mercoledì 30 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (nove)

Ottimo incontro, lavoro intenso. Per il momento, sospesi gli esercizi, si va subito sul testo. Per la fine di gennaio vorrei avere l’opera imbastita e quindi invito i ragazzi a studiare il più possibile. Faccio un video a Giorgia che legge un breve monologo di Medea. Sono soddisfatto, c’è una base su cui lavorare: pause, intonazioni, registri, intensità, velocità… miglioreremo il tutto. Quello che non potrò affrontare è la dizione. I “perché” e i “mè” sono terribili, ma in una trentina di ore (seguo il calendario scolastico, se si fa vacanza il laboratorio è sospeso) devo allestire uno spettacolo di un’ora e un quarto e non mi posso permettere alcun lusso. Tale, purtroppo, per me, è l’accentazione corretta, dato che do la precedenza all’espressività, al movimento e alla gestualità.

Dall’inizio, le prime quattro pagine su sedici. Medea sale sul palcoscenico dalla platea. Suggerisco a Giorgia di farsi un’idea mentale di strega non disneyana, ma sovrumana, altera e potente, che genera inquietudine e soggezione. Ripete di nomi dei figli e vediamo diverse variazioni di voce. È un richiamo terrificante, dato che li spinge verso la morte. I bambini (che in realtà sono due femmine, Lucrezia e Viola, le più piccole del gruppo, quarta e quinta elementare) tengono le distanze, mormorano frasi di diffidenza e ansia. L’attore non è solo artista di voce, ma di corpo, e soprattutto di corpo-mente-cuore. Le ragazze non hanno mai fatto teatro e incontrano difficoltà nel capire come muoversi, come spostarsi, dove guardare, che gesti fare, che cosa dire improvvisando… Il passo di un dilettante non è mai uguale a quello di un attore, l’occupazione dello spazio è diversa, la gestione del corpo diversa. Come risolvere la questione di dare un’apparenza attoriale a chi non ha mai frequentato un corso di teatro? Uscendo dal mimetismo. Cercando nell’immaginazione un supporto accettabile (Lucrezia e Viola non riusciranno mai a identificarsi in due bambini che stanno per essere uccisi dalla madre). Animali, sport, vegetazione… tutto può essere utile per fornire alla mente un’immagine a cui appigliarsi. Emozioni non dirette (l’infanticidio), ma trasversali e facenti parte dell’esperienza quotidiana (come suggerisce Stanislavskji).

Raggiungono il palcoscenico. Medea si accovaccia dietro la scaletta sulla quale è steso un telo rosso la cui coda attraversa la scena; i bambini si stendono dietro il fondalino bianco, lasciando emergere solo i piedi. Entra la nutrice e Lucia la rende espressiva con un tono di voce teso, angosciato. Definiamo l’uso dello spazio. Ecco i mediatori: recitando, sistemano l’ampio telo bianco che delimita lo spazio a disposizione degli interpreti definendo così la scena. I mediatori se la cavano molto bene nel loro rapporto con il pubblico, forti anche dell’esperienza dell’anno scorso; e Francesco, arrivato quest’anno, è sicuro di sé ed espressivo come se il teatro ce l’avesse nel sangue.


Il coro è ancora informe. Voglio farne un’accozzaglia di individui rancorosi e reattivi, una marmaglia cupa sempre pronta a violenze di ogni genere. Francesco (l’altro) canta con sicurezza, e quindi riprendendo la forma di recitativo e canto della tragedia greca invito anche i tre compagni a cantare le loro battute: dal rifiuto iniziale si passa a “ci provo” e poi tutti cantano con esiti diversi. Le loro azioni sono scandite dai ritmi dei quattro tamburi dei mediatori e assistiamo alla rissa di strada e all’incendio del palazzo reale, una specie di balletto con il telo rosso che vola alto leggero, una danza frenetica saltellata suggerita da Francesco, quasi un sirtaki greco su una musica mediorientale.

Per concludere, il primo monologo di Creonte che racconta la morte propria e della figlia. Luca agisce con prontezza, la voce è credibile. Angelica dopo le prime perplessità si lascia andare di più e i movimenti atroci di fronte allo specchio cominciano a delinearsi. Un applauso a tutti.

Arrivano i genitori e parliamo per una mezz’opera dei costumi. A martedì!

martedì 29 novembre 2016

IL MIO TEATRO ADESSO

La consapevolezza di un punto d’arrivo può arrivare tardi, ma tutto quanto la precede fa parte di un processo e non va certo rinnegato. Ho scritto tantissimo, spesso male, ma ogni parola ha contribuito all’attuale soddisfazione. Le vecchie opere per adulti mi sono servite per capire quanto fossero inadeguate e lontane dai miei oscuri obiettivi: i loro difetti sono diventati punti di forza. Quelle per i ragazzi mi hanno aiutato nella sintesi sintattica e nell’uso della versificazione, oltre che a un montaggio rapido, di stampo cinematografico. I saggi sul teatro, molto arrischiati, mi hanno introdotto alle problematiche stimolandomi a leggere leggere leggere. Ho così scoperto la vena inesauribile della tragedia greca e l’ho seguita con dedizione.

