venerdì 10 novembre 2017

LA MEDEA, immagini

Teatro Civico di Oleggio, giovedì 4 maggio 2017. LA MEDEA, testo e regia di Aquilino. Con Luca Andrico, Ariel Apollo, Lucrezia Balbo, Viola Beghelli, Lucia Cavazza, Valentin Ciocoi, Francesco Divisoli, Matteo Fanchini, Giulio Gallarate, Raffaele Giannantonio, Alice Iorio, Giorgia Picaro, Angelica Roman, Francesco Schirò. Foto di Laura De Paoli.























mercoledì 8 novembre 2017

IL VALORE EDUCATIVO DEL TEATRO

Sono ormai parecchi anni che l’I.C. Verjus di Oleggio mi ha messo a disposizione un’aula per proporre un laboratorio di teatro agli alunni dalla classe Quarta Elementare alla Terza Media. Mi propongo di fare un consuntivo.

Durante i primi anni ci siamo dedicati alla Commedia dell’Arte. Abbiamo messo in scena “L’Arlechin fantasimo”, “L’Arlechin ladro e ladron”,  “L’Arlechin che copa i gati”. La formula ha avuto successo, ma la carica espressiva si è esaurita per diversi motivi: l’impegno eccessivo per le scenografie e i costumi; l’impossibilità (per la mancanza di specialisti, per la durata del laboratorio e per lo spazio ridotto) di fornire ai ragazzi una preparazione attoriale adeguata; la ripetitività. Abbiamo allora portato in scena “L’angelo dei morti”, un’opera di gusto contemporaneo. A questo punto, bisognava fare i conti con l’età degli allievi (cresciuti e in procinto di navigare verso altri interessi) e con la mia mancanza di motivazione. Avevo bisogno di una formula nuova.

Dalla Commedia alla tragedia greca. In quegli anni è cresciuta in me la passione per la Grecia micenea e classica. Mi sono messo a scrivere saggi e un romanzo su Eracle. Ho scritto anche una decina di opere teatrali ispirate alla formula della tragedia. Per due anni le ho mandate al concorso del Cendic (Centro drammaturgia italiana contemporanea) e sono arrivate in finale, quindi sono state apprezzate. Mentre elaboravo la nuova formula, proponevo il laboratorio in una nuova veste, presentando “Cappuccetto Lupo” e “Donne che fanno scena”, un collage di scene da Shakespeare in poi ridotte per i ragazzi. Ma ormai il cambiamento era alle porte. Il timore era che ai ragazzi (così giovani!) non piacesse mettere in scena personaggi mitici al di fuori della loro esperienza; e che il pubblico non gradisse il tragico, abituato alla superficialità e alla giocosità dei media. Ecco quindi “Le Baccanti”, seguite da “La Medea” e ora da “Le donne di Ilio”. È andato tutto bene. I ragazzi sono più che contenti di interpretare eroi, dei e figure tragiche. Il pubblico ha accolto con favore qualcosa di diverso.
Tornando allo scopo di questo breve scritto: a che cosa è servito il teatro ai ragazzi? Vediamo di capirlo.

RELAZIONI CON GLI ALTRI. I due gruppi che gestisco comprendono allievi di età diverse, dai 9 ai 12. Questo costituisce uno stimolo e un’attrattiva. Ho visto ragazzini vittime di bulli o ragazzine solitarie farsi sempre più sicuri, superando l’immagine svalutante di sé che si erano costruiti. Il teatro costringe a scambi di sguardi, a contatti fisici, a stabilire intimità virtuali con i partner, ad affrontare insomma la presenza fisica e psichica dell’altro. Per sostenere tutto questo, è necessario passo dopo passo rinforzare la propria struttura comunicativa, superando timidezza, facile emotività, inibizione.

RELAZIONI CON SÉ STESSI. Il ragazzo poco sa del mondo, meno ancora di sé. Reduce da assidui allenamenti atletici, facendo teatro si rende conto di non avere il controllo del corpo, nonostante i gol effettuati. Risulta goffo e insicuro. E, come gli altri, per quanto sia espansivo e addirittura petulante, fatica a esprimere con le parole emozioni e sentimenti. Scopre di sentirsi inerme di fronte a un pubblico. Si rende conto che non ha mai preso in considerazione l’occupazione sicura dello spazio. Si ritrova una voce piatta e monotona. Si vede impacciato e insicuro. Ma il teatro, dopo avere svelato i punti deboli, attiva immediatamente la terapia. Con emozione, frustrazione e timore di non essere all’altezza, dà una mano a rendere più salde e stabili le strutture dell’Io. L’allievo si confronta con gli altri, si confronta con il pubblico, ma soprattutto con sé stesso. Ci sono quelli ai quali non interessa il cambiamento e la crescita, ma la maggioranza trae sicuramente benefici dall’attività scenica.

