forza? Davvero era solo propaganda politica e religiosa? Non era forse anche antipolitica e critica delle divinità olimpiche?

Come si fa, infine, a mettere in scena Eracle senza approfondire la conoscenza del tempo del mito, prima della guerra di Troia, durante la civiltà micenea. Micene ci porta a Creta e Creta ci ricorda il culto della Dea Madre e della società pacifista e matrilineare del Neolitico. 
Le peregrinazioni di Eracle nel Peloponneso prima e nel Mediterraneo e oltre poi, ci portano alla civiltà megalitica e ai fasti di Atlantide. Un viaggio, quindi, meraviglioso e stimolante, sulle prime orme lasciate dall'uomo in luoghi come Stonehenge e in città come Gobleki Tepe e Catal Huyuk, e in santuari come Delfi.








IL GENERE, una guida orientativa

RIPORTO:

Caro/a collega
Caro/a amico/a,
da qualche tempo, sulle pagine dei giornali e su internet, si sta svolgendo una grande discussione su una presunta “teoria del gender”, dalle caratteristiche assai confuse e che sembra generare molta preoccupazione nelle persone ed in alcune istituzioni.
Per poter aiutare le persone a comprendere meglio sia la natura di tale campagna, sia i principali concetti intorno alla questione del “genere” e delle identità sessuali, Federico Ferrari, Enrico Maria Ragaglia e Paolo Rigliano hanno scritto una Guida Orientativa, 
in allegato alla presente mail in formato PDF.
Essa è edita in collaborazione con la Società Italiana di Psicoterapia per lo Studio delle Identità Sessuali (SIPSIS) ed ha ottenuto il patrocinio della Fondazione Genere Identità e Cultura (GIC), del Centro di Ateneo Sinapsi dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG).
Con l’auspicio che possa essere di aiuto nella professione clinica, educativa, sociale e come utile strumento di riflessione scientifica e culturale, invio un saluto cordiale e il mio personale invito ad una sua diffusione e condivisione con 
colleghi, docenti, amici ed istituzioni.

______________________________
Enrico M. Ragaglia
Ecco il link al mio sito con il pdf che potete scaricare:

mercoledì 4 novembre 2015

TEATRO A SCUOLA: PINOCCHIO

Un progetto di teatro a scuola è un'operazione di coordinamento di diverse attività, tutte finalizzate alla messa in scena. Il ruolo dell'attore rimane quello principale, ma i ragazzi devono assumere anche quelli di lettore e di critico, soprattutto quando l'allestimento fa riferimento a un'opera letteraria. 
Si comincia quindi con la lettura dell'opera scelta, in questo caso "Le avventure di Pinocchio" di Carlo Collodi, assegnata come compito estivo. Durante l'estate ho svolto anch'io i miei compiti, preparando tre lezioni di comprensione e approfondimento, scrivendo il testo ed elaborando la regia, con la scelta delle musiche, la distribuzione delle parti e le coreografie. Si avviano le prove, affrontando le prime difficoltà espressive che in molti si manifestano come imbarazzo e disagio, ai quali si cerca di sfuggire con la distrazione, la risata, il chiacchiericcio. Via via i ragazzi acquisiscono sicurezza e si tuffano nel mare delle emozioni, lasciandosi andare con efficacia crescente. Per tutti c'è una parte di rilievo, tutti danno un valido contributo alla realizzazione. Questo si ottiene prevedendo piccoli gruppi di commentatori o autori di gag e sfruttando tutte le risorse, come ad esempio le abilità individuali: danza, ginnastica, musica. Abbiamo, per esempio, una brava suonatrice di flauto che accompagna i canti. Intanto, gli alunni lavorano individualmente o in gruppo per produrre un elaborato critico che verrà esposto nell'atrio del teatro il giorno della rappresentazione. 
Ecco il progetto.

"NEL PAESE DEI MI PIACE"