Dapprima ho cercato di sondarne la struttura, alla ricerca di una forma mia. Poi ho riscontrato la convergenza delle tematiche: la natura dell’eroe, l’essenza/assenza della divinità, il rapporto tra pubblico e privato, l’autodeterminazione, la diversità, la famiglia… Mi sono avviato verso un linguaggio personale che nascesse dall’alfabeto della tragedia greca, modificato nei suoi segni per tentare una tragedia moderna. Lontana dalla quotidianità e dalla cronaca, voluta per un’esegesi alta della contemporaneità e valida per tutti i tempi.

I personaggi si ritrovano in un luogo chiuso, al di fuori del quale si scatena la tempesta del mondo. È il luogo delle meditazioni, delle rivelazioni, delle decisioni e dei cambiamenti. Un protagonista, una spalla, un antagonista, il coro: questo è lo schema passibile di variazioni. L’espressione è sia prosastica  (si passa dalla retorica al linguaggio più popolare, ma sempre “letterario”) sia poetica (versi liberi, o in metrica o in rima, soprattutto per il coro). L’azione rispetta le unità “aristoteliche” (che in verità ne prevedeva solo una, d’azione; le altre risalgono all’umanesimo): di tempo, di luogo, di azione. Compaiono i grandi eroi elleni, perfino i mostri come Cerbero; e a volte gli dei. I contenuti si rifanno alle grandi tematiche dell’umanità e non concedono nulla alla cronaca spicciola dei tempi, ma ne riflettono gli umori (gli pseudo eroi del gossip, della finanza, del socialismo capitalista; le migrazioni; la giustizia elitaria; il potere e la ricchezza, l’isteria di massa…).

Ho cominciato con l’elaborazione della “drammaturgia del luogo chiuso” (vedi saggio), continuando con la scoperta del doppio gruppo di interpreti: quelli relativi al dramma vero e proprio, che non hanno alcun rapporto con il pubblico; e quelli che il dramma lo commentano, lo raccontano, lo condividono con il pubblico. Grotowski e Brecht alleati sulla scena. Nessuna didascalia. Il ponte tra la drammaturgia e la messa in scena non è costruito dalla regia dell’autore, che con le battute ha esaurito il proprio compito, ma dall’allestimento di un regista esterno o di una compagnia.
Molte strategie espressive sono nate dal lavoro con i bambini, allestendo le Baccanti e la Medea.

Le prime opere sono diverse l’una dall’altra e denunciano la sperimentazione, la ricerca di contenuto e contenitore. Ecco i titoli delle “tragedie mitiche”: GANIMEDE (finalista Cendic)), ACHILLE SULL’ISOLA DEI SERPENTI, ANDROMACA DEVE MORIRE, AUGE DEL SANGUE, CLITENNESTRA VERSUS APOLLO, DAFNI AMA PAN, ELENA TU SEI PANDORA (finalista Cendic), PRIAMO SUPPLICE (scelto per lettura), e la prima ingenua TIRSO. Ho scritto anche (dedicato a Eracle, una delle mie passioni) LE DISGRAZIE DI SOSIA, incentrato sul servo e non su Anfitrione. Vedi sotto gli incipit.

Sono così giunto a opere coerenti e di cui sono orgoglioso: LA RIVOLTA DEGLI SCHIAVI IN SICILIA, DEI SUPPLICI, L’ERACLE, I CORINZI. Non vedo l'ora di continuare su questa strada. Magari un CRIZIA, il primo ateo della storia.

Tengo un laboratorio di teatro per ragazzi e l’anno scorso ho presentato le Baccanti, quest’anno la Medea. Scrivo per compagnie locali (ultimo, “Il donchisciotte”).

Spero un giorno di vedere la messa in scena di una delle ultime opere. So che generano diffidenza. Ma io non scrivo per un consumo legato all’attualità. Ci sono già il cinema e la televisione.

Gli incipit delle ultime opere li trovate nel mio sito:



mercoledì 23 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (otto)


Giornata grigia. I ragazzi vivaci, troppo. Due giochi di riscaldamento. Cerchio, uno pronuncia una sillaba “cantata”, nel senso che deve essere una nota e non una dizione; via via ognuno aggiunge la propria ripetendo tutte le precedenti. Anche in questo caso la tendenza è ripetere la sillaba del compagno su una tonalità diversa. L’ invito a non considerare solo da, ma bla, tol, miè… Il secondo gioco consiste nell’indossare un impermeabile. Bisogna inventare una situazione. L’esempio che faccio viene ripreso e ripetuto. Osservo che non devono limitarsi alla casa, ma immaginarsi in ambienti come il ristorante, l’ospedale… ed elaborare una breve storia che giustifichi i modi diversi (schifato, addolorato, irritato...) di indossare l’indumento. Fanno sempre fatica a staccarsi dagli ambienti quotidiani: hanno scarsa esperienza del mondo? vogliono sentirsi al sicuro? perché non fanno ricorso alla loro cultura di film, libri, videogiochi? è una cultura così poco produttiva? Faccio riflettere su alcune incongruenze. Raffaele solleva l’impermeabile e lo annusa infastidito. Sta ragionando da attore onnisciente, non da personaggio. “Mostri al pubblico le tue intenzioni, invece di nasconderle; tu sai già tutto, e lo riveli. Che l’impermeabile puzzi è una scoperta, non un’esibizione.” Errore comune, questo di lavorare sulla scena da attore e non da personaggio. Si comanda a sé stessi avendo in mente lo sviluppo dell’opera, invece di viverla momento per momento, svelando via via le emozioni. Qualche altra osservazione e poi via, si comincia.

