giovedì 30 luglio 2015

PINOCCHIO COME UN ERACLE DI TRAGEDIA

Aquilino
PINOCCHIO COME UN ERACLE DI TRAGEDIA

Questo scritto è un gioco suggerito dalla stesura di un testo teatrale per ragazzi (“Nel paese dei mi piace”). Rileggendo Pinocchio, mi è venuto da pensare alla vita tragica di un burattino che sogna di diventare ragazzo e fa di tutto per non diventarlo; e di un ragazzo costretto a barattare la propria identità con la rinuncia alla vitalità del burattino, che ridiventa un pezzo di legno da catasta e quindi da focolare; il tutto sullo sfondo di una società scombinata e violenta. Pinocchio dovrebbe essere, nelle intenzioni dell’autore, il modello per imbrigliare le forze istintuali e realizzare un mondo più giusto e civile. Una Ananke,  una necessità, questa trasformazione che costa sangue e lacrime e che non risponde alla domanda: ne è valsa la pena?

Rileggendo Pinocchio con un occhio alla tragedia greca, ecco farsi avanti Eracle, creato da Zeus per civilizzare il mondo e operare il passaggio dall’età del bronzo a quella del ferro, dall’età degli eroi a quella dei filosofi, dei matematici e dei politici. Ne è valsa la pena, per lui? Non è una domanda valida, perché anche la sua vicenda è dominata da Ananke. Così doveva essere, così è. Oppure poteva finire in modo diverso? Poteva Pinocchio diventare ragazzo senza rinunciare al burattino? Al contrario, poteva Eracle portare a termine le proprie imprese rinunciando alle vendette e alle soddisfazioni immediate a spese degli altri? L’uno e l’altro sono stati liberi di decidere, oppure davvero Ananke, il Fato, il destino, la ragion di stato, il dogma, il sistema… condizionano le vite fino a renderci alienati nei confronti di noi stessi?

La nascita di Pinocchio è evoluzionistica e al contempo metamorfica. Da ciocco mineralizzato, combustibile destinato a dissolversi in fumo, dotato comunque di parola, a manufatto ligneo finalizzato alla comodità umana; poi germoglia in un simulacro umanoide e prende infine forma di burattino vivo, dotato di pensiero proprio e destinato a salire al massimo grado di vita terrestre: un essere umano (ed Eracle un dio). Non è una nascita tranquilla, in parte perché l’embrione è di poco conto: “Non era un pezzo di lusso, ma un semplice pezzo da catasta.” Uno tra mille, creatura anonima a cui non viene ancora riconosciuta un’anima, schiavo sottomesso al quale non si risparmiano sofferenze e angherie: “Ohi! Tu m’hai fatto male!”

Diversa è la nascita di Eracle, dominata dall’inganno: Zeus raggira Alcmena assumendo le sembianze del marito; Era raggira Zeus facendo nascere per primo Euristeo, che soffia a Eracle il trono miceneo. Ma le bugie non sono una caratteristica di Pinocchio? E la violenza non appartiene al mondo di Eracle? I due si completano a vicenda, facendosi al contempo specchio l’uno dell’altro. La loro  nascita, in sintesi, è violenza e inganno.

Nel ciocco amorfo c’è già lo spirito di Pinocchio che vuole sì vivere, ma non soffrire; e questo è impossibile, come ci dice Euripide nel frammento del “Cresfonte”: “Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce, considerando i molteplici mali dell’umana vita; ma chi morendo pose fine ai gravi travagli, a questo gli amici dovrebbero celebrare le esequie con ogni lode e gioia.”
E Sofocle nell’”Edipo a Colono”: “Non veder mai la luce / vince ogni confronto, / ma una volta venuti al mondo / tornar subito là da dove si giunse / è di gran lunga la miglior sorte.”
Ecco prefigurato il destino del pezzo di legno: trasformazioni, sofferenze, colpi di testa fonti di guai, fughe e ritorni, ricerca di un’impossibile felicità, promesse vuote, eroismi. Un’inquietudine incessante e insoddisfacente, che rende comunque la vita piena e significativa.
E dopo tutto questo? Un bravo ragazzo che va a scuola e accudisce il padre anziano, tutto casa e scuola, tutto d’un pezzo, tutto uguale a mille altri ragazzi bravi cittadini: un esercito di schiavi.
Non somiglia per niente all’apoteosi di Eracle. O forse sì?

Ritorniamo, però, alla nascita di Pinocchio. Dopo il trauma, gli si prospetta un avvenire avventuroso e ricco di soddisfazioni (dal punto di vista di Geppetto, che s’immagina un figlio obbediente e lavoratore, dal quale farsi mantenere; un progetto di parecchio ridimensionato rispetto a quello di Zeus che investe addirittura la storia dell’umanità): “… un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino.”
Il mondo è uno dei leganti dei due personaggi: la loro casa è sempre fuori, nel mondo. Un mondo dapprima di terra (il Peloponneso e i dintorni della casa di Geppetto) e poi di acqua (il Mediterraneo e il mare del Pesce-cane).
Pinocchio pare entusiasta del progetto ed è lui stesso a precipitarsi da Geppetto: “Il pezzo di legno dette uno scossone (…) e andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.” Insomma, è lui stesso a scegliersi il padrone. Ironia tragica.
Ma, una volta a casa, man mano che il Pigmalione-demiurgo realizza il capolavoro, ne ricava occhiatacce, derisioni, dispetti e calci. E infine, a conclusione di una nascita davvero travagliata, la creatura, più Frankenstein che Galatea, si dà alla fuga. “Sciagurato figliolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene!” Eppure, lui e Maestro Ciliegia hanno appena fatto rissa per ben due volte, con una pantomima da commedia dell’arte o da teatro dei burattini (ma… siamo tutti burattini?) e scambio di botte e insulti indegni di due gentiluomini. Questa è solo la prima avvisaglia: vedremo sempre più spesso umani e adulti comportarsi da delinquenti, senza paragone rispetto alle marachelle del burattino-bambino. La stessa situazione trova Eracle nel mondo, una situazione di ingiustizie e sopraffazioni.

