martedì 2 luglio 2013

L'ECCELLENZA DELL'ATTORE

Ci sono stati due momenti, in questi giorni, in cui mi sono tornate in mente le parole di Grotowski sul rapporto attore-pubblico. “L’attore fa dono totale di sé”. Ne “Il teatro povero” espone le idee sulla “santità laica” dell’attore, che si sacrifica smascherando sé stesso e svelando la propria interiorità, affinché il pubblico faccia un’esperienza di “penetrazione in sé”. L’attore non cerca quindi l’applauso e non agisce per dare al pubblico emozioni superficiali e un piacere effimero. Coinvolge lo spettatore e gli indica un percorso interiore di esplorazione e scoperta di sé e del mondo, per una reazione di mimesi con l’interiorizzazione dell’attore.


Niente a che fare con le strategie di comunicazione del teatro amatoriale e nemmeno con quelle di certi professionisti della scena.

Nel primo caso, l’interprete si avvale di due linee operative: le tecniche apprese e la gestione istintiva e accattivante del pubblico (l’istrione). Nei gruppi amatoriali assistiamo spesso a una recitazione che cercando a tutti i costi di compiacere il pubblico finisce per tagliarlo fuori. Esibizione di una dizione accademica, gestualità artefatta e inefficace, riproposizione di scelte registiche usate e abusate, autocompiacimento, mancanza di visione d’insieme, ridondanza della gag o di un frammento espressivo… Oppure la platea è gestita in modo invasivo con uno stile sempre più televisivo; l’attore non si propone allo spettatore, ma lo forza alla risata e all’applauso.
Nel secondo caso, l’attore è centrato più su sé stesso che sull’opera e sull’elaborazione che deve farne il pubblico; questo vale anche per il regista. Si enfatizza il livello estetico, si cerca lo stupore barocco, si blandisce il critico e si va verso uno spettacolo che non presenta personaggi e contenuti, ma attori e tecnici concentrati su un’arte “di proprietà egocentrica”, dal regista al costumista allo scenografo. È il teatro dei grandi attori e dei grandi registi, che a volte dimenticano di doversi umilmente farsi un poco da parte per lasciare emergere il “grande teatro”.
L’eccellenza dell’attore è allora da ricercare nell’uso delle tecniche come mezzo e non come fine, e in una presenza scenica non divistica, ma cooperante e comunicante.

Scrive Barba: “Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle del virtuosismo tendono alla meraviglia. Le tecniche extra-quotdiane, invece, tendono all’informazione: esse, alla lettera, mettono-in-forma il corpo rendendolo artificiale/artistico, ma credibile. In ciò consiste la differenza essenziale che le divide da quelle tecniche che lo trasformano nel corpo “incredibile” dell’acrobata e del virtuoso.” (E. Barba, La canoa di carta, Il Mulino, 1993)

Quali sono i due momenti che mi hanno fatto ripensare al teatro “povero e santo-laico” di Grotowski? Uno è legato al debutto di “Death watch”. I tre interpreti recitano ignorando il pubblico, agiscono in un luogo chiuso indistinto, senza un fronte-platea. Rompono lo schema in alcuni momenti, uno in particolare, quando immobili cercano gli occhi degli spettatori. Per il resto, il dialogo è solo fra loro tre. Vivono la situazione del personaggio non con la reviviscenza stanislavskiana, ma con una partitura vocale e coreografica che li fa fluire tra gli stati d’animo verso la condizione finale di condannato che condanna senza acrimonia, facendo della propria sorte un appello umanitario. Eccoli lì, così giovani, così inesperti, così ingenui, e così “credibili”, come scrive Barba. Ciò che vivono si riflette sul pubblico, ne vince le resistenze, lo induce a condividere l’emozione. A condividere il rito.

Il secondo momento è con le ragazze di religione islamica con le quali sto preparando “Stranie”, un lavoro sull’integrazione. Per loro è una novità la partitura di movimenti-parole che cerca l’emozione non tanto nell’immedesimazione e nell’espressione dei sentimenti (che spesso risultano artificiose), quanto nel flusso visivo-acustico. Mi domandano che cosa significhi l’inizio e parliamo di interpretazione da parte del pubblico. Alcune di loro hanno bisogno del sostegno della logica e della chiarezza. Ne discutiamo. Le invito a presentarsi al pubblico con poche parole nella loro lingua (marocchino-tunisino-algerino), subito ripetute in italiano; possono essere sé stesse o inventarsi un personaggio. Anche di un’altra lingua? Certo. Oltre alle lingue maghrebine, ora abbiamo il francese, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, il palestinese. Una alla volta, si espongono. Con naturalezza, ridendo quando Imen s’inventa un’identità fasulla. La presentazione è una dichiarazione semplice ed efficace di disponibilità. Io sono qui e vi dico chi sono. E voi? Voi chi siete? Che cosa pensate? Condividete quello che stiamo facendo? Avete preso il teatro che vi stiamo porgendo e lo avete introdotto nel vostro animo, nelle vostre emozioni, nel vostro pensiero?
Ecco che cosa fa l’attore. Non chiede al pubblico di applaudirlo per le proprie capacità artistiche, ma di manifestare la condivisione di un momento di approfondimento del mondo e della vita.
“L’esperienza mi ha insegnato a rifiutare la divisione tra danza e teatro” scrive ancora Eugenio Barba.
Questo teatro di parola che si fa gesto, movimento, danza, è un teatro che mira all’interiorità dello spettatore e che agisce attraverso la sincerità, la verità, la generosità e insomma il “sacrificio” dell’attore che si dona per un momento di riflessione emozionata. Attore eccellente.



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