giovedì 24 luglio 2014

ACHILLE SULL'ISOLA DEI SERPENTI

Aquilino
Achille sull’isola dei serpenti



Nell’ “Etiopide” (poema greco del VII sec. A.C.  di cui rimangono solo frammenti e riassunti) Achille è posto ancora vivo sull’Isola dei Serpenti, alle foci del Danubio. L’isola esiste e ha mantenuto il nome; si trova nel Mar Nero a circa 45 chilometri dalle coste della Romania e dell’Ucraina; è poco più di uno scoglio e ospita un solo abitante, il guardiano del faro; è comunque ricca di petrolio e gas naturale. Esiodo pone invece gli eroi sulle Isole fortunate o isole dei Beati, corrispondenti alle attuali Canarie. Secondo Apollonio Rodio Achille finì invece sull’isola di Leuce, dove fece coppia con Medea.
L’isola dei serpenti che intitola l’opera corrisponde a un luogo mitico comune a più mitologie, nel quale gli dei pongono gli eroi premiati con l’immortalità (es. il Valhalla).

MEMO            Al crepuscolo la malinconia stringe Achille alla gola e lo zittisce. Io che sono al suo servizio lo ignoro, non gli rivolgo domande indiscrete. Ma poi è lui che fa domande a me, per indagare la propria inquietudine. I guerrieri che alloggiano sull’isola per il tempo infinito della morte non si danno ragione di un eroe che piange su se stesso e non si esalta per le imprese compiute in battaglia: e lo ignorano.
                        Noi siamo qui, al crepuscolo, di fronte al dorso increspato del mare, un drago nero che sputa schiuma e fa sconquasso di voci diverse, sibili e schianti. Dietro di noi gli schiamazzi del vino e il clangore delle armi nei tornei. Al fuoco delle torce i combattenti, alla cenere della luna noi.
                        Achille è fisso a una visione cupa fra terra e cielo dove l’orizzonte accoglie i desideri più impossibili. Un muro di nebbia strangola l’isola, oltre il quale le navi da crociera passano con le tolde illuminate. A volte ho l’impressione di ascoltare il chiasso dei turisti che folleggiano.

La localizzazione è stata il punto di partenza, ma il nome non è stato occasione di suggestioni letterarie come invece mi aspettavo. Nel testo non si parla mai di serpenti, nemmeno a livello metaforico. Immaginavo Achille con una specie di scudiero (trattamento da privilegiato), scontento della sistemazione, indifferente ai richiami degli eroi, con in testa solo Patroclo relegato nel Tartaro, tale e quale a un adolescente innamorato.
Sembrava una storia di diversità e di amore impossibile; e soprattutto all’inizio il protagonista era lui, Achille. Poi le cose si sono complicate. Come al solito, mi sono lasciato condurre dai personaggi. Essi hanno il compito non solo di generare se stessi, ma di manifestare le proprie necessità inerenti all’ambiente e ai compagni d’avventura. L’isola si è subito spaccata in due: da una parte la riva ghiaiosa sulla quale si strugge Achille (eroe romantico), dall’altra il villaggio vacanze nel quale se la spassano gli eroi (epica omerica). Achille è un poco Don Chisciotte, un poco Orfeo, un poco Amleto, e un poco anche Dorian Gray, ma la sua sfaccettatura non ha mai profondità. Uccide perché deve, ama perché lo spinge la natura, ma le sue scelte… le sue scelte sono egocentriche, impulsive e superficiali come quelle di un bambino.
Piano piano, emerge invece la ricchezza interiore di Memo, il suo servitore. Una ricchezza che non gli dà alcun vantaggio e che anzi va a suo discapito. L’onestà e la coerenza lo renderanno vittima degli eroi.
La scrittura parte a velocità ridotta e poi addirittura rallenta. Si presenta il solito rischio di risolvere l’opera come se fosse un romanzo o un film, spingendo la mente a rielaborare trame avvincenti e colpi di scena. Giunge presto il momento dell’angoscia: come andare avanti? Se non si vuole risolvere la vicenda come una narrazione (per quanto emozionante possa essere), ma come l’ambito di vita dei personaggi, assecondandone la natura misteriosa, allora bisogna lasciar fare a loro. Li si invita a farsi sogno e li si libera di ogni costrizione, aprendo davanti a loro i mille sentieri dei possibili sviluppi e lasciando che si avviino, trainandosi l’un l’altro.
Documentandomi sulla biografia di Achille (ricchissima come d’altronde quelle di Perseo, di Teseo, di Elena…) due episodi mi avevano colpito: i nove anni in abiti femminili e la necrofilia su Pentesilea. Pentesilea! Era come se Achille la chiamasse a sé, come se ne avesse bisogno per giungere alla fine dell’opera.

PENT.             Bella io? Sono belle le mie cicatrici? I muscoli guizzanti? L’espressione di pietra? Le mie mani, sono belle, capaci di strangolarti senza sforzo? E la mia voce di tuono è bella? Quando mi specchio vedo una belva a due zampe, non una bella femmina. Ma questa è la mia natura e l’accetto. Sono bella quanto lo è la morte.
AIACE            A lui le donne piacciono proprio così, morte.
PENT.             A te ancora vive, ma durano poco.
AIACE            Achille…
PENT.             Non ha mai saputo che cosa gli piace.
AIACE            Sembri conoscerlo meglio di quanto lo conosciamo noi.
PENT.             Siamo entrambi stranieri in patria.
AIACE            Vieni, appartiamoci. Ti spiego i dettagli della missione.
PENT. Sono in missione? Per voi e per l’Olimpo? Ma agli uni e agli altri ficcherei una spada nel cuore.