Nei primi tre capitoli sembra condensato il significato di tutta l’opera: il creatore s’illude di possedere e di gestire la propria creazione, che si stacca da lui e cerca vita autonoma. Pinocchio dà più retta ai furbastri della vita di strada che al moralismo di Geppetto, del Grillo e della fata. Eracle, una volta compiute le dodici imprese su mandato, che dovrebbero stroncarlo e invece lo rendono sempre più forte e sempre più violento e sempre più audace (non arriva a fare rissa con gli dei?), va in cerca di non sa nemmeno lui che cosa: la rivalsa sui torti subiti, la ricerca di gloria e ricchezza, l’abbandono ai piaceri, l’amore passionale e prepotente… come una nave di naufragio, che non trova porto in cui ripararsi. 


A differenza di Pinocchio, il semidio non proviene da un pezzo di legno, ma dai lombi di Zeus. La differenza si vede, e come! Ancora in culla, Eracle ammazza due serpenti, fatto prodigioso. Anche il burattino farà morire un serpente gigantesco, ma per una convulsione di risa: un’impresa da teatrino! Come Pinocchio, Eracle deve essere educato. Entrambi  mostrano un’insofferenza mortale per i maestri. Eracle usa uno sgabello contro l’insegnante di musica Lino, Pinocchio un martello contro il tuttologo Grillo Parlante.
Ecco, per entrambi il dado è tratto. Le Erinni si scatenano. I due devono espiare.
Pinocchio, per la precisione, il dado l’ha tratto poco prima, fuggendo dalla casa di Geppetto. Ha inizio qui il suo rito di passaggio, un lungo periodo di transizione che si conclude solo la mattina in cui si sveglia ragazzo.

Van Gennep e Turner ci insegnano il meccanismo: separazione, transizione e reintegrazione. In particolare ci interessa la liminalità della fase di transizione, quando il soggetto è posto fuori dai confini del mondo di appartenenza e deve rientrarci trasformato, operando per esempio il passaggio da bambino ad adulto. Nel caso di Eracle, da umano a immortale.
Pinocchio, dunque, scappa dalla casa di Geppetto. “Birba d’un figliolo! Non sei ancora finito di fare e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!” esclama il papà-creatore che ha le idee chiare e definitive sulla dicotomia male-bene. Non si pone la questione di una corretta elaborazione del rispetto mediante la reciproca conoscenza e interazione. Nemmeno Zeus si è mai posto la questione di informare Eracle dei propri piani. L’uno e l’altro hanno tra le mani un burattino di cui intendono servirsi, al di fuori di ogni confidenza. Tutti i diritti li ha quindi il creatore, il creato deve avere solo doveri.
L’uccisione del Grillo Parlante è un gesto di rottura subitanea e brutale con la tradizione. Un gesto di Hybris, di arroganza, di lacerazione dell’ordine divino. Tra i due non c’è possibilità d’intesa. Il Grillo suggerisce studio e lavoro, Pinocchio ha altre idee: “Mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.”
Quando si apre la fase della liminalità, tuttavia, prende risalto la sua inadeguatezza. Non è in grado di procurarsi da mangiare: l’uovo della frittata è un pulcino in fuga. Nemmeno di esplorare il mondo: i piedi prendono fuoco. Pinocchio rimane inchiodato nella casa di Geppetto, impossibilitato a fare esperienze di autosufficienza. Per di più, Geppetto non lo aiuta certo nella sua ricerca di autonomia. Torna dalla prigione e lo perdona, gli ricostruisce i piedi, gli cede la propria colazione, gli fa il vestito (ora di carta, un vestito fasullo per un bambino incompleto; alla fine sarà di stoffa, un abito serio per un ragazzo perbene), vende perfino l’unica casacca per fornirlo di sussidiario come tutti gli altri scolari. Quanti sacrifici fanno i genitori per i figli! E quanto glielo rinfacciano!
Il suo interventismo misericordioso interrompe il rito di passaggio e tarpa le ali al burattino. Gli nega ogni indipendenza, lo vuole asservito a sé e ai propri progetti. Il suo non è un rapporto educativo efficace e rispettoso delle diversità, ma un’ideologia di formazione come modellazione d’argilla: una forzatura, una violenza. Viene insomma invertito il rapporto adulto-ragazzo e Geppetto si dimostra immaturo e incapace di educare un figlio come persona emancipata.
Zeus, l’onnipotente, non fa che dichiarare quanto gli sia caro l’ultimo eroe, il migliore. Ma non si oppone agli imbrogli di Era e lascia che scateni Lyssa per farlo impazzire. D’altronde, lui è un politico, opera con i compromessi, manovra per finalità alte che non danno importanza ai dettagli delle individualità.
Nel rapporto padre-figlio manca l’affetto vero, quello che riconosce la necessaria distanza tra educante ed educando, e che fa il bene dell’educando in ogni caso; e quindi non è un rapporto forte.

Pinocchio, appena esce di casa, lo tradisce e cede l’abbecedario per un biglietto del teatrino dei burattini. Da quello che finora ha visto, il mondo grigio degli umani non lo attira quanto quello colorato e spontaneo dei burattini. Essi lo accolgono come un fratello, dandogli finalmente l’amore e l’attenzione e il rispetto mancati in casa di Geppetto.
Ma… il suo rito di passaggio? Sta per rinnovarsi; tuttavia, prima di affrontare le incognite della liminalità, egli deve darsi un’identità meno generica di quella di burattino: deve diventare un eroe. La disponibilità ad affrontare prove dure è già di per sé eroica. Ma a che cosa portano tali prove? Al loro superamento, è prevista la scoperta di una nuova realtà? Addirittura di una nuova società? Può l’infrazione delle regole portare altrove, in un mondo finora solo sognato? No, il ritorno previsto è nell’ambito della tradizione. Si tratta solo di una riconferma dei ruoli  sociali.

Anche Eracle si trova bene nella liminalità sul monte Citerone, in una dimensione pastorale che preferisce a quella palaziale. Egli è tipo da gente semplice, non da aristocratici. Non sarà venerato in tutto il Mediterraneo dai popolani e perfino dagli schiavi? Tra le esperienze, non manca l’iniziazione sessuale. Con grande soddisfazione, ingravida le cinquanta figlie di Tespio, sviluppando fin d’ora l’interesse per i piaceri materiali: mangiare, bere, fare l’amore. Insomma, i programmi dei due protagonisti si somigliano. Per Pinocchio, di stampo ottocentesco, essendo per di più burattino-bambino, il sesso è fuori discussione: nemmeno un accenno. L’unica bambina con cui ha a che fare, a scanso di pericolosi sviluppi, si trasforma in fretta in donna, al di fuori della sua portata. Quindi, un rapporto tra fratello e sorella, e poi tra figlio e madre, più che un palpito erotico per i seducenti capelli turchini.