Giornata grigia. Infatti non hanno studiato. Non possiamo andare avanti a esercizi divertenti. Ci si deve rassegnare al lavoro duro. Ma non è facile. Quando ci sono i primi cedimenti, temo subito la frana. Di colpo, mi prende lo scoraggiamento. Che cosa ci faccio, qui? In un’aula troppo angusta, senza un palco, senza le luci? Come posso fare teatro in un posto così? E loro? Davvero vogliono fare teatro o solo divertirsi? E perché non ho proposto una storiella per bambini, frizzante e facile? Che senso ha affrontare una Medea con ragazzi che hanno voglia di muoversi e chiacchierare? Non sto sbagliando tutto? Ormai siamo imbarcati, l’oceano della messa in scena ci accoglie con marosi spaventosi, e siamo circondati da scogli e mostri, il naufragio è vicino, e non si vede una spiaggia tropicale pronta ad accoglierci.

Andiamo avanti con la lettura. Devo combattere su due fronti: con gli interpreti e con il testo. È inevitabile che il testo risulti letterario. L’ho scritto per me, non per i bambini. Ora devo adottarlo a loro. Troppo lungo, provvedo a tagliare. Mi appaiono le prime difficoltà come ostacoli insormontabili: sempre tutti in scena, ma dove li metto? a fare che cosa? Devo trovare una linea musicale comune, che fondi i mediatori con i personaggi. Devo veleggiare verso la concentrazione, l’immobilità vibrante, la… trasformazione. Il concetto è difficile. Non posso discuterne con loro, non capirebbero. Devo ricorrere a stimoli fisici, ma anche questo appare troppo difficile. Li invito a cercare un registro vocale diverso, a fare esperimenti su di sé. Quando riescono a emettere un suono più nasale (ma non troppo), o più scuro (ma non troppo, per non fare teatrino), lo tengono per due battute, poi se ne dimenticano. E la postura? Cinque secondi, poi il corpo si raddrizza. Ecco le due direzioni di lavoro: la continuità dell’espressione fisica che garantisca coerenza, e non questa bailamme babelica; e la flessibilità mentale che supporti la ricerca di soluzioni. La trasformazione implica che l’interprete esca da sé stesso, si dimentichi; e affronti un viaggio verso un altro da sé, senza arrovellarsi sulla corrispondenza psicologica: il personaggio nascerà da una trasformazione che soddisfi a prescindere dalle linee psicologiche, utili solo come stimolo iniziale.

Ripetiamo il pezzo del coro sorretto dalle percussioni dei mediatori. Si ricordano, ma con molte sbavature. Molti ragazzi faticano a capire la necessità della perfezione. Badano al risultato, non alla sua qualità. Correggo i tempi, che devono essere precisi. Rendo più incisive le voci. Anche qui, sono richieste attenzione, concentrazione, precisione, pazienza, coordinazione, cooperazione… e per i miei piccoli grandi interpreti non sono comportamenti facili.


Bene, a casa ho tanti problemi da risolvere. Ma il teatro è appunto questo. Una “fabbrica del duomo”, una costruzione mai terminata (lo diceva anche Salvini, il “grande attore” di fine Ottocento: uno spettacolo viene rifinito durante le repliche, e la sua preparazione non finisce mai), un’utopia che presenta molte più difficoltà rispetto ad altre arti. Anzitutto, si lavora in gruppo e la volontà dell’uno deve sempre confrontarsi con quella degli altri. Poi si lavora con idee di spazio e movimento che devono essere concretizzate. C’è un continuo confronto tra il sogno e la realtà di oggetti che al confronto risultano vili e inadeguati. Infine, la battaglia con la parola. Il testo non è mai un teatro, ma una porta su mille possibili teatri. La sua messa in scena è faticosa perché deve fare i conti con le esegesi, gli interpreti, le risorse. Tutto per una sera, una soltanto. Irripetibile, come lo è l’esistenza. 

Giornata grigia. Ma il sole torna, certo che torna.

mercoledì 16 novembre 2016

L'ATTORE E LA TRASFORMAZIONE.


L’elemento più misterioso, nella storia del teatro, è l’attore. Fin dall’inizio, dal ditirambo lirico di Arione di Metimna a quello scenico di Tespi, preludi alla tragedia greca, preceduti dalle forme dialogiche mediorientali (lo straordinario Dialogo del pessimismo mesopotamico) e dalle drammatizzazioni sacre dei faraoni, l’attore è uno sciamano visitato dal dio e dalla divinità attinge l’energia per declamare e cantare cose che stanno tra la terra e il cielo. Un essere, quindi, diverso e perfino inquietante, perché sulla scena è un presente-assente, tale e quale allo sciamano, una multi-personalità che può rappresentare-essere qualunque altro uomo, oppure un eroe, e perfino un dio.