E non potevo fare a meno della madre, Teti, che avrebbe contribuito a fare luce sulla personalità del figlio e avrebbe avuto la funzione di spingere i personaggi in una direzione. Ho invece scartato Afrodite e altri dei. Degli eroi me ne sarebbe bastato uno, quello che tanto aveva desiderato l’armatura di Achille (e tanto aveva desiderato sostituirlo): Aiace.

MEMO            Ehi, tu! Non sei una delle bambole che Efesto fabbrica per gli eroi. Non sai che infrangi la legge di Zeus? A nessuna femmina è consentito l’approdo. Come hai potuto superare la nebbia?
TETI               Poseidone mi protegge.
MEMO            Tu non sei umana.
TETI               Sono Teti, la madre di Achille.
MEMO            Perdonami, divina.
TETI               Sei Memo, il suo compagno?
MEMO            Il suo servo.
TETI               Dov’è Achille?
MEMO            Perdonami due volte, ma non vuole che riveli l’eremo del suo isolamento.
TETI               Pensa ancora a lui?
MEMO            A te posso dirlo. Giorno e notte. S’illude di scorgere imbarcazioni, aerei, perfino elicotteri da guerra in missione di pace, venuti a portare il premio all’eroe. Recita cento e più volte la scena di quando disarmato accorse a onorare il cadavere dell’amico, mettendo in fuga i nemici con la sola presenza, disperato e terribile, vendicativo e votato alla morte. Lo sento fare le voci di Patroclo, Ettore, Sarpedonte, Menelao… e perfino della madre scesa a consolarlo.
TETI               Tanto lo ama.

Mentre portavo avanti la questione dello sviluppo di una storia, mi ponevo la questione della forma. Ho ripreso la modalità di “Andromaca deve morire” di trattare una vicenda mitica come se fosse cronaca contemporanea, ma ho molto limitato gli accenni al mondo reale odierno: navi da crociera, videogiochi… Mi sono posto la questione del rischio di uno stile “alto”, che apparisse letterario. Penso di avere trovato, con la sintesi sintattica e semantica, un tono classico senza scadere nella retorica; o perlomeno lo spero.
Questa è la quinta opera di un progetto di rielaborazione della tragedia greca, che procede per vie d’arte e non per studi specialistici. Dalla tragedia prendo quello che mi serve per intuizione, non per un piano steso a tavolino. Ho cominciato con l’inserimento di sticomitie e monologhi lirici, avvertendo poi l’esigenza di dare maggiore equilibrio con uno schema. Uno schema non rigido. Esso è nato dalla spontaneità della scrittura, che ha poi ingabbiato senza forzature. Si è costituita un’architettura flessibile e non invasiva di questi elementi: monologo in prosa, monologo in prosa a dodecasillabi o endecasillabi o settenari, monologo in versi, sticomitia, dialogo in versi, dialoghi liberi.
Ai due terzi, ho suddivisa l’opera in parti, che sono: parodo (senza coro), Memo, Aiace, Teti, onda, Pentesilea, esodo.
La qualità formale nasce dal consueto metodo di rileggere a ogni riapertura di file. Il ritocco del dettaglio si riverbera sulla scrittura in fieri e ogni intervento è una riedizione. Con questo continuo prendere coscienza del vissuto, si illumina la strada ancora da percorrere. Rileggo, rifinisco e riscrivo, proseguo, torno indietro, vado avanti.   
Giunto in prossimità del traguardo, Achille mi si svela nella sua verità. Sono soprattutto le ultime parole di Memo a raccontarne l’egoismo di fondo, quello che non fa di lui un eroe diverso, ma che lo accumuna al bisogno spasmodico di gratificazione dei camerati. Lui e l’amazzone sembrano staccarsi da uno sfondo di conformismo, ma lui non fa altro che rinchiudere la vita in un rapporto limitante e lei non può fare a meno dell’autoesaltazione. A questo punto, è il conformismo di Memo, personaggio di piccolo calibro, a svelare il vero eroe di una tragedia che vede da una parte il privilegio e dall’altra la fatica di vivere.

MEMO            Ma io laggiù non troverò nessuno.
Mia moglie e i figli altrove, ancora vivi,
ma vivi come?
Siamo servi, da un  giorno all’altro senza
lavoro e in un attimo senza niente.
Pochi si accorgono
di quanto siano grandi
l’ansia e il dolore della gente piccola.
L’attenzione del mondo va ai signori
            che ci rubano l’aria, l’acqua e il sangue.
La gente adora i propri vessatori,
brama in segreto di prenderne il posto.
Io che non voglio opprimere nessuno
soccombo, è destino.
Chissà se anche qui Pentesilea e Achille
mi dedicheranno qualche attenzione?
Li vedo assorbiti dalle passioni,
l’una di soddisfare l’ambizione
l’altro di vedere avverati i sogni
attinenti sempre e solo a se stesso.
Mi vedono appena, ombra silenziosa
e già non mi riconoscono più.

Quando ho cominciato a scrivere, una decina di giorni fa, non avevo certo in mente un finale simile, incentrato su una figura secondaria; non avevo in mente niente, se non la suggestione vaga di un eroe morto, sordo agli allettamenti di una vita edonistica. Sono soddisfatto di quello che hanno fatto i miei personaggi. Mi hanno preso per mano e mi hanno indotto a completare l’abbozzo in modo convincente.
Quali le tematiche sviluppate? La diversità sessuale, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di morire, la stratificazione sociale, la società edonistica, il potere…
E ora? La sesta opera, nella quale voglio un coro. Sto rileggendo l’Orestea. Penso che Clitennestra abbia molto da dire sulla sentenza dell’aeropago.



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