L’occasione eroica per Pinocchio viene da Mangiafuoco. “Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro… La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.” Il primo dei mostri che incontra durante le sue peripezie: i conigli-becchini, il serpente orribile, il Pesce-cane, il pescatore, l’omino di burro… (dai colori scuri, contrapposti al bianco funereo delle case della fatina, come rimarca Manganelli nel suo libro parallelo). Parenti minori dei mostri di Eracle: leone di Nemea, idra di Lerna, cinghiale di Erimanto, uccelli di Stinfalo, cavalle di Diomede, donna serpente, Cerbero, cercopi, Acheloo… legati a una geografia reale, mentre quella di Pinocchio è una mappa infantile. D’altronde, qui si parla di un eroe bambino e di un eroe adulto.
Disposto a immolarsi per salvare Arlecchino, ora Pinocchio è un Agathos, un uomo valoroso. Anche Eracle si trasforma da ragazzo in eroe uccidendo il leone del monte Citerone, disposto anche lui a mettere a rischio la propria vita, ma per i begli occhi delle principesse tespiadi. Le amicizie di Pinocchio, a parte l’ambigua fatina (sua patrona come Atena con Eracle), sono solo maschili, come d’altronde quelle di Eracle, che ha sempre un amato accanto a sé (Iolao, Ila, Abdero…).

Gli universi eroici e picareschi dei due protagonisti sono di carattere cameratesco. Pinocchio frequenta compagni di scuola e compagni di avventura, ma non ha amici veri; ha a che fare con il burattinaio, i carabinieri, il giudice scimmione, il contadino, il pescatore… e l’unica femmina è la fata, prima bambina che muore e poi donna malata (ci sarebbe anche la lumaca… femmine fragili e lente, quelle di Collodi). Eracle bazzica poco con uomini comuni, pur essendo da loro amato (probabilmente non hanno avuto il permesso per entrare nella storia-mito), incontrando per lo più rappresentanti dell’aristocrazia e regnanti, oppure giganti e criminali. L’elemento femminile è variegato: la madre ininfluente, le principesse tespiadi usate solo come fattrici (in accordo con il padre, felice di ritrovarsi cinquanta nipotini figli di semidio), la dea Era che vorrebbe farlo a pezzi, la moglie Megara da lui ammazzata con i figli, l’amazzone Ippolita la cui fine è ignota (uccisa da lui? uccisa o sposata da Teseo?), le ninfe Esperidi derubate, la donna serpente (un amplesso inusuale), la bella Iole che armerà la mano di Deianira, la regina Onfale con la quale fa del burlesque, la sacerdotessa Auge cui fa violenza, la ninfa Ebe che diviene la sua sposa nell’aldilà con il beneplacito di Era, finalmente placata. Bella differenza con Pinocchio! Sarà che Pinocchio è un burattino-bambino o sarà anche che Collodi-Lorenzini è uomo del suo tempo che ha studiato dai preti. Rapporti molto passionali, quelli di Eracle con le donne: o le deruba o le ammazza o le violenta o ne diviene succube; Iole è solo uno spettro nel suo immaginario e le uniche forse che ha potuto amare (per una notte soltanto) sono le tespiadi; ma qui si parla dell’adolescente. Insomma: un bambino senza rapporti con il genere femminile e un adulto con troppi rapporti fuori dalla norma, dalla violenza all’omicidio. Nel mezzo qualcosa è andato storto, a livello educativo.

Espiata con la liminalità la loro inadeguatezza all’inserimento in società, i due eroi affrontano le relative imprese che dovranno condurli a un ritorno trionfale nell’abbraccio della tradizione. Le affrontano con Enthousiasmos, la forza divina che si manifesta in loro; quella di Zeus in Eracle, e quella di Dioniso in Pinocchio. Entrambi si affannano a correre dietro a seduzioni e mostruosità. Pinocchio su mandato dell’istinto e dell’impulso; Eracle di Euristeo che trasmette la volontà di Era. Entrambi inseriti in una logica di autodistruzione.

La carriera di Eracle comincia male. La follia instillatagli da Lyssa su ordine di Era gli fa uccidere moglie e figli. Per punizione, deve farsi schiavo di Euristeo e compiere dieci imprese (due sono invalidate e due vengono quindi aggiunte). Anche la carriera tumultuosa di Pinocchio non è da meno. Ma la sua non è follia, solo ingenuità e irresponsabilità; o forse meno: sete di esperienza e di esplorazione del mondo, costi quel che costi. E l’errore, l’Hamartia, è in agguato. Non è lui a uccidere, ma lui a essere ucciso. Per mano di due piccoli mostri, un gatto e una volpe. Ha avuto i doni dal burattinaio, cinque monete d’oro, e li ha usati male. Eracle ha avuto in dono le armi dagli dei, ma le usa solo nella guerra contro Orcomeno. Per tutto il resto, gli bastano la clava e l’arco. Si procura l’armatura scuoiando il leone nemeo. Il rifiuto delle armi è rifiuto di onori, e questo non è gradito in una società che sugli onori (soprattutto immeritati) si fonda. Pinocchio è molto disarmato, del tutto in balia del mondo. Impiccato (quante morti e quanta violenza in un libro per bambini!), viene salvato dalla fata, alla quale fa il resoconto delle sue disgrazie, una Rhesis che ripeterà in altri momenti, perché è piuttosto logorroico come tutti i bugiardi e i profittatori, e questo a differenza di Eracle che, a parte le esigenze letterarie, immaginiamo piuttosto scarno di parole.
Ma che fa, lo sconsiderato burattino? Torna dai due malandrini che lo derubano. E lui, la vittima, finisce in prigione! Collodi, per scelta o per caso, comincia l’opera di disgregazione della società presunta perfetta in cui intende inserire il burattino al termine del suo percorso irregolare, una società di giustizia assurda, di criminali a piede libero, di carabinieri sprovveduti, di infanticidi, di donne sole e abbandonate…
Intenzionato a tornare dalla fata, Pinocchio si scontra con il serpente, viene preso alla tagliola ed è costretto a fare il cane da guardia. Non lo voleva così, Geppetto? Alla fine riesce a ripresentarsi a casa della bambina dai capelli turchini, che è morta: “Qui giace/la bambina dai capelli turchini/morta di dolore/per essere stata abbandonata dal suo/fratellino Pinocchio.”
Ecco che anche Pinocchio è responsabile della morte di un familiare! Un piccolo Eracle che ha accenti di dolore equivalenti, un Threnos strappalacrime.

