giovedì 24 luglio 2014

ACHILLE SULL'ISOLA DEI SERPENTI

Aquilino
Achille sull’isola dei serpenti



Nell’ “Etiopide” (poema greco del VII sec. A.C.  di cui rimangono solo frammenti e riassunti) Achille è posto ancora vivo sull’Isola dei Serpenti, alle foci del Danubio. L’isola esiste e ha mantenuto il nome; si trova nel Mar Nero a circa 45 chilometri dalle coste della Romania e dell’Ucraina; è poco più di uno scoglio e ospita un solo abitante, il guardiano del faro; è comunque ricca di petrolio e gas naturale. Esiodo pone invece gli eroi sulle Isole fortunate o isole dei Beati, corrispondenti alle attuali Canarie. Secondo Apollonio Rodio Achille finì invece sull’isola di Leuce, dove fece coppia con Medea.
L’isola dei serpenti che intitola l’opera corrisponde a un luogo mitico comune a più mitologie, nel quale gli dei pongono gli eroi premiati con l’immortalità (es. il Valhalla).

MEMO            Al crepuscolo la malinconia stringe Achille alla gola e lo zittisce. Io che sono al suo servizio lo ignoro, non gli rivolgo domande indiscrete. Ma poi è lui che fa domande a me, per indagare la propria inquietudine. I guerrieri che alloggiano sull’isola per il tempo infinito della morte non si danno ragione di un eroe che piange su se stesso e non si esalta per le imprese compiute in battaglia: e lo ignorano.
                        Noi siamo qui, al crepuscolo, di fronte al dorso increspato del mare, un drago nero che sputa schiuma e fa sconquasso di voci diverse, sibili e schianti. Dietro di noi gli schiamazzi del vino e il clangore delle armi nei tornei. Al fuoco delle torce i combattenti, alla cenere della luna noi.
                        Achille è fisso a una visione cupa fra terra e cielo dove l’orizzonte accoglie i desideri più impossibili. Un muro di nebbia strangola l’isola, oltre il quale le navi da crociera passano con le tolde illuminate. A volte ho l’impressione di ascoltare il chiasso dei turisti che folleggiano.

La localizzazione è stata il punto di partenza, ma il nome non è stato occasione di suggestioni letterarie come invece mi aspettavo. Nel testo non si parla mai di serpenti, nemmeno a livello metaforico. Immaginavo Achille con una specie di scudiero (trattamento da privilegiato), scontento della sistemazione, indifferente ai richiami degli eroi, con in testa solo Patroclo relegato nel Tartaro, tale e quale a un adolescente innamorato.
Sembrava una storia di diversità e di amore impossibile; e soprattutto all’inizio il protagonista era lui, Achille. Poi le cose si sono complicate. Come al solito, mi sono lasciato condurre dai personaggi. Essi hanno il compito non solo di generare se stessi, ma di manifestare le proprie necessità inerenti all’ambiente e ai compagni d’avventura. L’isola si è subito spaccata in due: da una parte la riva ghiaiosa sulla quale si strugge Achille (eroe romantico), dall’altra il villaggio vacanze nel quale se la spassano gli eroi (epica omerica). Achille è un poco Don Chisciotte, un poco Orfeo, un poco Amleto, e un poco anche Dorian Gray, ma la sua sfaccettatura non ha mai profondità. Uccide perché deve, ama perché lo spinge la natura, ma le sue scelte… le sue scelte sono egocentriche, impulsive e superficiali come quelle di un bambino.
Piano piano, emerge invece la ricchezza interiore di Memo, il suo servitore. Una ricchezza che non gli dà alcun vantaggio e che anzi va a suo discapito. L’onestà e la coerenza lo renderanno vittima degli eroi.
La scrittura parte a velocità ridotta e poi addirittura rallenta. Si presenta il solito rischio di risolvere l’opera come se fosse un romanzo o un film, spingendo la mente a rielaborare trame avvincenti e colpi di scena. Giunge presto il momento dell’angoscia: come andare avanti? Se non si vuole risolvere la vicenda come una narrazione (per quanto emozionante possa essere), ma come l’ambito di vita dei personaggi, assecondandone la natura misteriosa, allora bisogna lasciar fare a loro. Li si invita a farsi sogno e li si libera di ogni costrizione, aprendo davanti a loro i mille sentieri dei possibili sviluppi e lasciando che si avviino, trainandosi l’un l’altro.
Documentandomi sulla biografia di Achille (ricchissima come d’altronde quelle di Perseo, di Teseo, di Elena…) due episodi mi avevano colpito: i nove anni in abiti femminili e la necrofilia su Pentesilea. Pentesilea! Era come se Achille la chiamasse a sé, come se ne avesse bisogno per giungere alla fine dell’opera.