Nell’ambito di “Il Mangialibri”, concorso di scrittura e progetto di sensibilizzazione alla lettura promosso dalla Biblioteca “Enzio Julitta” di Oleggio, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura, l’Assessorato all’Istruzione, la D.D. “Maraschi”, l’I.C.S. “Verjus” e il Comitato genitori dell’Istituto “Verjus”, lo scrittore Aquilino, con l’insegnante prof.ssa Francesca Ferazza, mette in scena con la classe Seconda sez. B  della scuola media (di 24 alunni) una rielaborazione drammatizzata del libro “Pinocchio” di Collodi.
In una prima fase si procede all’analisi del libro, che gli alunni hanno letto durante l’estate, proposta in tre lezioni frontali a cura di Aquilino. Vengono ripercorse le vicende narrate, con una presentazione dell’autore Carlo Collodi-Lorenzini, e con una ricerca di collegamenti e significati che approfondiscano la lettura e ne estendano i significati.  Si prendono in considerazione le diverse interpretazioni, il valore metaforico dei personaggi e delle situazioni, le ambientazioni soprattutto notturne, i riferimenti alla società di fine Ottocento, il livello affettivo dei rapporti, la pedagogia attuata da Geppetto e dalla Fata… Viene dato particolare risalto alla dimensione dei diritti, soprattutto dell’infanzia; dell’affettività in famiglia e fra pari; delle dinamiche di bullismo e sfruttamento del più debole; dell’integrazione nella società civile.
L’analisi si prefigge di fornire alcune idee chiave e una metodologia di lettura davvero comprensiva e critica di un libro di solito sottovalutato dai ragazzi, nel quale possono invece ritrovare spunti validi per ragionare sulla propria posizione nella famiglia, nella società, nel mondo.
Gli alunni sono invitati a produrre su un foglio A4 una breve relazione su una tematica, scelta tra quelle proposte, con una propria illustrazione.
1)      Riflessioni sulla nascita di Pinocchio: nascere per essere utili (gamba di tavolino), nascere come burattino manovrato da altri, nascere per mantenere gli altri, nascere per essere inserito nella società (scuola e lavoro)
2)      Vari tipi di famiglia: figlio-padre,grillo parlante, fratello-sorella-padre, figlio-madre, figlio-padre
3)      L’emancipazione: tentativi tragicomici di essere autonomo e indipendente
4)      Che tipo di padre è Geppetto?
5)      Lo sfruttamento dei minori: Mangiafuoco, i compagni bulli, il pescatore, l’omino di burro
6)      Il lavoro minorile: il direttore del circo e l’ortolano Giangio
7)      I casi di morte e di resurrezione
8)      Analisi del Gatto e della Volpe
9)      Simboli e metafore legati alla Fata Turchina
10)  Gli amici. Sono veri amici?
11)  Galleria dei personaggi in forma di animale
12)  Analisi di Lucignolo
13)  Inventa almeno tre finali diversi

Al Teatro Civico, nel mese di Aprile, in occasione della premiazione del concorso e di una tavola rotonda sulla lettura, vengono esposti nell’atrio i lavori dei ragazzi e rappresentata la drammatizzazione.
La drammatizzazione si sviluppa sulle sequenze:
1.                  la nascita conflittuale: voglio esistere, ma esistere significa adattamento
2.                  le difficoltà dell’emancipazione: da solo non ce la faccio
3.                  gli errori educativi di Geppetto: l’affetto non basta
4.                  Mangiafuoco: siamo solo burattini schiavizzati
5.                  il Gatto e la Volpe: le illusioni della realtà
6.                  la morte e la resurrezione della bambina (e poi di Geppetto): non tutto è logico e comprensibile
7.                  buoni propositi e cattivi risultati: tra il dire e il fare c’è di mezzo la soddisfazione immediata
8.                  con Lucignolo nel Paese dei balocchi: il paese di Cuccagna non esiste, asino chi ci crede
9.                  il salvataggio del ciuchino e di Geppetto: il confronto con la morte come spinta per la vita
10.              il ragazzo e il burattino: la nuova vita piccolo borghese

La drammatizzazione prevede i seguenti personaggi legati al libro: Pinocchio, Geppetto, Grillo, Mangiafuoco, Gatto e Volpe, Fata, Lucignolo. Vengono aggiunti:
-          quattro passanti con l’ombrello con il compito di commentare
-          quattro narratrici che fanno da raccordo
-          un gruppo di sei coristi che declama-canta filastrocche di approfondimento

LABORATORIO: settimanale, nell’aula Teatro dell’istituto, attrezzata dall’Associazione “Tecneke” che collabora con la scuola. Gli obiettivi educativi del laboratorio sono:
-          consapevolezza delle proprie risorse espressive e acquisizione di nuove abilità
-          disponibilità a inserirsi in un gioco di comunicazione attiva
-          sviluppo dell’autocontrollo come strategia per la riuscita dell’attività
-          condivisione di strategie e obiettivi con il gruppo
-          basare sulla collaborazione il conseguimento degli obiettivi
-          superare tutte le difficoltà che emergono dalle dinamiche interpersonali
-          attivarsi sia per la migliore prestazione personale sia e soprattutto per la riuscita del lavoro di gruppo

TEMPI: da fine Settembre a inizio Aprile.

BIBLIOGRAFIA:
C.Collodi, “Le avventure di Pinocchio”, Giunti Junior;
G. Manganelli, “Pinocchio: un libro parallelo”, Adelphi;
R. Dedola, “Pinocchio e Collodi”, Bruno Mondadori;
A. Sacco, “Pinocchio segreto”, Albatros.




lunedì 2 novembre 2015

LA GILANIA IN "AUGE DEL SANGUE"


“Auge del sangue” è un’opera drammatica rappresentata in Oleggio il 25 novembre 2015.