PINOCCHIO: “Perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona? (…) Che vuoi che io faccia qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove andrò a dormire di notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! Sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io!”
ERACLE (da Euripide): “Ma perché devo conservare la vita, io assassino dei miei amatissimi figli? (…) In quale luogo sacro, a quale riunione di amici sarei ammesso? La maledizione impedisce a chiunque di avvicinarmi. Sarei oggetto di sguardi sprezzanti e di acri frecciate: - Ma questo non è il fglio di Zeus che ha assassinato moglie e figli? Ma che vada a crepare lontano da qui!”
Se una differenza c’è, è che Eracle è consapevole di avere perso la Timè, l’onore; mentre Pinocchio si preoccupa solo della propria sopravvivenza.
Entrambi pensano al suicidio, ma Eracle cambia propositi con l’arrivo di Teseo e Pinocchio di un colombo-messaggero che gli porta notizie di Geppetto. E si tira avanti. Eracle esplora il mondo in su e in giù, testimone degli imminenti cambiamenti climatici, sociali e politici, architetto delle colonne o a Gibilterra o tra la Sicilia e la Tunisia, a seconda delle versioni (dipende tutto da dove si posiziona Atlantide). Per lui si chiude il ciclo delle dieci imprese più due di recupero e si aprono ulteriori peripezie (Parerga) derivanti dalle vendette, dalle espiazioni o dall’arruolamento nelle schiere divine contro i Giganti che attentano all’ordine costituito. E anche qui, che ironia tragica, lui difensore dei propri persecutori!

Pinocchio, dopo un siparietto con i compagni di scuola (che non lo amano, come gli Argonauti non hanno amato Eracle – anche qui risalta con evidenza la solitudine dei due eroi; l’uno e l’altro sembrano sempre un Meteco, uno straniero, ovunque si trovino) e dopo ulteriori promesse alla fata, tutte tradite, si lascia tentare da Lucignolo e se ne va nel Paese dei Balocchi. Come resistere? E più ci sono divieti e richiami al buonsenso, più l’avventura è saporita e irrinunciabile. Non fa lo stesso Eracle con Iole? Quale folle immaginazione gli fa sognare una convivenza a tre, lui quasi cinquantenne, con una ragazza così giovane? E con una moglie affettuosa e paziente che, come la fata dai capelli turchini, muore di dolore (in un modo più sanguinario, da tragedia)?

Con le vendette, con la guerra contro il re Eurito di Ecalia per catturare una Iole terrorizzata e catatonica, Eracle decreta la propria decadenza. Ben poco è rimasto dell’adolescente del monte Citerone e del civilizzatore del Mediterraneo. Lui che ha insegnato la bonifica, il controllo dei fiumi, il rispetto delle minoranze, la difesa della giustizia contro i tiranni e gli oppressori, il divieto dei sacrifici umani… ora è vittima dei mostri uccisi, di un oracolo disatteso: sarebbe morto a causa di un non vivente. Ucciso da Deianira? Ucciso da Nesso? Ucciso da se stesso perché la propria opera si è esaurita e per lui non c’è più posto nel tempo della guerra di Troia e della scomparsa delle vecchie civiltà. Anche sul rogo mortale, ci dice Sofocle, la sua grandezza è appannata. Impreca, maledice, minaccia… impone al figlio di sposare Iole, e conclude la propria vita con un ultimo omicidio, quello dell’araldo Lica, del tutto innocente. Sofocle, nelle “Trachinie”, fa fare a Eracle una fine misera, come voleva la politica del tempo, che all’eroe tebano intendeva sostituire quello ateniese, Teseo, efficace emblema di grecità (democrazia e sapienza) nel mondo. Eracle scaricato, una volta ripulito l’universo dai mostri di natura e di potere.
E non rischia di fare anche Pinocchio una fine altrettanto misera?

Trasformato in asino, si ritrova schiavizzato in un altro teatro dei burattini, nella fattispecie un circo. Ci lascia letteralmente la pelle, dato che chi lo compra intende affogarlo per poi scuoiarlo e fare tamburi. Pinocchio asino-burattino-pagliaccio, Eracle asino (e pagliaccio anche lui nei drammi satireschi e nelle commedie di stampo aristofanesco) che Zeus usa e poi abbandona a una fine poco eroica, propagandando un’apoteosi tutta da verificare, dato che la stessa esistenza di Zeus è un’incognita, come ci dice Euripide: “Zeus, chiunque egli sia…”.
Che siano tutti e due vittime di Adikia? Di ingiustizia?
Ma la fine di Pinocchio è rimandata. I pesci gli mangiano la pelle d’asino (oh, se avessero mangiato anche quella di leone sull’anima di Eracle!) e lui (che già una volta è morto e ci ha fatto l’abitudine) si sente di nuovo eroe impavido. Porta a compimento il processo di ribaltamento del rapporto padre-figlio cui aveva dato inizio Geppetto con i propri errori educativi e con un’iniziativa ardita salva il padre dallo stomaco del Pesce-cane, con tanto di frase da collezione: “Se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.” C’è, nelle ultime venti pagine, più amore che in tutto il resto del libro. Amore forse melenso, programmatico, da feuilleton, dettato più da sensi di colpa che da affetto spontaneo. E c’è Metis, l’intelligenza e l’astuzia che troppo spesso gli sono mancate; e di cui anche Eracle ha sempre dato prova, sapendo di non dover contare solo sulla forza fisica (quando sconfigge Anteo, Gerione…). 
Questo sprofondare nelle viscere del mostro è una discesa agli Inferi, dove al posto di Cerbero c’è un Tonno mite e filosofo, coerente con la fiaba. Per Eracle è stata solo una delle tante imprese, per Pinocchio è l’apertura di uno scenario nuovo e inatteso. Nei restanti ultimi episodi, egli mostra un cambiamento radicale, a conclusione di un itinerario etico che rivela le forzature d’autore. La fata, che già era morta, ora è solo malata, e ci pensa Pinocchio a farla curare. Come provvede alle necessità di Geppetto. Non ricorrendo al gioco e alla fortuna o al furto, ma al lavoro duro. Si ricompone così una famigliola anomala. La mamma-fata compare solo in sogno, lei che ha rappresentato finora l’Oikos, la casa a cui Pinocchio torna più volte (in quella in cui è nato fa ritorno solo alla fine). Il padre Geppetto è rinvigorito e sempre sentenzioso, orgoglioso del proprio ragazzo che ora vanta l’Aretè, la virtù.
Il figlio, ex burattino, ci si presenta come “un ragazzino perbene”, mentre il burattino è appoggiato sghembo a una sedia, e appare solo buffo. Finirà in solaio? O in una stufa, tra le fiamme come Eracle?