PENT.             Bella io? Sono belle le mie cicatrici? I muscoli guizzanti? L’espressione di pietra? Le mie mani, sono belle, capaci di strangolarti senza sforzo? E la mia voce di tuono è bella? Quando mi specchio vedo una belva a due zampe, non una bella femmina. Ma questa è la mia natura e l’accetto. Sono bella quanto lo è la morte.
AIACE            A lui le donne piacciono proprio così, morte.
PENT.             A te ancora vive, ma durano poco.
AIACE            Achille…
PENT.             Non ha mai saputo che cosa gli piace.
AIACE            Sembri conoscerlo meglio di quanto lo conosciamo noi.
PENT.             Siamo entrambi stranieri in patria.
AIACE            Vieni, appartiamoci. Ti spiego i dettagli della missione.
PENT. Sono in missione? Per voi e per l’Olimpo? Ma agli uni e agli altri ficcherei una spada nel cuore.

E non potevo fare a meno della madre, Teti, che avrebbe contribuito a fare luce sulla personalità del figlio e avrebbe avuto la funzione di spingere i personaggi in una direzione. Ho invece scartato Afrodite e altri dei. Degli eroi me ne sarebbe bastato uno, quello che tanto aveva desiderato l’armatura di Achille (e tanto aveva desiderato sostituirlo): Aiace.

MEMO            Ehi, tu! Non sei una delle bambole che Efesto fabbrica per gli eroi. Non sai che infrangi la legge di Zeus? A nessuna femmina è consentito l’approdo. Come hai potuto superare la nebbia?
TETI               Poseidone mi protegge.
MEMO            Tu non sei umana.
TETI               Sono Teti, la madre di Achille.
MEMO            Perdonami, divina.
TETI               Sei Memo, il suo compagno?
MEMO            Il suo servo.
TETI               Dov’è Achille?
MEMO            Perdonami due volte, ma non vuole che riveli l’eremo del suo isolamento.
TETI               Pensa ancora a lui?
MEMO            A te posso dirlo. Giorno e notte. S’illude di scorgere imbarcazioni, aerei, perfino elicotteri da guerra in missione di pace, venuti a portare il premio all’eroe. Recita cento e più volte la scena di quando disarmato accorse a onorare il cadavere dell’amico, mettendo in fuga i nemici con la sola presenza, disperato e terribile, vendicativo e votato alla morte. Lo sento fare le voci di Patroclo, Ettore, Sarpedonte, Menelao… e perfino della madre scesa a consolarlo.
TETI               Tanto lo ama.