RELAZIONI CON LA SCENA. La scena, per l’attore, è il mondo. Niente esiste al di là. Sulla scena nasce e muore la vicenda rappresentata, tutte le parole recitate sono lì. L’attore, per darle un significato, deve operare una sintesi fra presenza fisica e interpretazione. Egli è: sé stesso, la propria dissociazione (l’Io che usa il Sé), un altro da Sé stesso e cioè il personaggio, il ruolo. La complessità dell’arte attoriale obbliga a uscire da sé, per rientrarvi arricchiti da un’esperienza quasi extrasensoriale, dato che si svolge nel mondo dell’immaginazione. Non mi aspetto tanto dai miei allievi. Che cioè sappiano dare corpo all’immaginazione vivendo la scena come se fosse… e agendo come se essi fossero diventati… Ma la dinamica rimane potente e coinvolge il ragazzo in un gioco più alto di quello infantile del “facciamo finta che io sono…”, perché ora è consapevole e coinvolge la tecnica espressiva. La parte più difficile non è in un duello di lance o di spade, immaginando di essere eroi micenei. Ma quella di sentire in sé il dolore per la perdita di qualcuno o la disperazione della madre che vede uccidere il figlio. Tutto è finto, intorno all’attore, ma il teatro lo invita a rendere vere le emozioni. Come si fa a rendere il dolore? la disperazione? l’odio? l’amore?... Come si fa con la voce e con lo sguardo, con la mimica facciale e con il movimento del corpo? Nella vita quotidiana si ride molto, ma spesso le altre emozioni sono una maschera neutra. Il teatro invece le fa parlare.

RELAZIONI CON IL TESTO. Non ho voluto ridurre il testo delle tragedie a uso di ragazzi illetterati (ho visto pubblicazioni con riduzioni di Euripide in slang teen-comedy che ho giudicato oltraggiose, non solo per Euripide ma anche per i ragazzi). I ragazzi sono intelligenti e quello che non capiscono se lo fanno spiegare. Non voglio trattarli da bambini limitati. Il primo scoglio è quindi la comprensione, ma lo si supera in fretta: lessico, riferimenti storici e mitologici… Poi viene il rapporto denotazione-connotazione. Una frase sembra semplice, ma può nascondere significati più profondi da indagare. Quindi l’intenzionalità: quali sono i reali sentimenti del personaggio? E così via. Vengono poi le implicazioni ritmiche. Inserisco molte parti corali in metrica e rima o anche a verso libero. Parti traumatiche, quando propongo di cantarle. Finora sono pochissimi quelli che osano cantare senza musica e senza melodia, inventandosele. E la declamazione ritmica, scandita? Sono restii, non fa parte della loro cultura. In seguito, però, ci prendono gusto.

RELAZIONI CON IL CORPO. Ahi ahi. Come ho già detto, non basta una disciplina sportiva o un’esperienza nel campo della danza per fare l’attore. Una brava ballerina può incontrare difficoltà a muoversi con scioltezza sulla scena. E un calciatore è come un elefante in una scatola. Lavoro bene con i bambini, ma con l’adolescenza il corpo è un conflitto continuo. Il corpo libero sul palcoscenico è un corpo esibito in tutta la sua fragilità. Ne emergono i limiti funzionali ed estetici e l’adolescente è restio ad affrontare il pubblico. Stia tranquillo, il teatro gli insegna come fare. Il proprio corpo in vetrina deve non solo affrontare gli sguardi del pubblico, ma sostenere il rapporto con altri corpi. Quante volte mi sono sentito dire: io non lo guardo, io non lo tocco. Ora i miei allievi osano fissarsi negli occhi con l’intensità voluta, ma per molti di loro c’è voluto un percorso. Ora affrontano coreografie di corpi in movimento, ma hanno dovuto accettare la novità di un corpo scomposto e superare il timore di coinvolgimenti fraintesi. Il teatro spinge verso l’innocenza dei rapporti e quindi verso una comunicazione più libera e più facile.