Il vento di Tiche cambia direzione a favore di Pinocchio. La fata gli fa avere una bella sommetta, la casa ce l’ha, un padre amorevole e onesto anche… ora non gli resta che lavorare e accumulare per i tempi di magra, e nel frattempo andare a scuola per migliorare le condizioni lavorative, e infine continuare a lavorare fino alla vecchiaia e più. E il suo programma di “mangiare, bere, dormire…”? A Pinocchio, quando dice una bugia, si allunga il naso e diventa tanto lungo che non gli è più possibile muoversi. Come dire: senza la verità, non vai da nessuna parte. Eppure, Sofocle scrive: “Non è bello dire menzogne; ma quando la verità potrebbe portare terribile rovina, allora anche dire ciò che non è bello è perdonabile.” Insomma, anche la verità è relativa.

Pinocchio ed Eracle sono accomunati dall’esplorazione di un mondo che non è certo paradisiaco. Che il paradiso esista in cielo è opinabile, che non esista in terra è certezza. Un mondo di mostri, di imbroglioni, di cinici briganti senza cuore, di ricchi profittatori, di vittime innocenti, di sopraffazioni. Un mondo dove la giustizia è amministrata al contrario da un giudice scimmione, dove pescatori mutanti friggono i bambini, dove i re uccidono gli stranieri, dove le delizie sono riservate agli dei, dove le mamme muoiono senza aver mai dato una carezza, dove… Pinocchio ed Eracle hanno fatto di tutto, con la forza e il coraggio, l’infrazione e la fantasia, l’entusiasmo e la curiosità, la ricerca del piacere e la noncuranza delle leggi… per incrinare le certezze di un mondo comunque infelice e ingiusto. L’uno si è trasformato, da burattino, in manichino; l’altro è finito bruciato vivo sul rogo, come un eretico.
E il lieto fine? Si è nascosto da qualche parte.

In conclusione, che cosa accomuna i due eroi?
1)                 Anzitutto, l’irrequietezza e la disponibilità all’avventura. Non dicono mai di no per prudenza o paura, si tuffano a capofitto nelle situazioni più ambigue, ignote e pericolose, come d’altronde fanno i bambini nei primi anni di vita. L’errore, però, non è valorizzato da una logica di apprendimento per tentativi; ma viene punito in modo anche pesante e crudele. È proprio da questa dinamica di sbaglio-punizione-espiazione che procede la vita-avventura. I momenti di passaggio sono rappresentati da pentimenti e purificazioni (la fata per Pinocchio, i santuari e gli oracoli per Eracle).
2)                 Eracle agisce per reazione a impulsi interiori inoculati da suggestioni e comandi esterni (prima Zeus, poi Era); e solo quando si tratta del desiderio erotico o di quello di raddrizzare i torti subiti ha sprazzi di libertà decisionali che, avendo ormai una visione distorta delle cose, usa male, provocando altri disastri.
Pinocchio, per una simmetria al contrario, disobbedisce in continuazione alle proprie “divinità” (Geppetto e fata) ed entra in azione senza un piano prestabilito, cogliendo al volo quello che gli si presenta per strada. Entrambi, quindi, sono burattini in cerca di una libertà personale, non importa quali siano le conseguenze.
3)                 Le peregrinazioni li rendono simili a cartine al tornasole per la misurazione di una società che si proclama civile; e che risulta invece impregnata di contraddizioni. Il livello di violenza delle loro avventure è alto. Devono sempre guardarsi le spalle e diffidare. Nel caso di Pinocchio, il piano di Geppetto prevede di inserirlo in una società che però, appena oltre la porta di casa, è un mostro in agguato. Trasformare il burattino in bambino significa solo rivestirlo con il vestito buono che lo rende muto e cieco di fronte agli orrori che ci sono fuori. La morale è ipocrita: il male è sempre estraneo (meteco) ed è meglio fingere di non vederlo. Zeus ha voluto un eroe purificatore del mondo, ma dopo di lui che cosa piomba sull’umanità? La guerra di Troia, la fine dei micenei, degli hittiti e degli egizi, le invasioni dei popoli del mare, quattro secoli di medioevo ellenico e altre carabattole fonti di terrore e sofferenze. Per fortuna, al termine del trambusto arrivano i tragediografi. Una delle prime cose che insegnano è: guarda in faccia il mondo, prendilo per quello che è, non barare.
4)                 In fin di carriera, che cosa hanno guadagnato i due eroi? Pinocchio possiede qualcosa solo grazie alla provvidenziale fata (ma quanti altri hanno una fata che lascia un’eredità?) e deve comunque mettersi a studiare e lavorare, accudire Geppetto e probabilmente fare i mestieri di casa: basta tempo libero. Eracle si ritrova centinaia di templi intitolati a se stesso, ma a solo beneficio dei sacerdoti; è ispirazione non retribuita per poeti e tragediografi, e poi anche per i commediografi che lo mettono alla berlina; non è diventato re, non ha accumulato ricchezze. Torna dalla moglie sacrificata in casa illudendosi di trascorrere gli anni della (quasi) vecchiaia con una graziosa concubina; e invece gli tocca morire male. Che se ne fa di Ebe e dell’Olimpo lui che ha sempre disdegnato i salotti aristocratici?
5)                 Infine, li accomuna la fama. L’immagine di Eracle è un poco appannata, sempre a causa, forse, dei forsennati religiosi che ora lo riscrivono e lo censurano ora lo esaltano per deliranti virtù cristiane. Ma città, fonti, templi, monumenti, pitture, mosaici, opere letterarie… testimoniano la sua straordinarietà. Il libro di Pinocchio è il più venduto e tradotto (in più di 240 paesi) nella storia della letteratura italiana; e centinaia sono i testi ispirati al personaggio, e i film e i cartoni animati e…
E a loro, però, tutto questo non interessa. Pinocchio ora è un impiegato di medio livello, sposato con figli, pochi grilli in testa. Eracle è un dio minore annoiato e tormentato da una moglie cameriera peggio che Socrate. Ecco, Socrate. L’antico motto, di origini forse micenee nel primo santuario di Delfi, “conosci te stesso”, avrebbero dovuto suggerirlo ai due eroi. Ma nessuno l’ha fatto. E loro si sono accontentati di soccombere alla volontà altrui.

