venerdì 10 ottobre 2014

"ERACLE" di Euripide, un commento.

Aquilino
“Eracle” di Euripide. Commento in occasione di una lettura pubblica drammatizzata.




Il prologo in Eschilo era spesso affidato al coro. Esso serve a fornire allo spettatore le informazioni necessarie per orientarsi nella vicenda. Quasi sempre si espongono cronache remote e miti, dato che il presente è sempre figlio del passato. Con Sofocle e con Euripide il prologo è affidato a un personaggio, il cui monologo iniziale diviene poi dialogo. In questo caso Anfitrione espone la sua lunga rhesis (discorso, spesso resoconto, tipico del messaggero) e dopo poche battute con Megara, la moglie di Eracle, cede la scena al coro dei vecchi tebani.

Si presenta al pubblico come “Anfitrione di Argo, che condivise il letto nuziale con Zeus”. Mentre lui è in guerra, Zeus assume le sue sembianze e inganna Alcmena, la moglie, con una dettagliata cronaca delle battaglie. Sosta nella sua camera tre giorni e tre notti e dall’amplesso nasce Eracle. L’informazione fornita da Anfitrione precede una genealogia di tutto rispetto: è figlio di Alceo, a sua volte figlio di Perseo generato da Zeus. Non a caso Euripide mette in rilievo l’episodio, motivo di vanto per un mortale. Fa parte dell’ironia tragica: ti vanti di essere con-padre di un semidio, ma quella che credi una benedizione sarà invece la rovina della tua casa. Inoltre, Perseo è l’uccisore della Gorgone Medusa. Nella tragedia, Euripide scrive che Eracle e i figli hanno uno sguardo da Gorgone. I mostri che Eracle e i suoi antenati hanno ucciso dimorano negli uccisori.
Esiliato da Argo per avere ucciso in un incidente il cognato Elettrione, Anfitrione si è rifugiato a Tebe, la terribile città dalle sette torri con sette porte, i cui fondatori sono gli Sparti, i cinque guerrieri nati dai denti del drago di Ares seminati da Cadmo. In loro onore, Cadmea si chiama la rocca di Tebe e Spartiati o Cadmei gli abitanti. Ares lancia una maledizione contro Cadmo e i suoi discendenti. Tebe è la città di Eracle e a Tebe nasce anche Dioniso, il dio delle baccanti. Quando il re Penteo ne vieta il culto, lo fa uccidere dalla madre Agave, invasata come lo sarà Eracle. A Tebe si svolge la vicenda di Edipo, come Eracle assassino innocente, anche lui ospitato dal re di Atene Teseo. Tebe assiste alla battaglia tra i due figli di Edipo, Polinice ed Eteocle. E alle vicissitudini di Andromaca che sfida il potere di Creonte pur di seppellire il fratello Polinice.

Eracle, nella versione di Euripide (che stravolge il succedersi degli avvenimenti, anticipando le fatiche e posticipando la morte di Anfitrione), rimane a vivere ad Argo e stringe un accordo con il re Euristeo: libererà la sua terra dai mostri e in cambio Anfitrione potrà tornare in patria.
Egli è quindi partito per compiere dodici imprese, o fatiche: leone di Nemea, Idra di Lerna, cerva di Cerinea, cinghiale di Erimanto, stalle di Augia, uccelli del lago Stinfalo, toro di Creta, cavalle di Diomede, regina delle Amazzoni, buoi di Gerione, giardino delle Esperidi, Cerbero. Si noti che le Amazzoni sono nell’elenco dei più pericolosi mostri dell’antichità. Eracle ha appena portato Cerbero a Euristeo (che ogni volta che l’eroe si ripresenta ad Argo si fa calare in un bunker, al sicuro dai mostri) ed è in viaggio per Tebe, ma i suoi familiari non lo sanno e temono che sia morto.
Il re di Tebe era Creonte, padre di Megara. Lico l’ha ucciso approfittando dell’assenza di Eracle e diventa il tiranno della città. Egli intende uccidere tutti i familiari dell’eroe, per evitare che possano in seguito vendicarsi.

Anfitrione è stato incaricato da Eracle di proteggere la moglie e i figli e svolge l’incarico con dedizione e con coraggio.
Si tratta di una figura minore, in una tragedia che vede come unico protagonista Eracle, presente anche nell’assenza, dato che tutto gira intorno a lui. Lico non farebbe una strage se i bambini non fossero figli suoi; e la sua ambizione è comunque di distruggere nello spirito e nella fama un eroe che invidia. Inoltre, i discorsi di Anfitrione e Megara sono tutti legati all’assenza dell’eroe e a un suo prodigioso ritorno. Il coro ne ricorda le imprese. Sul finale, al protagonista si affianca Teseo, un deus ex machina non divino. Tocca a lui mettere un coperchio sulla pentola in ebollizione e tranciare la catena di avvenimenti inspiegabili che tiene avvinto Eracle a uno stato di scoramento.
Anfitrione è il fil rouge che lega Megara e i bambini alla speranza, per poi consegnarli alla pietà del rito funebre, e fronteggia Lico e gli dei, e assiste al massacro, e poi sostiene il figlio, e solo alla fine dice: a me chi pensa? Perché tanta morte se la sente addosso e il pensiero di seppellire i nipoti e la nuora e di rimanere solo nella città travolta dalla guerra civile lo annienta. Con sollievo sente promettere da Eracle che manderà a prenderlo per portarlo ad Atene.