Mentre portavo avanti la questione dello sviluppo di una storia, mi ponevo la questione della forma. Ho ripreso la modalità di “Andromaca deve morire” di trattare una vicenda mitica come se fosse cronaca contemporanea, ma ho molto limitato gli accenni al mondo reale odierno: navi da crociera, videogiochi… Mi sono posto la questione del rischio di uno stile “alto”, che apparisse letterario. Penso di avere trovato, con la sintesi sintattica e semantica, un tono classico senza scadere nella retorica; o perlomeno lo spero.
Questa è la quinta opera di un progetto di rielaborazione della tragedia greca, che procede per vie d’arte e non per studi specialistici. Dalla tragedia prendo quello che mi serve per intuizione, non per un piano steso a tavolino. Ho cominciato con l’inserimento di sticomitie e monologhi lirici, avvertendo poi l’esigenza di dare maggiore equilibrio con uno schema. Uno schema non rigido. Esso è nato dalla spontaneità della scrittura, che ha poi ingabbiato senza forzature. Si è costituita un’architettura flessibile e non invasiva di questi elementi: monologo in prosa, monologo in prosa a dodecasillabi o endecasillabi o settenari, monologo in versi, sticomitia, dialogo in versi, dialoghi liberi.
Ai due terzi, ho suddivisa l’opera in parti, che sono: parodo (senza coro), Memo, Aiace, Teti, onda, Pentesilea, esodo.
La qualità formale nasce dal consueto metodo di rileggere a ogni riapertura di file. Il ritocco del dettaglio si riverbera sulla scrittura in fieri e ogni intervento è una riedizione. Con questo continuo prendere coscienza del vissuto, si illumina la strada ancora da percorrere. Rileggo, rifinisco e riscrivo, proseguo, torno indietro, vado avanti.   
Giunto in prossimità del traguardo, Achille mi si svela nella sua verità. Sono soprattutto le ultime parole di Memo a raccontarne l’egoismo di fondo, quello che non fa di lui un eroe diverso, ma che lo accumuna al bisogno spasmodico di gratificazione dei camerati. Lui e l’amazzone sembrano staccarsi da uno sfondo di conformismo, ma lui non fa altro che rinchiudere la vita in un rapporto limitante e lei non può fare a meno dell’autoesaltazione. A questo punto, è il conformismo di Memo, personaggio di piccolo calibro, a svelare il vero eroe di una tragedia che vede da una parte il privilegio e dall’altra la fatica di vivere.

MEMO            Ma io laggiù non troverò nessuno.
Mia moglie e i figli altrove, ancora vivi,
ma vivi come?
Siamo servi, da un  giorno all’altro senza
lavoro e in un attimo senza niente.
Pochi si accorgono
di quanto siano grandi
l’ansia e il dolore della gente piccola.
L’attenzione del mondo va ai signori
            che ci rubano l’aria, l’acqua e il sangue.
La gente adora i propri vessatori,
brama in segreto di prenderne il posto.
Io che non voglio opprimere nessuno
soccombo, è destino.
Chissà se anche qui Pentesilea e Achille
mi dedicheranno qualche attenzione?
Li vedo assorbiti dalle passioni,
l’una di soddisfare l’ambizione
l’altro di vedere avverati i sogni
attinenti sempre e solo a se stesso.
Mi vedono appena, ombra silenziosa
e già non mi riconoscono più.

Quando ho cominciato a scrivere, una decina di giorni fa, non avevo certo in mente un finale simile, incentrato su una figura secondaria; non avevo in mente niente, se non la suggestione vaga di un eroe morto, sordo agli allettamenti di una vita edonistica. Sono soddisfatto di quello che hanno fatto i miei personaggi. Mi hanno preso per mano e mi hanno indotto a completare l’abbozzo in modo convincente.
Quali le tematiche sviluppate? La diversità sessuale, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di morire, la stratificazione sociale, la società edonistica, il potere…
E ora? La sesta opera, nella quale voglio un coro. Sto rileggendo l’Orestea. Penso che Clitennestra abbia molto da dire sulla sentenza dell’aeropago.