Sinossi.
IL MITO. Aleo, re di Tegea in Arcadia, avvertito da un oracolo che un eventuale nipote avrebbe ucciso gli zii e avrebbe regnato al loro posto, ha dedicato la figlia Auge al tempio di Atena. Un giorno Eracle viene ospitato nel tempio e violenta la sacerdotessa, sempre a causa degli accessi di follia che gli causa la dea Era.
Aleo, non osando uccidere la figlia, incarica re Nauplio di affogarla, mentre il bambino viene abbandonato nel bosco. Nauplio, invece, la cede ai mercanti che a loro volta la vendono a Teutrante, re di Misia. Là Auge si ricongiunge con il figlio Telefo.
NEL MIO TESTO, Auge è minacciata di morte da Eracle che tenta di sfondare la porta del tempio. Dai dialoghi con il padre, la dea Atena e l’indovino Calcante scopre di essere sempre stata vittima degli uomini. Viene anche a sapere che il figlio Telefo, una volta cresciuto, guiderà i greci a Troia. Evoca gli spettri di Achille, Ettore, Odisseo, eroi pentiti, e fa loro aprire la porta che la separa da Eracle. Il suo sacrificio vuole impedire che scoppi la guerra. È quindi la storia di una donna che patisce violenza dagli uomini, ma si ribella e si sacrifica per il bene comune.

La condizione di Auge è di essere sottomessa, corpo e spirito, alla dea Atena della quale è sacerdotessa. Tale condizione la solleva dal diventare moglie-schiava di un uomo attraverso il matrimonio e la pone al riparo dalla prostituzione che diventa l’estrema risorsa di una donna priva di protezione familiare maschile. Ma è una condizione di assoluta schiavitù di corpo e di spirito. Auge non può lasciare il tempio e non le è concesso alcun pensiero diverso da quello della dea e della società androcratica.
Atena è la dea della giustizia, ma anche della guerra. La giustizia si ottiene quindi con la guerra al crimine, senza mediazioni quali l’empatia, la comprensione, il recupero sociale. La guerra, in tutte le sue forme, viene ampiamente giustificata e santificata, divenendo la soluzione più efficace dal punto di vista economico e politico. Atena è soprattutto la dea che, secondo le parole di Eschilo, ha assegnato al maschio la supremazia. La donna non è creatrice di vita, è solo un contenitore del potere generativo dell’uomo. Lei stessa è nata direttamente da Zeus, senza alcun intervento da parte di una femmina. Atena legittima quindi la supremazia maschile. Insieme ad Apollo manipola l’aeropago, il supremo tribunale di Atene, affinché Clitennestra venga condannata per l’assassinio di Agamennone, mentre Oreste, che ha poi vendicato il padre uccidendola, sia assolto. L’uomo, in conclusione, ha sempre validi motivi per uccidere; la donna mai. L’uomo è innocente per il fatto stesso che è uomo, la donna colpevole a causa del suo status di femmina.



Sarebbe semplicistico ridurre la questione a misoginia. Essa è molto più ampia e profonda e concerne una visione conflittuale tra i sessi che non possono convivere senza una sottomissione. È un pensiero perverso che guida l’umanità da migliaia di anni: solo al maschio maturo spetta la conduzione della società; a lui devono obbedire ciecamente bambini, giovani e donne.
Faccio riferimento ai libri di Marija Gimbutas per quanto riguarda l’Europa Antica a carattere ginocentrico, ossia centrata intorno alla donna e alla madre, dal settimo al quarto millennio a.C. del Neolitico. Dalla Treccani: “Gilania. Organizzazione sociale anteriore al patriarcato, esistita in Europa tra il 7000 e il 3500 a.C. e caratterizzata dall’eguaglianza tra sessi e dalla sostanziale assenza di gerarchia e autorità centralizzata. Tra il 4300 e il 2800 a.C. la g. sarebbe stata soppiantata da un'altra cultura neolitica, quella dei kurgan, una società androcratica e patrilineare emersa dal bacino del Volga. Il termine è stato coniato dall'archeologa di origine lituana M. Gimbutas utilizzando le radici greche gy (donna) e an (uomo)."

Nella prefazione a “La civiltà della dea” scrive:
“Secondo le ipotesi degli archeologi e degli storici la civiltà implica un’organizzazione politica e religiosa di tipo gerarchico, un’economia bellica, una stratificazione sociale e una divisione complessa del lavoro (…) Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche. Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova a livello della sua civiltà artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi.”
Nessuna contestazione può togliere alla Gimbutas il merito di avere riportato l’attenzione degli studiosi sull’importanza della donna agli albori dell’umanità. Ella ci mostra un Neolitico di comunità pacifiche che vivevano in capanne affrescate riunite in villaggi privi di fortificazioni, con ricca produzione di ceramiche decorate, un commercio vivo e ampio, un’agricoltura sapiente, una religione non punitiva ma rasserenante, un legame forte e profondo con la natura. Gimbutas ci presenta la contrapposizione tra l’uomo (autocratico, guerrafondaio, consumista, distruttivo, misogino) e la donna (democratica, pacifista, ambientalista, collaborativa, costruttiva). 