Una figura minore, ma l’unica che vive la tragedia in modo equilibrato. Megara è presa da un fanatismo funebre che costringe i figli a interpretare con decoro l’ultima scena della loro vita. Eracle, dopo la breve scena iniziale in cui si mostra padre affettuoso, non fa che uccidere, prima il tiranno e poi i familiari. Quando esce da una forma di “entusiasmo” che non gli provoca un contatto creativo con la divinità, ma lo rende indemoniato e furioso, perde la spavalderia dell’eroe e barcolla tra la figura tragica e quella comica, come già nell’ “Alcesti”. Appare distrutto, più che dal dolore, dalla perdita dell’onore, della timè. Vuole quindi suicidarsi, ma ci ripensa; abbandonare le armi, ma le riprende; e il suo pensiero va alla ricompensa non ancora riscossa per la cattura di Cerbero; e probabilmente ai beni e agli onori che lo attendono ad Atene.
Anfitrione si ritrova fuori dal sistema, bandito da Argo, coinvolto nella lotta civile a Tebe, emarginato insieme agli altri vecchi, ridotto a fare da becchino, solo con il proprio dolore. Eracle, invece, sceglie di mantenere il proprio ruolo di aristocratico eroe e va ad Atene a riscuotere il premio della propria fama. L’odio di Era, tuttavia, lo segue e lo annienta.  Sposa Deianira, ha altri figli, ma non scampa a una morte orribile.
L’umanizzazione dell’eroe giunge così al suo estremo, con la sua dissoluzione sul rogo. Ma dobbiamo rivolgerci a Sofocle per conoscere la fine di Eracle, raccontata nella tragedia “Trachinie”.
L’impotenza e la solitudine di Anfitrione, questo “eroe in ombra”, sono le medesime dei vecchi del coro (“Vecchio, fa’ da scorta a un altro vecchio”). Essi cantano: “La vecchiaia è un peso, sempre, che mi schiaccia”.
Eppure fa o dice più cose sensate Anfitrione che Eracle, la cui unica opzione rimane la violenza.
Nel finale deittico del monologo sottolinea la propria condizione di esule perenne. Cacciato da Argo, è stato cacciato anche dalla casa di Tebe. E anticipa quello che in seguito sviluppa in modo più ampio: nella sventura, gli amici si eclissano.

Ci si offre un quadro significativo: raccolta attorno all’altare, cercando nella religione l’estremo rifugio, la parte più debole e maltrattata dell’umanità: un vecchio, una donna, tre bambini. Sono le vittime predestinate dei conflitti sociali e delle guerre.
Anfitrione è preciso e oggettivo nel presentare al pubblico la situazione. Ma Euripide è un artista e il registro dal narrativo vira di colpo al patetico. Se il vecchio mostra fierezza e combattività (“Mi piace vivere e amo la speranza”), sua nuora si è già arresa. Non vede via d’uscita e concentra le proprie energie nel tranquillizzare i figli, per condurli verso una buona morte. È una figura acquerellata, l’opposto della sanguigna Medea, un’Alcesti che si rassegna a un destino visto come ineluttabile che comunque la santifica. Euripide non sembra prendersi molta cura della sua arrendevolezza e la tratteggia senza passione.

Ora che a tutti è chiaro che cosa sta succedendo e con quali stati d’animo i personaggi vivono la vicenda, il coro può fare il proprio ingresso danzato e cantato. È la parodo. Il termine significa “la via vicina” e si riferisce al duplice corridoio sui lati della scena. Indica anche l’ingresso del coro. 
Il coro dei vecchi è lo specchio della precarietà della situazione umana, evidenziata dalla situazione. Com’è la loro vita? Segnata dagli incubi, dalla paura di non farcela, dai ricordi tristi delle glorie del passato, dall’amarezza di avere dato tanto e di trovarsi ora nel bisogno. Che cosa li soccorre? Solo la solidarietà. Eschilo avrebbe predicato la fede in Zeus, ma il laico Euripide invita gli uomini a contare solo su se stessi. L’invito alla fratellanza umana assume un colore politico, quando l’autore rimprovera la Grecia di perdere preziosi alleati, uccidendo i figli di Eracle. Sembra un riferimento alla guerra del Peloponneso, devastante e insensata. La solidarietà tra gli anziani anticipa quella tra Teseo ed Eracle nel finale. Gli uomini, se vogliono superare i momenti difficili, non devono aspettare l’aiuto del cielo, ma soccorrersi a vicenda.