Pubblicato su www.academia.edu





lunedì 27 luglio 2015

IPAZIA, riflessioni di John Toland

Annamaria Rossano mi ha chiesto un monologo su IPAZIA. Ora sto scrivendo delle cose su Pinocchio e IL ROMANZO DI ERACLE, oltre a procedere con lo studio dell'epoca micenea (compresa Atlantide). Come primo assaggio, l'epilogo del libro del filosofo irlandese JOHN TOLAND: "Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero", editore Clinamen 2010.


"E adesso che il nome di Cirillo me lo fa tornare in mente, non è una beffa insopportabile nei confronti di Dio e degli uomini riverire una persona così ambiziosa, così turbolenta, così perfida e così crudele facendolo Santo? – perché la storia mostra che proprio questo fu il suo carattere. Ma in tutta onestà questo stesso titolo di santo non di rado è stato conferito in modo infelice: perché la maggior parte dei santi dopo Costantino, e soprattutto quando la canonizzazione divenne di moda, corrispondono a tre tipologie di persone, e fra questi solo una minima parte merita davvero venerazione. In primo luogo, sono stati fatti santi quegli uomini che hanno promosso la grandeur della Chie­sa con tutti i propri sforzi, specialmente con i propri scritti; i quali scritti, invece di impiegarli per istruire i propri concittadini, li hanno prostituiti per magnificare l’autorità spirituale con l’esito del degrado e dell’abbrutimento dei loro spiriti. La seconda tipologia degli uomini che sono stati onorati con la santificazione è costituita da prìncipi o da altri uomini ricchi e potenti, e tuttavia viziosi e tirannici, che donarono ampi possedimenti e che lasciarono il potere temporale nelle mani della Chiesa; o che, per incapacità, per sottomissione, con la spada e con la proscrizione, castigarono la temerarietà di tali azioni come fossero troppo scomode per metterne in questione i decreti. La terza tipologia è costituita da visionari estremamente viscidi, che si vantano dei propri entusiasmi deliranti e delle proprie estasi; oppure essi si impongono sull’ignorante attraverso mortificazioni formali, falsamente reputate atti di devozione, e vengono ricompensati con questo premio immaginario, da coloro che disprezzano la loro austerità, ma in tal modo fanno anche molta fortuna. Non c’è da meravigliarsi, allora, che l’epiteto di santo, dal significato così vicino a quello di pietà ed innocenza, fu così palesemente avvicinato al vizio e all’empietà, in cui prevale inoltre un diluvio di ignoranza, superstizione e tirannia, che hanno sommerso quasi per intero il mondo cristiano. Tutte le persecuzioni che misero in atto erano mezzi molto potenti che utilizzavano per reprimere ogni sforzo fosse fatto per rinnovare la virtù e la cultura. Da quello spirito anticristiano deriva Ipazia, alla quale il clero non poté perdonare che fosse bella, eppure casta; molto più colta di loro, tanto da non essere sopportata dal popolo; ed ebbe presso il magistrato civile stima maggiore di quanta ne godessero quelli, e il clero dell’epoca aveva bisogno di guidare, o condurre, il magistrato, come la propria bestia da soma."

venerdì 24 luglio 2015

LA RISATA SARDONICA

Dal "Viaggio in Grecia" di Pausania, libro X:

"... quell'unica letale è simile al sedano e chi ne mangia, dicono, muore ridendo. E' per questo che Omero (Od. 20, 301 sgg.) e quelli che vennero dopo di lui chiamano sardanio (= sardonio) il riso che non indica niente di salutare."
Siamo in Sardegna e l'erba è la Oenanthe-crocata, nota come "prezzemolo del Diavolo". E' il finocchio d'acqua o prezzemolino.

Da "La religione del popolo nuragico" di Sabrina Melis:

"Gli antichi scrittori greci e latini si mostrano molto interessati al sacrificio rituale dei vecchi, fornendo cosi preziose informazioni. SIMONIDE, TIMEO, DEMONE E CLITARCO (in Suda) raccontano che gli abitanti della Sardegna sacrificavano a Cronos i genitori che avevano superato la settantina e che questi, mentre morivano, ridevano. Da questo rito sarebbe nata l’espressione 'ridere sardonicamente' che compare per la prima volta in OMERO, Odissea, XX, v. 301.
Alcuni autori inoltre, come VIRGILIO, Egloga VII e SOLINO, IV, 4, 4, in relazione all’espressione 'ridere sardonicamente', menzionano l’herba sardonia, un’erba di cui gli antichi esagerarono l’asprezza e alla quale attribuirono un potere venefico: chi la mangiava, moriva con le sembianze di chi ride.
Il glottologo G. Paulis (1993) identifica proprio l’herba sardonia: si tratta della Oenanthe crocata che riduceva le sofferenze dei vecchi e ne accelerava la morte; inoltre le sostanze tossiche in essa contenute provocavano la chiusura delle labbra, mettendo in evidenza i denti, simulando la maschera facciale di chi ride. Quindi al riso dei figli e dei genitori durante lo svolgimento del rito (in relazione alla concezione religiosa in cui la morte fatta subire coscientemente al vecchio genitore accelera la riproduzione della vita e il riso è una esaltazione della vita) seguiva quello che si formava sul cadavere dei vecchi: l’ultimo trionfo sulla morte.
Ancora oggi si conserva qualche traccia del rito: a Gairo, in Ogliastra, si usa la frase " i vecchi alla babaieca " (is beccius a sa babaieca), dove babaieca sta per "roccia a picco", appena ad un Km da Gairo. Ad Orotelli esiste ancora la tradizione di vecchi fatti precipitare da un dirupo, chiamato Iskerbicadorzu o Impercadorzu de Sos Betzos, Scervellatoio o Dirupo dei vecchi. Ad Urzulei, un picco di montagna che domina uno strapiombo di almeno 300 m., è chiamato Su Pigiu de su Becciu, cioè Il Picco del Vecchio. Ancora a Baunei, luogo di grande conservatività linguistica ed etnografica, vi è traccia dell’antica usanza di uccidere i vecchi nell’allocuzione "leare su’ ecciu a tumba o a ispéntuma", cioè "portare il vecchio alla tomba o alla grotta ovvero al dirupo".