L’ultimo a riconoscergli questo afflato divino è però Platone. Con l’Ellenismo l’attore si avvia al professionismo e non cerca più il contatto con il soprannaturale, ma la tecnica per meglio accattivarsi il pubblico. D’ora in poi è il pubblico che fa l’attore, invece che, purtroppo, il contrario. Di tecnica teatrale non si parla e non si scrive e i teorici dell’espressione in pubblico si concentrano solo sull’oratoria. È l’oratoria l’arte nobile della parola, quella che fa vincere i processi e che consolida la carriera politica, e che contribuisce a edificare imperi commerciali. 

Cicerone, Quintiliano e altri si esprimono, in termini piuttosto vaghi, su come declamare concetti, aggiungendo all’esperienza dei sofisti il gesto e la mimica facciale. Il teatro si svilisce, degradato a spettacolo sullo stesso livello dei ludi gladiatori, dei mimi di strada, dei giocolieri. Decorosa è solo la lettura privata colta riservata ai nobili e presentata nei salotti esclusivi dell’élite intellettuale. Chi fa teatro è lo schiavo o il poveraccio che eredita il mestiere e impara osservando quelli che hanno esperienza. Teatro di corpo, più che di parola. Di aprire una scuola drammatica a nessuno viene in mente, e questo per secoli e secoli.

La Chiesa dedica un’attenzione paranoica al teatro (come ad altre cose). Viene ossessionata dai corpi esibiti, dalle parole non censurate, e soprattutto dall’effetto che la scena ha sullo spettatore. L’attore non è un oratore decoroso e forbito, ma un demone che si trasforma in… in Anticristo. Se Dio è verità, l’attore è menzogna. Egli è il doppio, ciò che sfugge alla definizione logica. Egli è l’inidentificabile e l’ingovernabile. D’altronde, la metamorfosi appartiene al paganesimo. Lo testimoniano i miti e i grandi scrittori come Ovidio. L’attore è l’estensione vivente dei falsi dei. La chiesa, e non solo, bandisce l’immaginazione libera, ammettendo (come già Platone) solo ciò che è riconducibile alla natura visibile. Il teatro è copia della realtà in senso moraleggiante. Altrimenti, è metamorfosi peccaminosa.

La questione dell’imitatio naturae riguarda tutte le arti e riempie biblioteche intere. Si sono sprecate tonnellate di parole per dire cose che non dicono niente. In ambito teatrale sorge un’altra questione, quella dell’emozionalismo: pro o contro? E il sec. XIII s’infiamma. L’attore deve provare davvero le emozioni che porta sulla scena? O deve solo sviluppare la tecnica per interpretarle e trasmetterle in modo convincente al pubblico? Diderot è il più autorevole: nessun attore si emoziona davvero, il teatro è un gioco di finzione. Ma l’Ottocento si scalda e i grandi attori e i mattatori di fine secolo (da Salvini alla Duse) ci danno a intendere che l’attore diventa realmente il personaggio, soffrendo e gioendo sulla scena con la stessa intensità del personaggio-persona. L’eredità viene raccolta da Stanislavskij in un’epoca che vede finalmente aprirsi vere scuole di teatro, con un fiorire incredibile di teorie sull’arte drammatica tutta intera: interpretazione, scenografia, musica…

Ora la questione è: essere o non essere il personaggio? Il Metodo o Psicotecnica di Stanislavskij ha condizionato l’evento teatrale non solo degli entusiasti, ma inevitabilmente anche dei critici: nessuno può fare a meno di confrontarsi con le sue conclusioni. Che rimangono a ogni modo aperte, dato che in fin di vita ha dato il via a un nuovo metodo fondato sulle azioni fisiche, che è stato altrettanto stimolante.

A che cosa e per che cosa deve prepararsi l’attore? Ricorrendo alla memoria emotiva, all’immaginazione, alla ricerca, al se magico, alle azioni fisiche… egli si rende disponibile a una trasformazione. In che cosa? Ecco il punto. In che cosa si trasforma l’attore? Molti teorici, Stanislavskij compreso, insegnano che l’attore deve rinunciare a sé stesso, farsi da parte per dare spazio al personaggio in fieri… ma allo stesso tempo impegnano l’attore in una serie di attività tutte incentrate su sé stesso, un’indagine psicologica ed emotiva profonda e coinvolgente. L’attore è quindi potenziato, e non messo in ombra.

Lavorando con i ragazzi, e non essendo il mio laboratorio una scuola con presenze giornaliere, ma settimanali, e per solo un’ora e mezzo, non posso certo proporre il Metodo. Diviene impossibile non solo per il tempo a disposizione, ma anche per l’età degli interpreti, la cui esperienza di vita e la cui potenzialità espressiva sono limitate. Si affronta la questione “emozionalista”, certo. Si discute su come “entrare” in un personaggio, sicuro. Ma ciò che mi interessa non è tanto la questione dell’interpretazione, quanto quella della trasformazione.