Abbiamo ascoltato il racconto equilibrato delle sventure, elaborato su registri diversi: la fierezza, l’irremovibilità, la solidarietà, la remissività, la nostalgia, l’indignazione… Ai toni patetici si contrappone la prepotenza del tiranno. Lico è lucido, risoluto, cinico. L’emblema del conquistatore che va dritto all’obiettivo, indifferente al costo in vite umane.
Euripide ce lo presenta disumanizzato, un robot programmato nei cui circuiti la pietà non ha significato. Non è forse l’altra faccia di Eracle? Ambedue hanno compiti da svolgere e li conseguono con la massima efficienza, facendo ricorso alla violenza. Violenza e guerra sono pane quotidiano nella società micenea, ma Euripide afferma che è tempo di staccarsi dalle origini. Tempo di revisionare la mitologia e la qualità dei rapporti tra gli uomini, tra gli uomini e gli dei e tra le comunità e gli stati. Violenti, sia Lico sia Eracle trovano una morte violenta.

La forza di Lico è comunque venata di debolezza, dato che non può fare a meno di manifestare invidia e paura per Eracle, che in un modo goffo tenta di sminuire. Il confronto con lui è inevitabile. Scontro animalesco tra due maschi dominanti. Lico lo attacca nel punto debole dei maschi: la virilità. Non è un uomo, afferma, chi combatte con l’arco e non con la lancia. Comincia, qui, il gioco di disintegrazione del semidio. Ma è proprio vero che abbia ucciso tutti quei mostri? Erano davvero mostri? Le sue imprese si sono svolte lontano, impossibile verificarne l’autenticità. Non saranno anche queste “invenzioni dei poeti” come dirà più avanti Euripide? E non è un vigliacco, chi scaglia la freccia tenendosi nascosto?
Euripide tesse le lodi della falange greca, la phalanx di opliti costituita da un muro di scudi, ma le sue parole suonano sinistre e ricordano la carne da macello di tutte le epoche.

Nel primo episodio, Lico è sbrigativo e terrificante nelle sue esagerazioni. Euripide gli fa mandare soldati sull’Elicona e sul Parnaso, lontani decine di chilometri, per riportarne tronchi da ammassare intorno all’altare di Zeus. Una sparata improbabile al di fuori di ogni logica di corrispondenza spaziale e temporale. Una pira gigantesca per bruciare vivi i nemici. L’ansia di distruzione del tiranno megalomane.
Ai suoi piani smisurati di puro orrore si oppongono i gemiti misurati e le maledizioni impotenti di Anfitrione e dei vecchi, qui fusi in un medesimo stato d’animo: pietà per le piccole vittime, sdegno per la loro sorte, riprovazione per la mancanza di soccorsi. Tutti sfidano il tiranno, ma nessuno è in grado di fare una concreta opposizione. Non fa quindi parte anche Lico di ananke, la necessità che governa la vita, il Fato contro il quale è impossibile ribellarsi? Com’era inarrestabile Eracle nella distruzione dei mostri, così lo è il tiranno nel sottomettere e nel trucidare. D’altronde, i familiari di Eracle sono i suoi mostri, gli incubi di una possibile vendetta futura che egli deve eliminare.

Megara, sottomessa alla necessità, chiede una grazia: che non vengano uccisi dal fuoco, ma dalla spada. E che possano rientrare nel palazzo per indossare gli abiti funebri.
Ecco Ananke, evocata da Megara. La sua adesione allo stato di necessità dell’umanità, per cui si deve accettare il destino come si presenta, suona come un rimprovero ad Anfitrione e al coro di vecchi. Sono stupidi, se non si arrendono al destino, contro il quale nemmeno gli dei possono fare qualcosa. Ma insinua anche il dubbio che il suocero abbia paura, quando dice: Abbi il coraggio di morire insieme a noi. Megara analizza freddamente la situazione e anche qui riscontriamo la duplice anima di Euripide, poetica e filosofica. I suoi personaggi esprimono emozioni, ma anche interrogano, indagano, cercano risposte. Megara esamina tre possibili vie di salvezza: il ritorno di Eracle, il pentimento di Lico, l’esilio. Nega la praticabilità di tutte e tre le vie. La più concreta è l’esilio, ma la morte è meglio di una sopravvivenza misera. Non si ribella, non cerca vane speranze, ma si adopra per salvare il salvabile. Se devono morire, che avvenga in modo dignitoso. Sembra avere un animo freddo, rispetto a quello più turbolento di Anfitrione. Le sue preoccupazioni sono formali: morire non arsi vivi, ma sgozzati come vittime sacrificali, e agghindati con le vesti nere. Anfitrione si arrende. Non impreca più, non si rifugia nella speranza. Fa però una strana richiesta, che vengano uccisi per primi lui e Megara, per evitare lo strazio di assistere alla fine dei bambini. Non pensa che per loro è sorte peggiore vedere prima uccidere madre e nonno e capire che cosa li aspetta. Forse la dinamica è coerente con i valori sociali del tempo: prima gli uomini, poi le donne, ultimi i bambini, i più sacrificabili. 