L'uccisione degli anziani era una pratica abbastanza diffusa non solo in Sardegna, ma in Africa, in Asia e in America. 


martedì 21 luglio 2015

La drammaturgia di "Auge del sangue"

La drammaturgia di “Auge del sangue”

Le fonti principali sono Igino, Apollodoro, Diodoro Siculo, Pausania e Ditti Cretese. Ascoltiamo la storia di Auge da Diodoro Siculo, Biblioteca III,9:
“Auge fu sedotta da Eracle, e nascose il bambino nel recinto sacro di Atena, di cui era sacerdotessa. Ma la terra rimase sterile, e l’oracolo rivelò che questo era dovuto a una qualche empietà nel recinto sacro di Atena; Auge fu scoperta dal padre Aleo e consegnata a Nauplio perché la uccidesse; ma Nauplio la diede a Teutrante, re di Misia, che la sposò. Il bambino fu esposto sul monte Partenio, ma una cerva lo allattò, e per questo venne chiamato Telefo. Fu allevato dai pastori di Corito, e poi andò a Delfi, per avere notizie dei suoi veri genitori: il dio gli rivelò la verità, e allora Telefo andò in Misia e divenne figlio adottivo di Teutrante. Quando questi morì, gli succedette al trono.”

Igino,  nel mito 101, ci presenta Telefo.
“Si dice che Telefo, figlio di Eracle e Auge, fu colpito in battaglia da Achille con la lancia di Chirone. Egli di giorno in giorno era sempre più tormentato dal terribile dolore di questa ferita; chiese quindi un oracolo ad Apollo sul rimedio: e il responso fu che nessuno avrebbe potuto medicarlo se non la lancia che l’aveva ferito. Quando Telefo udì questo, si recò presso il re Agamennone e per consiglio di Clitennestra rapì dalla culla il piccolo Oreste minacciando di ucciderlo se gli Achei non lo avessero curato. Gli Achei allora, poiché sapevano da un oracolo che non avrebbero potuto prendere Troia senza la guida di Telefo, non esitarono a riconciliarsi con lui (…) Fu preparato un rimedio raschiando la ruggine dalla lancia. Gli Achei poi lo invitarono a unirsi a loro nella conquista di Troia, ma egli declinò perché aveva sposato Laodice, figlia di Priamo; tuttavia, in cambio del beneficio della guarigione, egli indicò loro i luoghi e i sentieri della Troade.”

Abbiamo quindi due filoni: quello di Auge e dei rapporti familiari; e quello di Telefo e dei rapporti politici.
Di Auge veniamo anche a sapere che è sacerdotessa per volontà del padre Aleo. Alla sua nascita, un oracolo gli rivela che sarà ucciso dai nipoti. Da bravo papà, seppellisce la figlia nel tempio, ne fa praticamente una suora di clausura, in modo che rimanga vergine per sempre. Ma non ha fatto i conti con l’eroe semidio… Abbiamo quindi una sequela di cinque rivelazioni divine: l’oracolo alla nascita di Auge, quello che ne svela lo stupro, un altro che guida Telefo fino in Misia, quello che gli indica come guarire e infine l’ultimo sulle modalità della conquista di Troia. L’esistenza umana, insomma, non è guidata dal libero arbitrio, ma dalla volontà divina, cioè dei sacerdoti che interpretano i segni. Essi condannano una ragazzina a una vita solitaria, e poi all’esilio; spingono un giovane a tradire la propria gente in base alle esigenze della politica internazionale.
Ma procediamo con calma, dato che la materia è intricata.

Auge viene rinchiusa in convento, ma una notte Eracle, ubriaco, la violenta e la mette incinta. Di storie su Eracle che mangia e beve come un porco e stupra ce ne sono tante. Alcune nascono dalla volontà di Era, la moglie di Zeus che odia tutti i suoi bastardi e vuole distruggere i figli adulterini, magari mandando Lyssa, la dea della rabbia, a infondere in loro la follia. Altre storie nascono dalla rivalsa degli Ateniesi che a partire dal VI secolo brigano per imporre Santo Teseo, protettore degli Ioni, vincitore della civiltà minoica in quanto uccisore del Minotauro, padre della patria e della democrazia, su Eracle, protettore dei Dori, distruttore dei mostri, diffusore della civiltà. Di colpo (come testimoniano le pitture vascolari), Eracle perde alcune delle sue più nobili caratteristiche (musico, filosofo, protettore degli umili) e ne acquisisce altre deprecabili: mangione, ubriacone, violento; per minarne ancora di più l’immagine, ne fanno un personaggio da commedia, una caricatura vile che tuttavia non riesce a sminuirne la grandezza. Altre storie truci nascono dal suo status di eroe. Angelo Brelich in “Gli eroi greci” ce ne presenta le caratteristiche, tra le quali: iperfagia e ubriachezza, rapimento di donne, violenza carnale, omicidi pianificati o per rabbia o involontari, avventuriero, guerrafondaio, pirata, sacrilego, folle… Per fortuna ci sono le qualità positive che controbilanciano. Il difetto principale è la hybris, il disconoscimento dei limiti posti dagli dei, l’eccesso smodato, la rottura dell’equilibrio fonte di disgrazie gravi (stuprare una sacerdotessa nel suo tempio è un esempio di hybris).
Sia come sia, Auge è incinta. Il padre probabilmente si rammarica di non averla ammazzata appena nata, quando l’oracolo (ah, questi oracoli!) l’ha messo in guardia. Ma può farlo ora, tuttavia non di persona: è un re, non si sporca le mani con il sangue della figlia. Incarica il solito amico compiacente e tanto prudente, però, da non macchiarsi di omicidio: vende Auge come schiava. E qui si passa dal mito alla fiaba: la schiava sposa un re. In tutte le storie i cambiamenti di status sono frequenti; come anche i riconoscimenti. Madre e figlio s’incontrano e sul futuro di Auge non si sa più niente.