L’attore ha da sempre generato sconcerto, paura, curiosità, irritazione (ricordiamoci di Solone e di tutti i detrattori del teatro)… perché è un essere in metamorfosi. Che cosa diventa quando la trasformazione è compiuta? Questo è il mistero su cui indagare. Nel video che ho girato sulla lettura che Giulio fa di Medea, appare evidente quanto il ragazzino si stia trasformando. Egli non è più Giulio, ma non è nemmeno Medea. Sembra che sia consapevole del cambiamento che interviene in sé stesso: i gesti che non gli appartengono, la voce che non è quella quotidiana, la concentrazione come un ripiegamento in sé, gli occhi chiusi, la pausa finale… tutti indizi di un viaggio sciamanico, un volare in un mondo diverso, sopra la realtà, dentro una comunicazione che risulta efficace senza che sia possibile definirne i motivi, che non ci offre una Merdea “realistica”, assolutamente. Giulio non ricrea la realtà non la copia, non cerca la mimesi aristotelica con una donna madre-moglie-maga-strega-divinità-infernale che esula dalla sua esperienza di vita. Egli esprime qualcosa che ha dentro, e che gli viene suggerito… dal dio, direbbe Platone. Dal teatro, dico io. Il teatro invita al cambiamento, alla metamorfosi. E questo è il lavoro che voglio svolgere con i ragazzi. Portarli verso una trasformazione di sé, per vie misteriose.

In conclusione, non l’attore e l’interpretazione; ma l’attore e la trasformazione.

Ecco la battuta di Medea:

MEDEA         Andate in casa. In silenzio. In camera mia. Sul mio letto. Vi raggiungo. Ho qualcosa per voi. No, non dite niente. In silenzio, ho detto. È una sorpresa. Facciamo tutto in silenzio. È una cosa che riguarda solo noi.


Ma che cosa implica la trasformazione?

Una rottura con il passato, uno stacco dalla quotidianità, una disponibilità al cambiamento e all’acquisizione di nuovi aspetti della personalità, una libertà interiore, un’anarchia positiva, uno scetticismo verso il consolidato, verso il sistema… L’uomo comune pone tra i massimi valori la stabilità e la sicurezza, il dogma politico e religioso, la comunità come status quo, l’immutabilità del mondo… e l’attore che opera la trasformazione sulla scena dà quindi il via a una piccola rivoluzione individuale e personale. Il che non piace a tutti. Ma il riferimento al cambiamento sarà approfondito prossimamente, con i riferimenti ai riti di passaggio. Come ho già scritto (“Il teatro come rito di passaggio incompiuto”) la trasformazione dell’attore in personaggio avviene nell’area centrale e misteriosa del rito, quando l’iniziando è al di fuori della società, in cui rientra accettandone le regole. Ma l’attore, ahimé, ci si ferma, ebbro di libertà creativa.

martedì 15 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (sette)

Oggi, 15 novembre, ho lasciato a casa gli allievi “anziani”, a parte Giulio che mi serve come Giasone; così posso concentrarmi sui nuovi. Un po’ di verifiche: perché la nostra Medea incomincia dalla fine? Non tutti sanno rispondere, così ripeto l’esempio del detective. Giunge sulla scena quando il delitto è compiuto; raccoglie indizi e testimonianze e va indietro nel tempo per ricostruire le “circostanze”. Lo stesso facciamo noi: portiamo il pubblico a indagare su Medea invitandolo a farsi un’opinione dopo che ha conosciuto tutto ciò che precede l’assassinio dei figli. Ripassiamo anche circostanze e situazione. Il sottotesto. Scrivo sulla lavagna: pause, appoggiature, velocità, tonalità.
Lavoriamo su un’ipotesi di inizio dello spettacolo, una specie di prologo. Luci abbassate in sala, la scena vuota. Dal fondo della platea entrano Medea e i due bambini, con una musica antica assira. Medea mormora “Mermero… Fereto…” con un tono subdolo e spaventoso, da strega che mangia i bambini; i quali bisbigliano cose tipo “no, mamma… non vogliamo… lasciaci stare…”: intuiscono che la madre sta per compiere qualcosa di terribile. Salgono sul palcoscenico, Medea si accovaccia dietro la scaletta, i bambini si stendono dietro il telo bianco e l’infanticidio è compiuto. Faccio muovere tutti per l’aula, tutti sono i bambini, io Medea. Sentono la pressione, vogliono evitare l’ansia, si distraggono, qualcuno ride. Fermo tutto, minaccio di chiudere il corso. Replica. Bene, benissimo. Lenti, concentrati sulla propria paura.
Prendo la prima battuta di Mermero, uno dei due bambini: “Forse, conoscendoci, imparano a volerci bene.” Così risponde alla madre che denigra il re e gli abitanti di Corinto. Invito a leggere a turno, cercando una modalità espressiva diversa da quella dei compagni, utilizzando le quattro voci sulla lavagna. Li guido nell’analisi. Il passo successivo riguarda un dialogo tra i due figli. Eccolo:
MERMERO   Madre, siamo tornati.   
FERETO        Abbiamo fatto come volevi. Sei contenta?
MERMERO   Non odiarci se non vogliamo seguirti nell’esilio.
FERETO        Siamo piccoli, abbiamo paura.
MERMERO   Come facciamo senza più una casa?
FERETO        Il papà ci vuole bene, meglio per noi se restiamo qui.
MERMERO   Non dici niente, madre?
FERETO        Veniamo a trovarti ovunque ti trovi, lo giuriamo.
MERMERO   Siamo sicuri che anche tu potrai farlo, lo chiediamo al re, non è così cattivo come dici.
FERETO        Glauce ci tratta bene, non devi stare in ansia per noi.
MERMERO   È una seconda mamma, ce l’ha detto lei.
FERETO        Tu puoi avere altri figli, non credi? Così ci ha detto nostro padre.
MERMERO   Madre, di’ qualcosa, ti supplico.
FERETO        Se fai così, mi viene da piangere.
MEDEA         Andate in casa. In silenzio. In camera mia. Sul mio letto. Vi raggiungo. Ho qualcosa per voi. No, non dite niente. In silenzio, ho detto. È una sorpresa. Facciamo tutto in silenzio. È una cosa che riguarda solo noi.