lunedì 7 luglio 2014

LA GRANDE SOLITUDINE


Una volta il mondo invadeva le persone. Curiosità, esplorazione, stupore, abbandono alla bellezza. Ora le persone invadono il mondo. Non perché abbiano curiosità (uccisa dalle mode e dalla televisione), non per esplorarlo (se non entro i villaggi vacanze), non con stupore (tutto diventa un deja vu) e nemmeno per attrazione verso la bellezza (assassinata dal mercato). Le persone usurpano ogni angolo di mondo alla ricerca di emozioni e sensazioni da condividere nei più diversi modi: la chiacchiera, la documentazione fotografica e video, i social network. Le persone cercano cose da consumare per averne rassicurazione, sollievo e piacere; e lo stesso trattamento riservano alle altre persone, equiparate a cose destinate a uso personale.
Cinquant’anni fa si usava ancora la solitudine.
La donna in casa aveva i tempi lunghi della solitudine per le faccende domestiche e l’allevamento dei figli. Socializzava quando usciva per fare la spesa. I suoi figli avevano occasioni di solitudine: il maltempo, i compiti, la malattia. Anche gli uomini, a tutte le età, avevano più che adesso momenti in cui stare soli con se stessi. E i ragazzi e le ragazze quanto tempo trascorrevano con i sogni a occhi aperti?  
Solitudine, sogni, progetti, meditazioni, dialoghi con se stessi, rapporti muti con il mondo.
Ora non c’è momento in cui non ci sia la compresenza di radio, televisione, computer, telefono. Non basta. Il concetto di presenza singola è aberrante. Con sempre maggiore prepotenza i massmedia spingono l’uomo a non ritrovarsi mai da solo con se stesso, ma a cercare la compagnia di un altro o di un gruppo, siano reali o virtuali, perché ogni momento di vita non deve essere autoreferenziale, ma condiviso.
Attività come il sogno da svegli, lo stato alterato di coscienza, la lettura , la contemplazione non utilitaristica, la riflessione senza concettualizzazione, la sensazione di disintegrazione nel mondo… insomma, quel modo di rapportarsi con se stessi esclusivo e intenso, privato e profondo, ampio e onnivoro appare sempre più labile, se non in via di estinzione.
Le persone hanno paura, prima ancora che degli altri, di se stesse. Non vogliono affrontare tutta una serie di questioni spinose che le pone di fronte a dubbi, scelte da operare, chiarimenti urgenti. Non vuole conoscersi per come è davvero, si piace per come appare agli altri.
Lo stare da sole diventa qualcosa di temibile e da evitare con ostinazione. Sono le persone della socializzazione spinta.
Quando s’impegnano nel sociale, quando si sbattono per la gioia dei figli, quando organizzano eventi, quando partecipano a manifestazioni, quando si mettono in viaggio, quando intervengono per nobili scopi, quando scelgono i divertimenti, una delle motivazioni importanti è eludere i momenti di solitudine, scansare se stessi, cercare abbracci consolatori in un rapporto ininterrotto con gli altri.
Ma chi sono gli altri? Sono i compaesani o i vicini di quartiere, ma anche i compagni di vacanza o i coassociati, addirittura gli animali domestici, e spesso sono folla, una “società vicina” di interessi e atteggiamenti simili; e sono gli amici del social network e la moltitudine di internet: è sufficiente un nickname per conferire un’identità rassicurante e consolatoria.
La fuga dalla solitudine non è priva di conseguenze: un sistema psichico più fragile, una consistenza sociale aleatoria, una maggiore dipendenza, un sistema di valori inconsistente, un narcisismo accentuato, una scala di valori confusa, un’emotività artefatta.
Bisogna trovare il coraggio di riaffermare la positività della solitudine, e di sapersi anche ritirare dalle comunità sia reali sia virtuali, per non esserne travolti come individui e riciclati come cloni.
Tutto questo per dire che intendo rivedere “Andromaca non canta” in questa prospettiva, di una donna che ha scoperto nella propria solitudine la forza e la visione chiara del mondo.