Anfitrione non regge a fare la parte del rassegnato e il suo ultimo grido è un’accusa lucida e disperata. Com’è possibile, dice, che l’uomo sia migliore degli dei? Zeus è stato disonesto e ora si mostra cinico e irriconoscente. Io invece sono qui, pronto a morire insieme a coloro che proteggo. Zeus non capisce, è lontano da noi, oppure è ingiusto. E così crolla tutto il sistema olimpico. Siamo lontanissimi dalle esortazioni di Eschilo a rivolgersi sempre e comunque a Zeus.

Giungiamo al primo stasimo. Il coro esprime un threnos, un lamento funebre che è anche celebrazione dell’eroe ormai dato per morto. Il canto è lungo in modo inconsueto, dato che rievoca una per una tutte le dodici fatiche di Eracle. Àilinos, il grido con cui si apre, è il nome di un figlio di Apollo morto sbranato dai cani. In sua memoria, Apollo ha istituito un culto e “ailinos” è diventata un’invocazione.

Nel secondo episodio, Megara commemora la grandezza della propria famiglia. Eracle aveva promesso ai figli di renderli re di Argo, di Tebe e di Ecalia. È significativo che  Euripide abbia posto in elenco proprio Ecalia, la città conquistata da Eracle per vendicarsi di un torto e soprattutto per prendersi la ragazza di cui si è invaghito. Il re di Ecalia, Eurito, promette di dare in sposa la figlia Iole a chi lo batte nel tiro con l’arco, nel quale si ritiene invincibile grazie all’arco ricevuto da Apollo. Eracle, che pure è stato suo allievo, lo batte, ma Eurito gli nega Iole, avendo saputo che l’eroe ha ucciso la moglie Megara e i propri figli. Eracle se ne va meditando vendetta. Dapprima uccide il figlio di Eurito, Ifito, suo ospite, buttandolo giù dalle mura di Corinto. Poi, quando ha già sposato Deianira, assalta Ecalia con un esercito, la distrugge, ne uccide gli abitanti e si porta via Iole come concubina. È la gelosia di Deianira, in un onesto tentativo di recuperare l’amore del marito donandogli una tunica impregnata del sangue del centauro Nesso, a far morire Eracle in modo atroce.
Ecco, quindi, l’eredità che Eracle lascia ai figli: rapacità, tradimento, distruzione, violenza. Megara celebra l’eccellenza aristocratica del mito, ma inconsapevolmente ne porta alla luce la sostanza fatta di maschilismo e sopraffazione.
Più dimesso è il tono di Anfitrione. Non celebra, ma compiange il comune destino umano, di soggiacere al tempo e alle sue devastazioni. Il suo invito edonistico al carpe diem è amaro, perché si presenta come una disfatta.

Arriva Eracle, come un’apparizione divina. Evocato da Megara, che si sarebbe accontentata di un’ombra o di un sogno, egli si concede nella realtà, vivo. Un passaggio quasi da commedia. L’invocazione disperata e subito dopo, meraviglia del soprannaturale, il miracolo. Quasi comica è anche la sollecitazione della madre: svelti, bambini, correte ad aggrapparvi a lui, non lasciatelo scappare via! D’altronde, Eracle è uno che torna solo per ripartire. Euripide sembra dirci che il confine tra la tragedia e la commedia, il patetico e il comico, il drammatico e il ridicolo è labile. Il colpo di scena è tipico delle commedie cosiddette di tiche, la fortuna: agnizioni, ribaltamenti, inatteso lieto fine.

La scena che si presenta all’eroe è scioccante. Viene dall’Ade e si ritrova davanti i familiari in abiti funebri, simili ai morti che ha incontrato giù all’inferno. Lo stupore è dato anche dal fatto che scorge la moglie fuori casa, in mezzo agli uomini: situazione inappropriata per una donna sposata. Megara compie poi un’altra infrazione, di cui si scusa: invece di lasciar parlare l’uomo, Anfitrione, prende l’iniziativa ed espone lei i fatti, giustificandosi con il detto che la donna è più emotiva dell’uomo e che si trova in uno stato d’animo di agitazione e paura.
La sticomitia tra lei ed Eracle mette del tutto in ombra Anfitrione: la vecchiaia deve soccombere anche all’esuberanza femminile.

Megara torna nell’ombra e non replica più ai successivi propositi di vendetta di Eracle, come se tanta virulenza non facesse che aumentare la sua angoscia. Con l’amarezza, e l’astio, di essere rimasta senza amici, si chiude la sua parte nella tragedia. Che cosa rimane di Megara? Ci si presenta nel dialogo iniziale con Anfitrione informandoci che i figli chiedono del padre, come se sulla madre sapessero di non potere fare affidamento. Infatti, Megara non ha certo l’animo dell’eroina. Non si oppone a Lico e non tenta vie estreme, tipo il suicidio. Si rassegna, e nessuna eroina lo farebbe. Nel dialogo successivo implora Lico di dare loro una morte formalmente onorevole, abbigliati secondo l’uso e sgozzati, e non urlanti nelle fiamme, cosa che farebbe ridere i nemici. Ricorda poi a quali onori erano destinati i figli, futuri re di Argo, Tebe ed Ecalia (senza interrogarsi sull’effettiva realizzabilità di un progetto così folle), valorizzando i figli per il ruolo più che per se stessi.
Infine, quando giunge Eracle, la sua è una lamentazione quasi isterica, tanto da rubare la scena ad Anfitrione. Enumera le disgrazie delegando al marito ogni iniziativa. A questo punto, non ha più niente da dire. Come se pensasse: il mio dovere l’ho fatto, ora tocca a lui.