RELAZIONI CON IL REGISTA. Lavorare con i ragazzi mi costringe a ricoprire più ruoli: drammaturgo, regista, scenografo, costumista… Chiamo magari un esperto. Quest’anno una coreografa, ma solo per tre interventi. I laboratori sono gratuiti, ai genitori chiedo una quota per le spese. A pochi interessa lavorare con i ragazzi, se non c’è scopo di lucro. Chi fa teatro amatoriale lo fa per esibirsi o per divertirsi con i coetanei. Quindi di solito mi ritrovo da solo. Ma che cosa rappresento io per gli allievi? Mi danno del tu, mi chiamano per nome, ma ogni tanto rispunta un prof. Il perché è presto detto. Sono loro amico, ma non nel senso di amicone. Il nostro rapporto, d’altronde, si limita all’incontro settimanale. Io sono anche l’autorità e questo deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che il teatro è impegno, serietà, responsabilità, puntualità, ordine, correttezza… Non è facile ottenere tutto questo da ragazzini che vogliono, anche, divertirsi. Non è facile preservare la loro spontaneità e richiedere al contempo disciplina assoluta. Non voglio un laboratorio con manichini ambiziosi che obbediscono a bacchetta pur di primeggiare. Il nostro è un laboratorio alla buona, in cui ci si riesce anche a divertire (in chiusura, giochi sempre a sfondo teatrale ed esibizioni). Si lavora sodo. I ragazzi imparano a collaborare e a impegnarsi non solo per sé ma anche per gli altri. Hanno imparato che il teatro non è fare gli stupidi su un palcoscenico, ma è una fatica dura che, per noi, ripaga solo per un’unica serata.

Ma non è tanto l’esito della rappresentazione (sempre di successo), quando l’itinerario attraverso la memorizzazione (da farsi in estate), il superamento degli ostacoli emotivi e dei limiti individuali, lo stabilirsi di relazioni nuove con gli altri e con l’ambiente, la scoperta delle proprie potenzialità, l’attivazione dell’immaginazione, il ricorso a nuove abilità fisiche e foniche, l’approfondimento di temi importanti e adulti, la misura di sé nella cooperazione, il miglioramento del carattere… E tutto questo e altro ancora è teatro.



lunedì 6 novembre 2017

LA SCRITTURA È UN'ALTRA VITA

Quando domandate a uno scrittore, soprattutto se debuttante o fortunosamente baciato dalla fortuna fin dalla sua prima pubblicazione: “Che cos’è la scrittura per te?”… facile che vi risponda: “È la mia vita.” E i più facondi aggiungono: è tutto, senza scrivere non potrei vivere, la vita non avrebbe senso. E altre amenità simili.

Alla stessa domanda quanti danno la medesima risposta? Prendiamo in considerazione solo quelli animati da una forte passione. La lista è lunga: l’imprenditore, l’insegnante, l’infermiera, il politico, il pittore, la ballerina, il cantante… Potete fare le vostre aggiunte.
La scrittura, come senso della vita, non si differenzia dall’erigere palazzi o dal presenziare a riunioni di partito o dal partecipare a festival canori.
Ognuno di questi protagonisti cerca con affanno una distinzione che confermi la sua scelta “di vita”. Proprio come andare alla ricerca di un blasone. Nella vita di tutti i giorni scrivere non contempla solo un’inventiva esasperata e aristocratica, ma anche una documentazione prosastica, un logorio mentale da travet, una commercializzazione della genialità mediante contatti a volte conflittuali con le case editrici, incontri con i lettori a volte frustranti, stesura di sinossi e presentazioni da bandella, rancori con il fisco… La scrittura è costruita non solo con la digitazione alla tastiera, ma con una serie di attività che richiedono pazienza, sopportazione, costanza… in netta contrapposizione con la purezza dell’atto creativo.

Se la scrittura si identificasse davvero con la vita, quanti momenti “plebei” presenterebbe!
Quando gli scrittori si confessano al pubblico ristretto delle presentazioni in biblioteca, raccontano di sé cose accattivanti e tacciono le miserie che farebbero della letteratura un emporio di cose fuori moda.
Molti nascondono l’ambizione, offrendo di sé un’immagine sofferta di missionari della parola. Altri la manifestano in modo sfacciato, perché l’ambizione è il viagra delle persone con attributi e senso di responsabilità verso sé stessi.
Se l’editore adotta una strategia on demand (stampa solo su ordinazione), oppure richiede l’acquisto di una cinquantina di copie, è meglio non farlo sapere. Se il testo (in origine piuttosto acciaccato), è stato risanato dall’intervento massiccio di un editor, non lo si dice. Se il libro è frutto di un’intesa redazionale che insegue la moda del momento, lo si taccia.
La pubblicazione dà per certa l’assunzione dello status di scrittore. Come chi spiaccica colori su una tela si autodefinisce pittore. Come chi viene sbattuto su un palcoscenico per mancanza di altre opzioni si sente subito attore.
L’apprendimento di un’arte appartiene al passato. Ora si è quello che si vuole diventare. E alla risposta: che cos’è per te…? il soggetto risponde spavaldo: la mia vita!