sabato 5 luglio 2014

LETTURE E SCRITTURE PER L'ESTATE



Alcuni dei libri in lettura: “Atena nera” di Martin Bernal (sulla scia di altri saggi brevi che sto leggendo, la tesi opposta all’eurocentrismo degli ultimi due secoli; non siamo eredi della cultura greca, ma dobbiamo spingerci in Africa e in Asia per trovare le radici del politeismo olimpico e della nascita del teatro).
Nicole Loraux, “La voce addolorata” (la tragedia greca come espressione dell’antipolitica e quindi del dissenso costruttivo; siamo nell’ambito delle tesi sociologiche della scuola di Manchester e parliamo del “dramma sociale” come è presentato da Turner e Gluckman).
Mary Lefkowitz, “Dei greci, vite umane” (una lettura scorrevole della presenza degli dei nel mito, nelle opere omeriche, nelle tragedie e nella poesia lirica, con un’esposizione metodica degli avvenimenti e i commenti dell’autrice). Jean Pierre Vernant, “Le origini del pensiero greco” (dai regni micenei alla polis, dal mito alla filosofia, dalla faida alla polis e al suo ordinamento giuridico).


Umberto Curi, “Meglio non essere nati” (un docente universitario di filosofia ci presenta il pessimismo metafisico dall’antichità ai nostri giorni). Jean Pierre Vernant, “Mito e società nell’antica Grecia” (raccolta di saggi). Giuseppe Micunco, “Euripide” (riflessioni sulle sue tragedie).
Ho iniziato la rilettura delle commedie di Aristofane, in prospettiva di un ipotetico terzo “assaggio di teatro”, ma non scattano né entusiasmo né interesse. Per il momento sospendo.





Mi sono ripromesso, durante l’estate, di scrivere nuove opere di teatro a partire dalla tragedia greca. Dalla fine di maggio ne ho scritte quattro. La prima è “Elena in esilio”. In una famiglia rappresentativa della situazione attuale (madre con due figli e lavori saltuari; la figlia sottoccupata e il figlio disoccupato) si presenta Elena in fuga da Achille che la vuole riportare sull’isola di Leuce dove vivono come ombre. Elena si lamenta di una condizione di perenne profuga alla quale sono state addossate colpe non vere (la guerra). Vorrebbe una vita tranquilla, è disposta a lavorare e a fare a meno di ogni privilegio. L’idea è di inserire elementi del mito nella vita quotidiana di personaggi del giorno d’oggi. Il mito innesca una serie di avvenimenti “tragici”, mettendo a fuoco la verità al di là di ogni finzione e fraintendimento. L’arrivo di Achille (tra i personaggi ci sono anche Era e Zeus) mette il fratello contro la sorella fa esplodere la sua rabbia. Non c’è il coro.
L’opera è piuttosto lunga (quaranta cartelle), e alcuni monologhi sono forse da ridurre, ma è stato un primo passo importante che mi ha rivelato la fattibilità del progetto.



AGAVE          Urla, la mia povera bambina. Chissà quali incubi spaventosi.
ERA                Non può liberarsene, fin che Elena è qui.
AGAVE          Che cosa devo fare?
ERA                Mandala via. Al più presto. Se vuoi salvare i figli, cacciala. Se resta, sarà la rovina della casa.
AGAVE          Ma come faccio?
ERA                C’è solo un modo. Devi consegnarla ad Achille.
AGAVE          E lui dove lo trovo?
ERA                Dentro tuo figlio.
AGAVE          Dentro mio figlio? Che significa?
ERA                Lo scoprirai.
AGAVE          Come faccio a consegnare Elena a uno spettro?
ERA                Devi ucciderla.
AGAVE          Dici spropositi. Io non posso ucciderla. Non si toglie la vita, il comandamento è chiaro.
ERA                Pensa a chi uccidi. Non è un essere umano. Elena è vissuta migliaia di anni fa. Tu ne uccidi solo l’ostinata e scellerata persistenza nel mondo. Compi un atto di giustizia, se lo fai. Riporti l’equilibrio nell’universo. 
AGAVE          Come posso fidarmi di te? Anche tu sei inesistente. Io credo nel Dio cristiano.
ERA                Questo non t’impedisce di dare ascolto alla voce dentro di te, poiché io questo sono, una delle voci della tua anima.