Di Auge che cosa possiamo quindi sottolineare?
- lo svelamento della propria storia: non è sacerdotessa per vocazione, ma per volontà di un oracolo
- la mano pesante del padre sulla sua vita: la chiude nel tempio, la condanna a morte insieme al nipote
- la sterzata esistenziale: dopo una giovinezza da reclusa sacra, diventa condannata a morte, schiava, sposa di un re dall’altra parte del mare
- la perdita del figlio che considera morto.

E veniamo a Telefo. Diventato adulto, va alla ricerca del padre. Teseo era venuto da Samo, di fronte all’Anatolia, fino ad Atene per conoscere il padre Egeo. Telefo da Tegea nel Peloponneso va in Misia, dove viene adottato da Teutrante. Facile riscontrarvi l’intenso commercio marittimo tra Grecia e Medio Oriente, che non deve certo aspettare la colonizzazione ateniese, essendo già florido ai tempi di Eracle, con la civiltà micenea. Questo Telefo, trovatello che fa fortuna (dal mito a Dickens), combatte giustamente contro gli Achei che invadono la Misia, ma rimane ferito a una gamba. L’arma è una lancia speciale, donata da Chirone ad Achille. I centauri sono bestioni selvaggi e violenti, ma Chirone si distingue per una profonda cultura in medicina e soprattutto in erboristeria. Chissà con quale intruglio ha intriso la punta e il legno della lancia! Ci ricorda un poco Nesso, il cui sangue avvelenato impregna il chitone donato dall’ingenua Deianira a Eracle, che ne muore. Fatto sta che la ferita non guarisce e Telefo, come fanno gli uomini di buonsenso di fronte a qualunque difficoltà, si rivolge all’oracolo. È disperato, farebbe qualunque cosa per guarire e infatti prende in ostaggio il piccolo Oreste minacciando di ucciderlo se Achille non lo guarisce. Clitennestra implora il marito Agamennone di cedere al ricatto, non sapendo ancora che dal figlio Oreste sarà uccisa dopo che lei gli avrà ammazzato il padre. Agamennone forse esita (lui cedere a un vile ricatto!), ma Calcante lo informa (oracolo!) che senza la guida di Telefo gli Achei non potranno giungere a Troia. Questo cambia tutto. Gli Achei devono sbarcare davanti a Troia e distruggerla. I commerci non si limitano più alle isole dell’Egeo. Più in là ci sono gli Hittiti, gli Assiri, gli Elamiti, i Cassiti… e gli Egizi. Oriente e Occidente si fronteggiano, si scontrano. La battaglia di Kadesh del 1275, poco meno di un secolo prima della guerra di Troia, ci mostra che a nessuno dei due mondi spetta la vittoria e che ognuno dei due comunque la rivendica. Gli Achei distruggono Troia, ma per loro si apre la stagione dei sofferti nostos, i ritorni che portano altrove e che non fanno più ritrovare quello che si era lasciato. La civiltà micenea, insieme a molte altre, si esaurisce. Un periodo di invasioni (i popoli del mare) ed esodi (Mosé e il popolo ebreo), terremoti e maremoti (il mito di Atlantide), eruzioni vulcaniche (a cominciare da quella di Thera-Santorini che coinvolge Creta), carestie, siccità… porta l’uomo dall’età del bronzo a quella del ferro. Dall’aristocrazia guerriera alla democrazia imperialistica. E dopo secoli di medioevo nascono la letteratura, la filosofia, la scienza.

Ecco dove ci porta la storia di Auge. A uno dei grandi cambiamenti epocali.
Ecco che cosa ha la presunzione di fare: cambiare la storia. Non si riconosce nel figlio che ha sangue divino nelle vene (come figlio di un eroe semidio che sarà assunto in cielo per fare parte degli eterni) e che dovrebbe quindi pensare al bene dell’umanità, prima che al proprio. Telefo, prima scimmiotta i guerrieri achei affrontando Achille, poi pensa solo a come guarire. Rapisce un bambino (lo immaginiamo tra gli otto e i dieci anni) per ottenere un poco della ruggine della lancia di Achille come farmaco per la ferita. Poi afferma: mi piacerebbe, ma non posso combattere contro i miei parenti troiani! tuttavia posso condurvi là. Bell’ipocrita!
Nella messinscena, Auge decide di abortire. Non da sola. Vuole coinvolgere il padre Eracle, la cui follia può finalmente dare un buon frutto. E chiede l’aiuto di tre eroi, Ettore, Achille e Odisseo. Non sono più nemici. Sono affratellati dalla presa di coscienza che la guerra non è una cosa buona. Che la retorica dell’eroismo non porta a niente. Che le distruzioni e i massacri non fanno bene all’umanità.
Impedendo a Telefo di nascere, Auge si dichiara ostile a tutto quanto il mondo conosciuto e accettato dalla maggioranza, con i suoi miti e i suoi oracoli, con le sue religioni e la sua politica. Un’utopia, la sua. L’utopia di credere che le persone possano decidere con la propria anima, e non con quella asservita ai padroni della società.
Un’utopia che nasce dall’immaginazione e che assicura, fin che viene riaffermata, la libertà di pensiero.


Personaggi di “Auge del sangue”: Auge, Atena, Aleo, Calcante, Telefo, Achille, Ettore, Odisseo, Coro, Danza. Musiche di Lorenzo Crippa. Regia di Aquilino e Benedetta Bonacina. 

SINOSSI: Auge è minacciata di morte da Eracle che tenta di sfondare la porta del tempio. Dai dialoghi con il padre, la dea Atena e l’indovino Calcante scopre di essere sempre stata vittima degli uomini. Viene anche a sapere che il figlio Telefo, una volta cresciuto, guiderà i greci a Troia. Evoca gli spettri di Achille, Ettore, Odisseo e fa loro aprire la porta che la separa da Eracle. Il suo sacrificio impedisce che scoppi la guerra. È quindi la storia di una donna che non solo patisce violenza dagli uomini, ma si sacrifica per il bene comune.