C’è un altro tipo di scrittore. Quello vero.
Sì, sì, anche per lui la scrittura è tutta la vita… per quanto nella vita ci siano altre cose desiderabili, forse. In realtà, se la scrittura fosse la sua vita, dovrebbe mettere in conto l’ambizione sfrenata, la frequentazione dei salotti letterari, la partecipazione ai premi letterari, la frenesia di una apparizione televisiva, e infine il delirio di un best-seller.
Ma per questo scrittore l’arte della prosa e della poesia non è vita, è non vita.
Si rende conto che i medesimi processi politici e sociali che hanno portato alla divisione in classi, all’inquinamento, alla guerra, alla sottomissione delle masse… sono presenti nell’ambiente artistico.
D’altronde, il comportamento umano non cambia nemmeno di fronte a un quadro di Leonardo. È sempre predatorio e opportunista. Oltre che bugiardo.

Questo scrittore scrive per insoddisfazione. È deluso dalla vita, ne cerca un’altra. Non può fare l’astronauta e andarsene su Marte. Non può entrare in chiesa in cerca di consolazione, non crede in dio. Non può accontentarsi dei premi, li danno a cani e porci. Non gli interessa diventare famoso, si troverebbe in cattiva compagnia. Non vuole nemmeno diventare molto ricco, i soldi sono un peso. E la fama eterna? Sì, quella ha un certo senso, perché rappresenta comunque una fuga dalla realtà. Ama pensare che i propri lettori non siano qui e ora, ma altrove e nel futuro.
Se la vita attuale non dà soddisfazioni, perché non immaginarne un’altra?
Ecco che cosa fa questo scrittore. Non fugge da sé stesso. La nuova vita è solo una modalità virtuale di manovrare persone e fatti, di manipolare i luoghi e il tempo, di inventare l’impossibile, di specchiarsi nell’irrazionale, di diventare un dio che racconta la propria creazione.
Tutto qui il senso della sua scrittura.

Giocare a fare dio non è scevro da pericoli.
Pagina dopo pagina, la vita perde sempre più le sue attrattive. Si avvia verso un autunno privo di colori, e un inverno di suicidi.
La scrittura è l’unico rifugio di un’anima malata. Sempre più incapace di relazioni. Che non comprende il fascino del viaggio, perché ogni luogo è nella mente. Non apprezza un’opera d’arte se non quella che ha eletto a alter-ego. Non valuta più di tanto la sensibilità altrui, perché trabocca della propria. Addirittura, prova fastidio se il discorso naviga verso le isole delle sue opere presenti e future: sono isole di un altro oceano, che non risulta sul mappamondo.
Non gli interessano gli interventi critici e nemmeno gli apprezzamenti e tantomeno le stroncature: l’unico giudizio valido è il suo.
Ma non dà nemmeno giudizi. Scrive e prima ancora di finire un’opera rimescola nella mente e nel cuore gli ingredienti per la prossima.
Il suo compito non è soffermarsi su un mondo che ha creato, ma produrne altri, senza sosta. In questo caso sì che si può dire che ogni pagina è un respiro e che la scrittura è la sua vita.
Ma non questa. Un’altra.
Nella quale nemmeno i lettori possono entrare.



venerdì 3 novembre 2017

LABORATORIO DI SCRITTURA IN QUINTA ELEMENTARE: RODARI

Il progetto di "Il Mangialibri" prevede che mi rechi nelle scuole per laboratori di scrittura sia di prosa sia di poesia, a scelta dei docenti. Nelle due Quinte della scuola Rodari di OIeggio, con la maestra Elisabetta Rampazzo, affrontiamo la prosa.