Ho subito scritto una seconda opera, “Tirso”. Lo spunto me l’ha offerto un concorso: oggetti di scena e scenografie devono stare in una valigia.
Una famiglia diversa, alto borghese, il padre in prigione per illeciti amministrativi, la madre disperata perché teme di perdere il patrimonio. Due figli, anaffettivi ed egocentrici. Lei è reduce da una fuga durata un anno, in giro per il mondo, a vuoto. Lui si droga ed è alla ricerca del modo di fare soldi facili. Muore il nonno che lascia a loro due in eredità una valigia. Dentro ci sono: miele, vino, nebride, mitra, tirso, maschera, cembalo e tamburello… gli oggetti sacri di Dioniso. È lo stesso dio a spiegarlo ai ragazzi. Tra ricordi del liceo, esaltazioni orgiastiche, illusioni e litigi, i due compiono una specie di sacrificio che li allontana definitivamente dalla madre, senza però che possano seguire il dio. Nemmeno in quest’opera c’è il coro, ma ho inserito tra una scena e l’altra una didascalia poetica che commenta e approfondisce l’azione teatrale (la mia drammaturgia non prevede le solite didascalie inerenti a movimenti, motivazioni ed espressioni, proprio come risulta nella tragedia greca; ma questo da sempre, non per imitazione).   

DORIANA     Ora ci porti via con te, vero?
MICHELE      È venuto per questo. Lui è la magia che ci porta via.
DIONISO      Io non sono un rapitore di bambini.
DORIANA     Te l’ha chiesto il nonno. Ti ha detto: portali via di qua, portali nel tuo mondo, da’ loro una possibilità, non lasciarli qui a corrompersi giorno dopo giorno.
MICHELE      Ti seguiamo ovunque. Qui non c’è niente per noi. Beviamo vino in tuo onore. Danziamo e cantiamo giorno e notte. Che si può pretendere di più dalla vita? Noi vogliamo l’estasi.
DORIANA     Ci piace, abbiamo il diritto di essere felici, vogliamo stare con te.
MICHELE      Noi siamo il tiaso, ti seguiamo ovunque vai.
DIONISO      Non vengo a portare ebbrezza e stordimento, ma dolore. Solo il dolore svela i sentieri della gioia. Nessuno mi segue, chi vuole mi cerca. Io sono un dio vagabondo.

Sono certo che a una prossima rilettura, troverò accenti di retorica e ridondanza, ma per il momento lo considero inevitabile, considerati i riferimenti letterari. Queste scritture sono una ricerca di stile, di registro e di struttura. Parto dalla tragedia greca come suggestione, non come emulazione. Voglio trovare una forma originale, se ci riesco.
La terza opera è “Ganimede”, la più compatta, coerente e densa. L’ambientazione è mitica, non contemporanea, ma il linguaggio non è alto e a tratti richiama quello della commedia. Nemmeno qui c’è il coro. Due personaggi, Ganimede e Zeus, sono solo voci.
Sull’Olimpo si presenta un vasaio di nome Supplice. Chiede udienza a Zeus. Ha intenzione di chiedergli di restituire la verginità alla figlia sventata. In realtà, è il padre di Ganimede venuto a reclamare il figlio. L’inizio è da commedia, poi volge al patetico e nel finale assume un tono epico. Gli dei assumono caratteri definiti e l’opera mette in luce una ricca gamma di reazioni emotive e di sentimenti.

SUPPLICE      Ho gridato: voglio mio figlio! E nessuno mi ha ascoltato. Pregare e attendere per l’eternità? Non ha senso. Ganimede sa che sono qui. Spera che io faccia qualcosa. E intendo farla.
ESTIA            Che cosa?
SUPPLICE      Ora me ne vado, sapendo di scatenare la furia di Ebe, tanto giovane e tanto malvagia. E l’ira di Era, tanto potente da uccidere i miei sudditi con un’epidemia. E farò arrabbiare anche Zeus, che potrebbe lanciare il rimbombo del terremoto e sprofondare le mie città. Tutti quanti gli dei saranno irritati e vorranno punire me, la mia stirpe, il mio popolo.
ESTIA            Stai prefigurando cose terribili.
SUPPLICE      Sono io il primo a esserne spaventato. Ma la paura di un re vive sottopelle, e non vede mai l’aria. La forza di fare quello che medito mi viene da un fanciullo innocente che l’Olimpo vuole schiavo.
ESTIA            Che cosa hai in mente?
SUPPLICE      Ora ti volgo le spalle e mi allontano e se tenti di fermarmi mi lancio su di te come un lupo affamato e ti squarcio la gola.
ESTIA            Dei dell’Olimpo, mi minacci!
SUPPLICE      Te e tutti i tuoi complici.
ESTIA            Ma dillo, dillo: che intendi fare?