Li aiuto ad analizzare le singole battute, scoprendo quali emozioni, sentimenti, atteggiamenti si celano sotto il testo. Osservo che una battuta non è mai slegata dal contesto e andiamo a scoprire il gioco di azione e reazione tra loro e la madre: i conflitti, gli imbarazzi, le paure… Lavoriamo molto sulla battuta di Medea, che è molto difficile per loro da rendere. Faccio nascere le pause dalle mani e dalle braccia e propongo di spezzarla in due: nella prima parte è ancora una madre che però rinnega sé stessa e spezza il legame affettivo trattandoli con durezza, preparandosi all’omicidio; nella seconda parte la madre si è ormai trasformata in strega, in una creatura tra l’umano e il divino, legata al mondo infernale. Leggo io e poi faccio leggere a tutti. Chiedo a Giulio di ripetere la sua performance e lo riprendo con il cellulare. Degli altri, qualcuno ha cercato di interiorizzare il mondo complesso e spaventoso di Medea, altri sono rimasti alla superficie; ma va bene così.


Passiamo a Creonte. Il nonno di Giulio mi ha preparato la base per lo specchio di Glauce e ha fissato la cuspide all’elmo che ho trovato in un mercatino dell’usato a Baveno. Lo fotografo e lo pubblico nel prossimo post. Faccio leggere Luca il monologo della terribile fine sua e dellka figlia:

“Glauce, mia figlia, indossa il peplo donato da Medea. Corre allo specchio. Ne vedo l’immagine riflessa. Sono felice della sua felicità. Qualcosa di terribile. La mia bambina impallidisce, trema in tutto il corpo, si accascia a terra, la bava alla bocca, le pupille stravolte. Il diadema portato dai figli di Medea prende fuoco. Un torrente di fiamme inonda i capelli. Urlando, si rialza, si mette a correre. Scuote la testa, ma il diadema si fonde alla carne. La inseguo, la afferro. Prendo fuoco anch’io. Corriamo abbracciati e diffondiamo l’incendio nella reggia. Muoio così, abbracciato a lei. E lei muore con me. Il mio ultimo pensiero è per la vendetta: che possano morire anche i figli di Medea, che possa soffrire anche lei, ma cento volte di più.”

Cerchiamo le pause, la velocità, costruiamo i movimenti sia di Creonte sia di Glauce. In finale di battuta, faccio intervenire il coro con alcuni teli rossi che in un girotondo vorticoso agitano e lanciano come le fiamme dell’incendio. Luca se la cava bene.

E arrivano i genitori. “Studiate a memoria! Più che potete!”

A martedì.

martedì 8 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (sei)

Otto novembre. Ascolto i commenti positivi sull’incontro con Agnese sulle emozioni. Oggi nessun esercizio particolare, spiego solo che cosa si intende per training autogeno, che cos’è il rilassamento, come avviene la respirazione. Un breve input per testare la personale disponibilità a gestire la tensione muscolare. Da seduti, le mani poggiate sulle cosce, induco la pesantezza del braccio destro. Ascoltiamo poi alcuni commenti. L’intenzione è solo di introdurre la questione del rilassamento, non c’è tempo per approfondimenti. Parliamo brevemente dell’emozione che precede lo spettacolo, provocata per alcuni più dal rapporto con il pubblico che dalle insicurezze personali; ma c’è chi, come Raffaele, ama questo rapporto, dato che sente forte il piacere di esibirsi.