Propongo la stesura di un incipit e come faccio spesso porto io qualche esempio. Parlo quindi del punto di vista, della questione del narratore. Leggo i tre esempi di incipit di una storia semplice: il/la protagonista vede atterrare un Ufo. Poi espongo la problematica del livello di scrittura: cronaca giornalistica, esposizione documentaristica, narrazione oggettiva, drammatica... Il livello più profondo e complesso è quello che ricorre a tutta la potenzialità della lingua, saccheggiando quindi anche le risorse della forma poetica. Invito i ragazzi a scegliere a seconda della propria competenza linguistica: un incipit più facile di una storia di avventura o uno più difficile di un doloroso episodio di bullismo? 

Li assisto durante l'elaborazione, convertendo in patrimonio comune le osservazioni al singolo. Leggo poi gli scritti continuando con le osservazioni, che di solito vertono su:
- coerenza dei tempi verbali
- punteggiatura, soprattutto l'uso del punto
- verifica logica del succedersi degli avvenimenti (le procedure)
- ottimizzazione ed efficacia del discorso diretto
- la partecipazione emotiva
- la credibilità da parte del lettore
- il "respiro" del periodo
- quale tempo verbale scegliere (l'immediatezza del presente)
- d eufonica, accenti e apostrofi, maiuscole, l'uso della acca...   eccetera.
Il tempo è poco, ma è sufficiente per indurli a riflettere su elementi importanti. E i ragazzi lavorano con attenzione, interesse e intensità. 

Ecco i miei incipit che servono da guida.

TRE PUNTI DI VISTA

Giulio non aveva sonno. Se ne stava alla finestra della propria camera e osservava il cielo. Era stata una giornata intensa ed emozionante. Con la classe era andato a Torino a visitare il Mufant, il Museo del Fantastico e della Fantascienza. Non era grande, ma c’erano delle cose… Le sale più interessanti erano quelle di Star Wars e Star Trek. Contenevano modellini, manichini con i costumi originali, disegni e gadget di tutti i tipi. Quante cose avrebbe voluto portarsi a casa! Il piacere del ricordo fu interrotto da una strana scia luminosa nel cielo. Una stella cadente? Così luminosa? Ma… dove andava a cadere? Nel campo proprio dietro casa sua? E se invece di una stella fosse stata…? Emozionato e anche spaventato corse fuori, senza nemmeno pensare di svegliare i genitori.

Troppo stanco per dormire. Sono ancora eccitato! Me ne sto qui alla finestra a guardare il cielo. Star Wars e Star Trek! Mel museo c’erano cose spettacolari. Si chiama Mufant, è a Torino. Ci siamo andati in pullman, abbiamo cantato e fatto un po’ gli stupidi. Continuo a pensare ai modellini, ai costumi… ehi, quello che cos’è? Una stella cadente? O un satellite artificiale in avaria? Sta precipitando proprio qui dietro! Magari è un meteorite d’oro! Sveglio la mamma e il papà? Se non è niente me ne dicono di tutti i colori. Prima vado a vedere.

Sto precipitando sul pianeta sconosciuto. Ci sarà vita? Ho lasciato appena in tempo la navicella di esplorazione. Appena espulsa la mia capsula, è esplosa. Appena atterro lancio un segnale radio. Se la capsula non si disintegra. Se non mi disintegro anch’io. Sto captando qualcosa. Una forma di vita pensante. Attiverò il traduttore linguistico. Per ora ricevo solo le immagini mentali. Astronavi, tute spaziali… L’essere si è accorto di me. Lo sento spaventato ed emozionato allo stesso tempo. Spero che non sia pericoloso. Spero che sia pacifico. Non vorrei doverlo disintegrare. 

TRE STILI DI SCRITTURA: classico, drammatico, poetico

Quando ripenso a quello che mi è successo, mi sento molto triste. Anzitutto, perché ho l’impressione di essere stato abbandonato da tutti. Nessuno mi ha difeso. Poi, perché mi sembra che nessuno mi capisca. Non soffro per l’occhio nero, ma per l’umiliazione. Mi sono sentito una nullità. Trattato come se non fossi una persona, ma una cosa da prendere a calci. Infine, ora diffido di tutti. Anche se non vogliono farmi del male, penso che agli altri di me non importa proprio nulla. Sono solo e ho paura. Non voglio più andare a scuola. Non voglio nemmeno uscire di casa.