L’ira di Eracle è delirante, ricorda quella di Achille e di Aiace. È la rabbia incontrollata di un bambino. Giunge addirittura a rinnegare le imprese compiute, in nome di questa più alta: salvare i propri figli. Si può anche sottolineare l’esternazione affettuosa del padre, ma Eracle gestisce i figli come investimento per il futuro, dato che a loro spetterà di tenere alto l’onore della famiglia. Moglie e figli sono una sua proprietà. L’atteggiamento è simile a quello di tanti mariti-padri padroni, che per “amore” giungono a fare una strage familiare.
Anfitrione esce dall’ombra e frena l’impulsivo genero. Espone addirittura un’analisi della situazione politica, addebitando la colpa del disordine sociale di cui si è approfittato Lico agli spiantati che si fanno credere ricchi e che fanno di tutto per conseguire l’agiatezza di cui hanno un disperato bisogno. Una questione di immagine pubblica e di società disgregata molto attuale. Il consiglio di Anfitrione appare cinico e vile: un agguato per uccidere Lico. Ma l’alternativa è la guerra civile o un Eracle scatenato per le vie della città, quindi una mente razionale la definirebbe un’opzione sensata. La tirata finale sull’amore per i figli appare retorica.
In una breve sticomitia, Eracle racconta la cattura di Cerbero. È l’occasione per introdurre Teseo, protagonista della parte finale. Egli e il suo amico Piritoo hanno rapito Elena sorteggiata in moglie per Teseo, rimasto vedovo dopo il suicidio di Fedra. Anche Piritoo vuole una moglie e scendono insieme nel Tartaro per rapire Persefone. Ade, però, li immobilizza su due troni di pietra. Eracle riesce a liberare Teseo, ma non Piritoo.

Nel secondo stasimo, Il coro ritorna sul tema della giovinezza, suggerito dalla esuberanza di Eracle contrapposta all’impotenza senile. La sua voce è anche quella del sessantenne Euripide. Lo stile è quello sofistico, riflette il gusto di ragionare intorno all’utopia. L’esito è amaro: la ricchezza è il tratto distintivo più riconosciuto; e infatti l’aretè aveva tra i suoi requisiti proprio la ricchezza. Euripide si sta confrontando, lui artista, con il mondo fatto più di beni materiali che di poesia.
Eccolo quindi portare un esempio alternativo di vita, quando è governata dalle Cariti e dalle Muse, sotto il segno di Bromio, Dioniso. L’accenno a Dioniso è importante. La follia omicida di Eracle ricorda quella di Agave nelle “Baccanti”. E si può riscontrare, come suggeriscono le numerose citazioni, un senso binario dell’esistenza, regolata da due forze contrapposte, quelle di Apollo (ordine, disciplina, armonia, pensiero…) e di Dioniso (caos, anarchia, ritmo sfrenato, intuizione…), in una prefigurazione nietzschiana. 
I vecchi del coro si paragonano ancora al cigno, bianco come le loro barbe, sacro ad Apollo: il suo canto più bello lo intona in punto di morte. Anche qui Euripide esprime se stesso, nella misantropia che gli ha alienato le simpatie di un popolo che della socialità faceva il basamento della propria identità. Poco più di un decennio dopo, se ne va a morire in Macedonia, dove esprime con le “Baccanti” il turbamento di fronte a un mondo irrazionale e imprevedibile, nel quale la violenza è un tragico abbaglio; mentre le istituzioni che dovrebbero renderlo pacifico e sereno si dimostrano incapaci di regolare gli istinti di morte dei suoi abitanti. E gli dei non danno alcun conforto.

Il terzo episodio è breve. Sulla morte di Lico non ci sono altre parole da sprecare. L’attenzione di Euripide è concentrata su altre dinamiche. Per le modalità espressive, è stata rimarcata una simmetria con l’Elettra. Ma il dialogo tra Anfitrione e Lico ricorda molto quello tra Dioniso e Penteo, quando il dio convince il re a rendersi vittima di se stesso, scegliendo di recarsi sul monte a spiare le baccanti. Il severo e apollineo Anfitrione come Dioniso, dunque, disposto a mentire pur di eliminare il tiranno senza ulteriori spargimenti di sangue.