Un’altra studiosa la supera, Riane Eisler. In due libri “Il Calice e la Spada. La civiltà della Grande Dea dal Neolitico a oggi” e “Il piacere è sacro. Il potere e la sacralità del corpo e della terra dalla preistoria a oggi”, ci racconta come all’inizio dell’umanità vigesse un modello di partnership tra maschi e femmine, in comunità dedite all’agricoltura e unite da un senso di sacralità femminile della vita e della natura. L’invasione degli indoeuropei o di chi per essi, di popolazioni comunque dedite alla pastorizia, ha imposto un sistema di dominanza indotto, scrive la Eisler, da condizioni di vita difficili che hanno spinto l’uomo verso una visione punitiva della natura, violenta e distruttiva. Da una natura femmina a una natura maschio contro cui combattere.
Ciò che importa è che al modello della partnership, ossia della comunità democratica collaborante, si è sostituito quello della dominanza maschile, fondato sul dispotismo e sulla guerra.
Basta così, a parte la raccomandazione di leggere i testi delle due studiose, magari solo quelli della Eisler che ricorda e sintetizza la Gimbutas.

Come si inserisce “Auge del sangue” in questo scenario?
Auge si confronta con una società maschilista (il re, il sacerdote, il guerriero) e scopre di non avere dalla sua parte nemmeno l’unica femmina, la dea Atena che appoggia le scelte di dominanza degli uomini. Dopo il Neolitico, con l’età del Bronzo e quella successiva del Ferro e con il sorgere della Grecia classica, molte dee hanno subito mutamenti coerenti con la nuova società. Afrodite non è più la forza creatrice della natura, lei che nasce dal brodo primordiale del mare; ma diventa la rappresentazione della seduzione e degli intrighi amorosi. Di queste cose la invita a occuparsi Zeus, e non della guerra di Troia; e a chi  va in sposa? Al dio che più degli altri richiama il maschio primitivo e bruto, Efesto. E di chi è l’amante? Del dio della violenza, Ares. Efesto e Ares sono i suoi custodi. Era, più che madre degli dei, impersona la donna matura bizzosa e gelosa, prepotente e vendicativa che trama nell’ombra. I greci andavano alla ricerca di giustificazioni per rinchiudere le donne nel gineceo e tenerle lontane dalla vita pubblica. Artemide? Non più la Signora degli animali, ma la cacciatrice. L’uomo cacciatore si sostituisce all’agricoltore; anzi, alla donna raccoglitrice e seminatrice, e il rapporto con la natura diventa violento. Estia rappresenta l’ideale femminino tutto casa e chiesa. Demetra e Core-Persefone perdono sempre più i caratteri originari e diventano figure minori, salvate solo dagli adepti dei misteri orfici e pitagorici.
Auge si ritrova in balia dei grandi poteri. Scopre che il padre l’ha sacrificata fin da piccola al tempio per evitare le conseguenze di un oracolo. Si scontra con il profeta-sacerdote Calcante sulle diverse visioni del mondo; lei propone l’integrazione tra i popoli e la pace, Calcante la contrapposizione e la guerra. Assiste allo svolgimento dell’esistenza del figlio Telefo, strappatole alla nascita. Egli diventa re, ma pur di guarire da una ferita che lo tormenta vende ai greci gli alleati troiani. Insomma, Auge si ritrova emarginata e in opposizione contro tutta la società maschilista e guerrafondaia. Nemmeno gli dei sono dalla sua parte.

A che cosa può fare appello? Al dialogo e alla persuasione. Ella fa appello ai grandi eroi della guerra di Troia, che vorrebbe scongiurare. Achille, Ettore e Odisseo, non più divisi e nemici, hanno potuto riflettere, nella morte, sull’assurdità della condizione umana. L’uomo, invece di cercare la vita e la felicità, alimenta il fuoco della distruzione. Ripudiano lo status di Eroi, in nome della pace. Che cosa contano più gli onori e il bottino, dopo la morte? Aiutano Auge a conseguire il proprio obiettivo.
Non patriarcato contro matriarcato, non uomo contro donna, e nemmeno il contrario. Il ritorno alla natura, alla tolleranza, all’accettazione del diverso, alla coesistenza pacifica, al benessere sostenibile. La ricerca della felicità passa attraverso la collaborazione di tutti con tutti, unica strategia per superare le inevitabili difficoltà che sia la natura sia la convivenza presentano.
Auge è un grido contro la dominanza.