In tre, circondato. Non dimenticherò mai le loro facce. Come certi incubi che ritornano. Musi, non facce. Musi cattivi. Prima le parole. È capitato anche a me di provare rabbia o odio e di insultare, ma… Loro usano parole che nessuno dovrebbe usare. Mai. Me le scaricano addosso come se mi ricoprissero di spazzatura. Poi gli spintoni, le sberle, i pugni, i calci… E intorno a me… ridevano. O scappavano per non andarci di mezzo. Mi hanno abbandonato. Ora ho vergogna. Penso che tutti parlano di me. Dicono: si è lasciato picchiare. No, grido alla mamma, a scuola non ci torno! Non esco nemmeno di casa. Loro sono là che mi aspettano. E io… ho paura.

Di colpo buio. Solo le ombre. Ma ombre di che cosa? Di parole dure. E io dicevo: devo andare… per favore… Voci di pietra. Spinto qua, spinto là… Ho pensato: mi viene la nausea, adesso vomito. E poi la prima pietra mi ha colpito. Una parola o un pugno? Male, qui, sul petto. Mi sono piegato. Sono caduto? No, no, volevo scappare. Ah, dove? Cado sulle ginocchia. Ci sono cocci di vetro, per terra. Ci metto sopra le mani. Grido. Male dentro, un chiodo mi trafigge la lingua. Gemo. Supplico? Non so niente. Non capisco niente. Mi raggomitolo. E loro picchiano.

Ecco alcune righe dei loro elaborati.


Sono molto preoccupata per il mio bambino Giulio. Ha un occhio nero. Giulio dice che è stato un alieno. Secondo me ha giocato troppo con il pupazzo di Alien ed è caduto giù dal letto.
(Thomas)
Prima le parole. Graffianti come artigli affilati, gli orsi aspettano il momento giusto per attaccare. Dopodiché affondano i denti nella mia carne. I miei compagni… I miei compagni scappano come volpi tra le sterpaglie. Sono solo.
(Viola)
Un bambino di nome Andrea felice come tutti gli altri. Una sera stava andando in bagno. A un certo punto vide una persona tutta vestita di nero. Era un ladro.
(Daniel)
Continuo a pensare a quei momenti. Tutti mi prendono in giro. Mi sento escluso. Nessuno mi aiuta. Mi sento debole. Non mi fido più di nessuno. Andiamo tutti da Andrea a prenderlo in giro! Ehi, tu! Sei un imbecille!
(Samuele)
Corse alla finestra con gli occhi appannati e vide qualcosa di rosso, rosso fuoco. Corse fuori. “Ehi!” urlò. C’era un alieno. Era coperto da un mantello, sembrava carino e coccoloso. “Ti terrò qui, ti proteggerò, sei solo un cucciolo!”
(Vanessa)
Un giorno come tutti gli altri. Era sera. Vidi alla finestra un uomo che mi fissava. Era vicino a casa mia. Ero terrorizzato. Aveva gli occhi inquietanti.
(Matteo)
Era una notte piena di felicità, per Luigi. Stava scrivendo sul diario la giornata che aveva trascorso al museo Mufant. Ma a un certo punto sentì un rumore. Corse alla finestra, vide un arcobaleno invaso da una polvere nera.
(Lorenzo)
Cinque ragazzi bulli ritornarono dopo la mensa e gridarono: “Ehi, idiota, vieni qua.” Marco fu picchiato, spinto e maltrattato.
(Vanessa)
Oggi siamo andati a Milano per il mio compleanno. Siamo stati al museo dei dinosauri. A un certo punto ho visto una cosa che si muoveva in mezzo alla stanza. Uno scheletro di T-rex!
(Valentina)
Mi sento a terra. Calciato come un pallone. Trafitto da una spada. Loro ridono e gli altri scappano. Nessuno mi aiuta. Pugni uguali a sassi. Manate come frustate. Il pavimento fatto di chiodi mi trafigge.
(Nicolò)
Oamai la celula si sta per disinestare. E il tratutore si sta per scaicare… Che sfortuna la capsula di esplorazione e esplosa appena lo inviata.
(Rocco)
Era un giorno di scuola come tutti gli altri. Il bullismo era tornato, lui era tornato. Perché me? Io non faccio niente di male nella vita: studio, prendo bei voti… ma niente!
(Alessandra)
Oggi io e la mia classe siamo andati al Mufant. È stato fantastico! E mentre stavamo tornando a scuola, dal finestrino dell’autobus ho visto qualcosa di infuocato cadere dal cielo. Forse… un Ufo!
(Alberto)
Nicolò era ancora sveglio. Era felice di essere andato al Museo Egizio. Tutte quelle sale sui faraoni, sulle piramidi, sulle costruzioni…
(Mattia)