Nel terzo stasimo, il coro riprende il concetto di Anfitrione, sul giusto piacere di un atto di giustizia. Enfatizza il concetto per dare a intendere che il disordine causato da Lico sta per avere fine. Eracle riprende il proprio posto nel mondo dei vivi e continua l’opera di distruzione dei mostri. I familiari sono salvi, il tiranno eliminato. Insomma, un lieto fine. Il coro rimprovera chi non crede nel potere degli dei di riportare la giustizia tra gli uomini. Ma il lieto fine è solo un’illusione. Come lo sono gli dei consolatori e garanti di giustizia.

I vecchi hanno celebrato Eracle, la giustizia divina, la bellezza e la prosperità di Tebe. L’episodio dell’uccisione di Lico ha le caratteristiche di un finale. Ma, con un forte contrasto drammaturgico, la vicenda tragica prosegue nel modo più inatteso e sconvolgente. Sul tetto della casa appaiono due figure divine inquietanti. Euripide, dopo un falso finale, introduce un secondo prologo, per consentire a Iride di orientare gli spettatori. La vicenda della follia di Eracle porta a un massacro ed è un secondo finale, caratterizzato dallo sconforto impotente dell’eroe. Ma a quel punto, come un deus ex machina, compare Teseo che conduce verso il terzo finale definitivo.

Siamo al quarto episodio. Iride è la personificazione dell’arcobaleno, ma è sorella delle Arpie e il suo compito di messaggera è di portare solo messaggi funesti. Lissa è la dea della rabbia e del furore cieco, ha un aspetto terribile, con serpenti al posto dei capelli. Si presentano in disaccordo: Lissa commemora le imprese di Eracle e invita gli dei a non infierire su di lui. Ma il dissidio è di breve durata e Lissa si conforma subito alla volontà di Era. Euripide ci dice: anche se sanno di fare una cosa ingiusta, gli dei la fanno, guidati da capricci o cattivi sentimenti.

La furia che si impadronisce di Eracle è un demone taurino. Come è stato osservato (Antonietta Provenza, Eracle e l’odio di Era. L’immagine del toro nell’Eracle di Euripide), “La perdita dei tratti umani di Eracle, culminante nell’immagine del toro, è conseguente nel dramma ad una follia che si presenta come sovvertimento dannoso dell’enthousiasmos dionisiaco a opera di Lissa, il demone che incarna la follia stessa come sconvolgimento rabbioso dalle conseguenze incontrollabili.”
L’associazione Dioniso-toro è ampiamente attestata nella letteratura greca. Ma il toro è anche l’animale più pregiato per i sacrifici, di solito riservato a Zeus. Eracle-Dioniso-Zeus esprime il peccato di hybris, che come al solito nasconde l’assurdo della condizione umana. Lo stesso Zeus ha generato il supereroe e l’ha benedetto nella sua funzione civilizzatrice di uccisore di mostri. Ma la sua fama lo innalza a livello olimpico, facendone un altro mostro che, pur essendo umano, assume caratteristiche simili a quelle degli dei. Il toro divino va quindi sacrificato. Eracle mantiene ancora il ruolo di giustiziere, ma in questo caso uccide se stesso nei propri affetti. Egli sacrifica agli dei moglie e figli, annienta la propria vita. Come Edipo, può dire: “Per la legge sono innocente, dato che non ero consapevole di quello che facevo”. E il coro può ripetere: “Egli è un uomo perbene”.

Gli dei giudicano gli uomini secondo l’hamartia, ossia gli errori inconsapevoli o i giudizi errati che portano a conseguenze tragiche. Qual è l’hamartia di Eracle? Solo di essersi elevato al di sopra dell’uomo, oppure di avere accettato il proprio destino di sterminatore senza alcuna valutazione etica? Non ha mai avuto dubbi, sulla propria missione di eliminatore di mostri. Non si è mai fatto scrupolo di usare la violenza in modo eccessivo, uccidendo innocenti e distruggendo città. Forse è questo il debito che ha con gli uomini e con gli dei. Violenza chiama violenza. Occorre un sacrificio di decontaminazione. Un sacrificio totale: la punizione di sé con l’uccisione non di mostri, ma di una donna e di bambini, la sua donna e i suoi bambini. Tanto ha tolto agli altri, tanto toglie a se stesso. 

Nel quarto stasimo, il coro sottolinea l’associazione tra la furia di Eracle e l’invasamento delle baccanti. In questo caso, però, mancano la musica e il vino, sostituiti dal fracasso e dal sangue. Manca, soprattutto, la colpa da attribuire a Eracle, come nel caso di Penteo che ha proibito il culto di Dioniso. L’unica colpa che gli si addebita è di essere figlio di Zeus. Era vuole impedire che dei e uomini si uniscano per generare una nuova razza di semidei, una minaccia per l’Olimpo. Tra l’uomo e il dio si deve mantenere una distanza insuperabile.

Alle esclamazioni di orrore del coro segue la rhesis del messaggero (quinto episodio), che fa una cronaca cruda di quanto è successo lontano dagli sguardi degli spettatori. Un terremoto fa crollare i muri, Anfitrione urla tentando un’impossibile opposizione, appare la dea Atena che finalmente ferma il folle. I sintomi di Eracle sono impressionanti. Euripide è ben documentato, conosce la dottrina di Ippocrate, allievo di Protagora e dei sofisti: rigidità, schiuma alla bocca, occhi iniettati di sangue, riso isterico, allucinazioni… la rabbia, l’epilessia, la follia.