Ed eccoci alla quarta opera, “Andromaca non canta”. Lo spunto mi viene da Euripide. La partenza è simile: Andromaca fa appello a Peleo per difendere se stessa e il figlio dalla furia omicida di Menelao. Ho introdotto nuovi personaggi, tra i quali Ecuba con l’aspetto della cagna nera. In Euripide è presente un coro di donne di Ftia, qui un coro di serve. L’ambientazione non è definita. Si legge che il territorio di Menelao è montuoso e che l’aggregazione sociale è per clan. Non si sa di quale guerra si tratti e non si parla di schiave, ma di serve.
Un’opera di contrapposizioni: sterilità e maternità, matrimonio e concubinato, privilegio e servitù, maschilismo e rivendicazioni femminili, vendetta e serenità interiore… Ne sono soddisfatto? La cosa importante è l’impressione che gli elementi delle opere precedenti convergano in una direzione, quella che mi porta sempre più vicino a definire le problematiche per una struttura (elastica e adattabile) “tragica”, che comprenda dialoghi, coro, prosa e poesia.

ANDROMACA   Hai terrorizzato le donne che vivono qui.
ECUBA               Serve. La gente del mio clan non vive da serva. Vorrei che morissero tutte.
ANDROMACA   Sono giovani, vogliono vivere.
ECUBA               E tu?
ANDROMACA   Io ho un figlio, vivo per lui. Muoio, anche, per lui. E per lui patisco la servitù.
ECUBA               Ha il sangue di Achille, è un seme di malerba.
ANDROMACA   Il sangue è suo e solo suo. Quello di Achille è polvere di un tempo remoto.
ECUBA               Come fai a parlare così? Hai scelto di farti ingravidare dall’assassino di tuo marito e di tuo figlio, come fai a non vomitarti addosso ogni volta che ti specchi? E come fai a vivere, quando tutti sono morti?
ANDROMACA   Non l’ho voluta io, la guerra maledetta.
ECUBA               Le guerre sono come i terremoti e le alluvioni, ci piombano addosso contro la nostra volontà. E hanno la loro funzione, nel piano degli dei.
ANDROMACA   Tutti innocenti, gli assassini.
ECUBA               Non infangare gli eroi, tu che tradisci il tuo sangue, servendo il nemico.           
ANDROMACA   Non ho scelto di fare l’amore con Neottolemo, mi ha presa come cosa sua, dato che sono prigioniera e serva, femmina spogliata di ogni volontà. Ho scelto invece di rimanere viva per allevare mio figlio, questo sì. Dal mio ventre è nato, non da quello di Neottolemo. La mia carne l’ha nutrito, non quella di Neottolemo. Tu non odi solo lui, ma tutto ciò che è del clan nemico. Odi le persone e la loro terra, le case che abitano e le bestie che allevano. Se tu avessi armi chimiche, bombe, aerei… scaricheresti la devastazione, condannando milioni di innocenti. Che senso ha tutto questo? Voi che comandate avete voluto la guerra, e la volete infinita. Ma noi che non abbiamo il potere vogliamo respirare la pace. E gli dei non esistono, se non nel tuo delirio di morte.
ECUBA               Hai rinunciato all’onore. Per te provo solo disprezzo.
ANDROMACA   Non ho servito allo stesso modo Ettore e il tuo clan? Mi avete comprata e messa nel suo letto, ho avuto sul viso il fiato caldo di tuo figlio e gli ho dato eredi, ho sofferto per la sua morte, ma in vita mia non ho mai sparso lacrime d’amore, a me l’amore è stato vietato, come la libertà. Ora sono serva, ma la mia vita non è cambiata.
ECUBA               Ogni tua parola è un invito a uccidere te e il bastardo. Hai fatto parte dei principi del clan, hai avuto ricchezze e onori, ma quale sbaglio abbiamo fatto prendendo una donna di fuori! Tu sei rimasta una straniera. Solo ora me ne rendo conto: tu non eri degna di mio figlio, il combattente più valoroso, ucciso con il tradimento.
ANDROMACA   Non voglio più ascoltarti. Vattene.