La sessione è tutta finalizzata a una prova di spazi e scenografia. Devo rendermi conto se visivamente la scena regge. Stendiamo l’ampio telo bianco che disegna lo spazio riservato agli interpreti della Medea. Costituisce una bolla nella quale non vi sono direzioni privilegiate. La quarta parete scompare insieme alle altre, dato che il palcoscenico perde la sua funzione di porre gli attori in un rapporto frontale con il pubblico. Gli spettatori potrebbero, come succedeva nel ‘700, salire sul palco e sistemarsi intorno all’isola bianca. Non c’è quindi un fondale completo, ma solo un fondalino bianco adottato per consentire momentanee scomparse e riapparizioni: gli attori non lasciano mai la scena-isola. I quattro “mediatori”, invece, sono libero di spostarsi ovunque purché non calpestino il telo bianco: possono girarci intorno e lasciare il palco per scendere tra il pubblico, facendosi spettatori essi stessi quando si accomodano sullo sgabello che si portano sempre dietro. Durante i loro interventi, la scena si cristallizza. Sono consapevole del rischio enorme che corro chiedendo agli interpreti di immobilizzarsi in lunghi stop. I ragazzi faticano a tenere la scena in modo significativo durante i silenzi e le staticità; si distraggono, cercano con lo sguardo, si lasciano sfuggire movimenti di ogni tipo. Non è un problema da affrontare subito. Prima voglio la memoria e un’imbastitura di tempi. Sistemiamo gli oggetti (scala, sedia-trono, seggiolina, specchio, due cubi) e cominciamo la lettura.

Ho trovato le musiche su Youtube, cercando brani etnici tradizionali del Medio Oriente. Il primo brano è una melodia assira molto suggestiva. Come già scritto, la messa in scena presenta l’opera al contrario: si comincia con la morte dei figli e si va all’indietro per ricostruire la vicenda. Medea emette un gemito infantile continuo, la nutrice apre l’opera con un breve monologo sui bambini uccisi, che si intravedono dietro il fondalino. Faccio vedere a Lucia come deve muoversi. Suoi interlocutori, nonostante le diano le spalle, sono il gruppo reale (re, principessa e Giasone) e il popolo-coro di Corinto; mai il pubblico e i mediatori. Eccoli in azione. La partecipazione emotiva è ancora superficiale e sfocata, ma è solo la prima lettura. Sono ragazzini che si trovano a confrontarsi con un mondo adulto che per di più è legato al mito. Battuta dopo battuta, emergono le ricche sfaccettature del dialogo: diffidenza, pietà, sconcerto, condanna, dubbio, empatia… cento emozioni diverse da esprimere con una declamazione che suoni il più possibile sincera e convincente. Un’ora e mezzo alla settimana fino ad Aprile è poco per un lavoro tanto impegnativo, ma… le nostre ambizioni sono sempre commisurate all’età dei ragazzi.

Dopo l’intervento di Medea (Giorgia sembra avere qualche problema a stare in piedi sulla scaletta, ma mi sembra di notare tutta una serie di tentativi per svuotare di intensità le battute difficili e troppo “tragiche”; dovrà rassegnarsi: Medea è Medea), entra in azione Giasone. Voglio un grido, un balzo, lo ottengo. Faccio abbassare il tono a Giulio (“Maledetta…”) che per dare forza alla sua rabbia rende stridula la voce. Non è facile identificare il quadro emotivo di Giasone: odio per chi gli ha ucciso i figli e desiderio di vendetta, ma anche dolore e forse senso di colpa, il tutto unito all’agitazione e alla paura per l’assalto dei popolani alla casa, decisi a uccidere la strega e i suoi figli.

Con i mediatori che commentano e spiegano (“Ascoltate. Sentite come gridano? Arrivano gli abitanti di Corinto”) termina in modo convulso l’Esodo. I popolani danno l’assalto alla casa, ma Giasone riesce a fermarli. Si mettono a litigare tra di loro e la zuffa si fa feroce. Imposto la scena che è ancora tutta da calibrare tra le battute concitate dei mediatori e l’azione fisica dei quattro coristi-popolani che sconvolgono l’ordine glaciale della scena. Eccoci al Quinto Stasimo. Avevamo già provato il primo intervento del Coro. Le battute sono affidate ora a tre singoli ora al coro, con Francesco che canta tutto il testo senza alcuna sincronia con i compagni, partecipando però anche lui alla declamazione corale. I mediatori sono ora impegnati ai tamburi. Ognuno di loro accompagna una voce singola, oppure (Nicolò) l’intero coro. La partitura prevede quindi: voce solista che offre pause al tamburo, canto improvvisato, coro con sottofondo di percussioni. Ecco il testo, con a fianco i riferimenti ai quattro coristi (1 Ariel, 2 Alice, 3 Francesco, 4 Valentin):

CORO Sei di pietra? Sei di ferro? 1
            Il letto di una donna 1
            è un letto di dolore: 1
            solo sciagure per gli uomini. 1
Guarda i nostri morti, 2
venuti per fare giustizia, 2
            vittime della tua magia. 2
Guarda i morti della peste 4
che hai scatenato su Corinto 4
per distruggerci tutti. 4
            O Terra, o Sole, 1234
            fermate la donna sciagurata. 1234
I delitti dei consanguinei 1
            sono i peggiori, 2
            sono imperdonabili. 4
            Al rogo la strega! 1234
            Ha ucciso i figli! 1234
Ha diffuso la peste! 1234