Dove avviene la strage? Proprio intorno a un altro altare di Zeus: uno all’esterno per dare inizio alla vicenda e uno in casa per darle conclusione. Zeus, l’Olimpo, è testimone dall’inizio alla fine e a lui si appellano invano le vittime. Eracle si sta lavando le mani per purificarsi dell’uccisione di Lico (come ci si purifica dopo un sacrificio cruento), ma per lui non esiste purificazione divina, e riprende a uccidere. Come Aiace, è preda di allucinazioni, convinto di trovarsi nella reggia di Euristeo.

Quinto stasimo. Mediante l’ekkyklema, la piattaforma mobile, i cadaveri vengono mostrati al pubblico e ai vecchi del coro. Ma si può anche immaginare che la parete frontale crolli (venga rimossa) in seguito al terremoto, rivelando l’interno. Domina il silenzio. Quello dei morti, quello di Eracle tramortito, quello che invoca Anfitrione, come se non ci fosse più niente da dire. A lui non rimane che piangere, sia per le vittime sia per il figlio che dorme “un sonno dannato”. È a lui che è riservata la pietà più profonda e straziante. Al coro non rimane che ribadire l’assoluta incapacità dell’essere umano di dare un senso ai casi della vita. Si rivolge al secondo padre di Eracle, quello divino, e l’invocazione suona come un rimprovero.

Esodo. Al risveglio, Eracle paragona se stesso a una nave ormeggiata scampata a una tempesta. Poco prima, trascinando i figli nella casa dell’orrore, aveva parlato di un rimorchiatore. Si tratta, insomma, di un naufragio. Tocca sempre ad Anfitrione affrontare la realtà con coraggio e realismo. Nonostante sia stato testimone dell’eccidio, non maledice Eracle (“O figlio, sei mio figlio anche nella sventura!”) e parola dopo parola, con la cautela necessaria per capire se Eracle sia davvero rinsavito, affronta insieme a lui la terribile verità. “Tutto per te è sventura”, gli dice. Il ritorno dell’eroe salvifico si è trasformato in un episodio di guerra di sterminio.

Eracle non indugia in lamentazioni che non rientrano nel suo carattere. Pensa ad agire, che è nella sua natura. L’unica azione possibile gli appare quella del suicidio. Ma non fa in tempo a esporre la sua fin troppo dialettica determinazione (mi butto dalla rupe? mi conficco una spada nel fegato? mi do fuoco?) che arriva Teseo a vanificare i suoi piani.
Sembra che il dolore per il lutto e il senso di colpa vengano affrontati, più che con un’azione semplice e immediata, con un tergiversare che però assicura la sopravvivenza. Fresco di mattanza, Eracle è impuro. Nessuno deve posare lo sguardo su di lui, pena la contaminazione, che era causata da vista, udito, tatto. Si accovaccia e nasconde la testa sotto il mantello, spinto anche dalla vergogna per quello che ha fatto. Un’immagine che stride con quella dell’eroe trionfatore ritornato dall’inferno!
Teseo è suo cugino, sia per parte di madre (Alcmena e Etra erano sorelle) sia per parte di padre (Zeus e Poseidone fratelli) e gli è affezionato, oltre che riconoscente per averlo portato via dal Tartaro.

Lico un tiranno odioso, i Tebani dei vili che hanno abbandonato la famiglia di Eracle, i coristi e Anfitrione troppo vecchi per fare qualcosa, Megara una rinunciataria… su questo sfondo di impotenza spicca il re di Atene, glorificazione della polis del quinto secolo.
Teseo giunge con un esercito (di giovani!) in soccorso di Eracle e si presenta come l’eroe puro, onesto, forte e compassionevole. È il Teseo delle “Supplici”, quando all’araldo tebano dice: “Ad Atene non comanda uno solo, libera è la città: comanda il popolo con i deputati, a turno eletti anno per anno; i ricchi non hanno privilegi, i poveri uguali diritti.”
A seguire un duetto in cui Anfitrione canta e Teseo recita: una scena ricca di pathos.

Quando Teseo toglie la coperta che nasconde Eracle, scopre un Eracle arrendevole, stupito perché Teseo non teme la contaminazione. Ma Teseo-Euripide espone una dottrina nuova che va contro la tradizione, anche questa acquisita con la frequentazione di Protagora: l’amore e l’amicizia impediscono ogni contaminazione. Teseo espone un’altra novità: non si deve ricorrere al suicidio per sfuggire al disonore o all’umiliazione. Il ricorso al suicido è molto più facile in Sofocle, che rispecchia la cultura dell’onore a tutti i costi. Per completare un quadro tutto filosofico, Euripide fa esporre a Teseo una critica esplicita al comportamento degli dei, che infrangono le leggi civili e sono dispotici. Non vanno presi ad esempio, se non per il fatto che accettano i propri limiti senza vergogna, come dovrebbero fare gli uomini. Un’altra osservazione riguarda i reietti della società, i nullatenenti e gli schiavi, o quelli nati penalizzati a livello fisico o psichico. Loro, afferma Euripide, non soffrono quanto uno che è fortunato e felice e precipita nella disgrazia. Un ragionamento piuttosto aristocratico, ma tipico della mentalità antica.
A questo punto, Teseo si rivela davvero un deus ex machina, dato che ha in tasca la soluzione.