Pochi giorni fa ho cominciato “Achille sull’isola dei serpenti”. In quest’opera dovrebbero confluire le scoperte fatte nelle altre. Dovrebbero quindi esserci: dialoghi drammatici, monologhi lirici, coro, collegamenti formali tra gli elementi, una struttura che faciliti la compattezza e l’equilibrio delle parti e altro. Achille, dopo morto, non è finito al Tartaro ma sull’isola dei Beati o Leuce o isola dei Serpenti, insieme ad altri eroi della guerra di Troia, tra i quali Aiace. Se ne sta appartato, infelice. Gli manca qualcuno. L’arrivo di Pentesilea, la regina delle Amazzoni, sua nemica, che ha amato dopo averla uccisa, non riempie il vuoto che ha nel cuore. Ha bisogno di Patroclo. Ma può uno votato alla guerra e alla morte tenersi vicina la persona amata? Solo Afrodite conosce la risposta.

MEMO           Al crepuscolo la malinconia stringe Achille alla gola e lo zittisce. Io che sono al suo servizio e anche amico non gli rivolgo domande, lo ignoro. Ma i guerrieri che alloggiano sull’isola per il tempo infinito della morte non si danno ragione di un eroe che piange su se stesso e non si esalta per le imprese compiute in battaglia: e lo ignorano.
                        Noi siamo qui, al crepuscolo, di fronte al dorso increspato del mare, un drago nero che sputa schiuma e fa sconquasso di voci diverse, sibili e schianti. Dietro di noi gli schiamazzi del vino e il clangore delle armi nei tornei. Al fuoco delle torce i combattenti, alla cenere della luna noi.
                        Achille è fisso a una visione nera tra terra e cielo dove l’orizzonte accoglie i desideri impossibili. Suona il forminx e canta, ecco i suoi versi.
                        Dall’infinito qui approda
                        l’onda e all’infinito va.
                        Il mio sogno all’infinito
                        si protende e qui ritorna.
                        Questa riva è una catena,
                        questo mare una prigione.
                        Non si parte e non si arriva,
                        sempre qui su questa riva.
ACHILLE       Memo!
MEMO           Comandami, signore.
ACHILLE       Non ti pare di scorgere laggiù, molto lontano, quasi sulla linea confusa dell’orizzonte, una luce danzante come se una stella fosse precipitata e stesse per annegare?
MEMO           Se strizzo gli occhi, ne vedo tante, ma la mia impressione è che nuotino verso di noi.
ACHILLE       Potrebbe trattarsi di una barca.
MEMO           Caronte?
ACHILLE       Se ci porta qualcuno, non può essere qualcuno che conosco?
MEMO           Signore, io non aprirei il cuore alla speranza, se fossi in te.
ACHILLE       Non sto pensando a nessuno in particolare.
MEMO           Meglio così.
ACHILLE       Non vedo più niente.
MEMO           Vedi quello che vedono tutti: il muro nero della notte.
ACHILLE       Se gli dei volessero il mio bene, non mi lascerebbero qui a struggermi. Meglio morto, che vivo senza vita.


Se qualcuno fosse interessato, sarei lieto di mandargli le opere in lettura.