E tra una cosa e l’altra abbiamo fatto le 17.45. Alcuni ripongono i materiali, altri passano l’aspirapolvere, poi giocano. Alla spicciolata arrivano i genitori. Chiedo al nonno di Giulio se mi può fare due lavoretti: tagliare una barra di ferro e aggiungere la punta all’elmo tipo longobardo o celtico di Creonte. Io ho provveduto a pitturare di bianco la seggiolina di Giulio e…  nonostante due giorni di asciugatura, quando si è alzato si è ritrovato i calzoni macchiati. Meglio che mi dedichi ad altre cose.


giovedì 3 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (cinque)


"Kalon Ensemble" a Londra


Giovedì 3 novembre. Sono in pochi, dieci, dato che il laboratorio è stato spostato da martedì a oggi. Cominciamo integrando lo schema alla lavagna: il sottotesto porta a situazione, circostanze e attivazioni, ripartite in azioni testuali e azioni psichiche. Due sole battute, una per personaggio: Se vuoi che sia così, me ne vado. Addio / No. Rimani. Francesco e Giulio.
Guido l’interpretazione dello schema e scegliamo tra le varie risposte per concretizzare una situazione: una coppia sposata si separa perché il marito non tollera più che la moglie lo denigri e gli metta contro i figli. Dividiamo in tre la prima battuta e costruiamo i movimenti semplici di Francesco. Giulio è seduto e ha solo due parole: con la prima si tende verso Francesco, con la seconda si alza e gli si accosta. Definiamo il succedersi degli stati d’animo e invito a lasciar parlare il corpo sulla scia delle emozioni. Francesco trova un piglio più deciso, che rasenta l’aggressività; Giulio cerca posture che manifestino la paura del futuro.

Mi dedico al coro, dato che ci sono tutti e quattro i componenti. Prendiamo la prima battuta e la dividiamo fra tre interpreti, con momenti d’insieme. Il quarto, Francesco, canta su improvvisazione in sottofondo. Faccio leggere più volte. Per loro è la prima esperienza di teatro, non hanno idea di come impostare la voce. Li faccio scandire, aumentare l’intensità, battere sulle finali… Invito Raffaele e Matteo ad accompagnarli con i tamburi a dita leggere. Poi passo alla musica. Ho saccheggiato Youtube alla ricerca di brani etnici mediorientali. Questa è assira, percussioni e sonagli. Dopo alcune prove in cui apprezzano il risultato d’insieme (voce solista, coro, canto di Francesco, musica), li metto tutti in pista a seguire con il corpo i ritmi orientali, formando una giuria con Matteo, Giulio e Raffaele. Il loro metro di giudizio, però, sarebbe valido in una discoteca, non qui. Dissento dalle loro indicazioni e indico chi secondo me ha accompagnato meglio con il movimento libero i cambiamenti di ritmo e melodia, Francesco S.

Esercizio: entrare nella propria camera e descriverla in modo dettagliato. Ci provano in tre, ma faticano a capire l’attività. Devono muoversi come se si trovassero davvero nella stanza, rispettando le distanze e le misure, mimando i volumi, muovendo in modo appropriato lo sguardo… Le prime descrizioni sono  approssimative e il pubblico non riesce a vedere con gli occhi dell’interprete. Via via correggo gli errori più evidenti e ci sono miglioramenti. Come al solito, l’impulso è di fare in fretta, mentre l’esercizio richiede calma e precisione. 
Alla prossima.



martedì 1 novembre 2016

LE ARCHITETTURE DI IVO

Seguendo la via Stampa di Gravellona che porta alla passerella sullo Strona, dalla quale si raggiunge Fondotoce, s'incontra il giardino di Ivo, e ci si ferma a spiare oltre la recinzione, fortemente incuriositi da quello che si vede:modellini in pietra di torri e castelli e chiese.

Se siete fortunati, un vicino di casa si affaccia dal balcone e grida: chi cercate? Poi chiama a gran voce Ivo che ci viene ad aprire per introdurci, cortesissimo cicerone, nel suo regno di granito. Ivo è in pensione, ma la passione l'ha preso già da ragazzo e per tutta la vita ha perfezionato la sua arte di architetto in miniatura.

Il giardino è un'esposizione di meraviglie.
Ci sono torrioni rubati al set del Signore degli Anelli, le principali chiese delle vallate, le ville di Intra, i castelli valdostani, perfino le cascine venete. Decine e decine di edifici litici i cui componenti sono tutti realizzati a mano, con lavorazione di pietra, ferro, alluminio e legno.

Ivo ci ragguaglia sulle tecniche costruttive e ci dà appuntamento a Baveno, domenica 13 novembre, per la rievocazione degli antichi mestieri “UN SALTO NEL PASSATO”, dalle ore 12:00 alle ore 19:00 nel centro storico (mentre sul lungolago si tiene il mercatino dell'antiquariato).