Di fronte a lui Eracle inscena un vero e proprio processo. Non condanna se stesso per quello che ha fatto, ormai del tutto convinto che è solo opera di Era, ma presenta la giuria inesorabile della comunità. È la gente a condannarlo, impedendogli di accedere ai templi e di partecipare alle riunioni pubbliche: gli viene negata la socialità. Anche lui fa parte dei mostri che ha combattuto e deve lasciare i luoghi civili per rifugiarsi in quelli selvaggi. Senza alcuna remora, si autocelebra come il più grande eroe della Grecia e si autoassolve da ogni colpa.
Eracle-Euripide, contraddicendo Teseo, pronuncia una difesa degli dei che richiederebbe di essere approfondita, esposta così com’è in pochi versi. Gli dei non sono così infami come raccontano vecchie storie, i miti. Sono invenzioni dei poeti, poiché gli dei non hanno bisogno di nulla. Si fa strada una concezione nuova dell’universo olimpico, riveduto in chiave sofistica e soprattutto influenzata dal pensiero dell’empio Anassagora, che sostituiva gli dei con il Nous. Euripide, insomma, intende fare piazza pulita di tutte le superstizioni e le invenzioni letterarie e recuperare un senso di divinità puro e alto.

Eracle continua a operare cambiamenti repentini di atteggiamento. Non cambia però l’alta opinione che ha di sé, tanto da considerare unica e smisurata la propria disgrazia, sminuendo così i doni generosi che gli fa Teseo. Non bastano ricchezze e onori e nemmeno santificazioni per consolarlo. Comunque, accetta tutto. E cambia idea sul suicidio, pensando che è un atto da vigliacco, e non sopporterebbe di essere ricordato così. La sua sembra una fine misera: ho pianto… devo assoggettarmi al destino… vado in esilio… Ma si tratta di un esilio dorato. Lascia moglie e figli incaricando Anfitrione di provvedere ai riti funebri, ma per l’ennesima volta celebra se stesso come autore di “magnifiche imprese”, e rimarca che lui ai figli aveva approntato un futuro di gloria, lasciando loro una “splendida eredità”. Insomma, lui è stato un padre perfetto.

L’addio alle vittime è declamatorio, ma poco interiorizzato. Sembra la recita di un dolore, più che il dolore in sé. L’addio ai familiari è presto sostituito da un frettoloso addio alle armi. Dovrebbero ispirargli orrore, ma le armi sono ormai una propaggine del proprio corpo, sono una parte di sé inscindibile. Il pretesto è che ha ancora dei nemici e che ha il dovere di difendersi e di non soccombere, sempre per via della vergogna, della timè da difendere a tutti i costi.
Infine, chiede a Teseo di accompagnarlo ad Argo per riscuotere il compenso della cattura di Cerbero. Strana conclusione di una lamentazione! Eracle, in conclusione, sembra avere più a cuore sé come grande eroe, sé come padre amorevole, sé come vittima del destino, sé come mercante di morte. Saluta il popolo di Tebe, invitandolo a onorare i morti e anche lui vivo, ugualmente disgraziato. Anche qui una nota stonata: i morti sono morti e lui continua la propria vita tra gli onori.

Dopo tanti sfoghi, tante commemorazioni e autoesaltazioni, dopo le rosee e inattese prospettive per il futuro, Eracle è svuotato. Sembra colpito da una paralisi. Deve appoggiarsi a Teseo. Si ripulisce dal sangue, ma l’atto di purificazione non basta a ridargli la forza di avviarsi con l’amico. Esita, vuole dare un ultimo saluto ai figli e al padre. Irrita Teseo che lo vede trasformato da eroe in uomo comune. Ecco, proprio un uomo comune diventa Eracle. E invano Teseo lo provoca dandogli della femminuccia. Raccomanda di nuovo al padre la sepoltura e gli promette che tornerà a prenderlo per portarlo ad Atene. Eracle e il vecchio padre, i due sopravvissuti. Ora Eracle condivide non più le promesse per il futuro e la vigoria del rapporto coniugale, ma la depressione di un vecchio che ha perso tutto: il proprio paese, la propria casa, i propri familiari. Dall’Olimpo e dall’empireo degli eroi siamo scesi a livello degli uomini mortali e gravidi di disgrazie. Eracle avrà terre e santuari, come promesso da Teseo, ma il suo animo è umano e “Stolto, chi preferisce la ricchezza o la forza ai buoni amici.”

Tutta l’opera viene riposizionata secondo questa prospettiva: i conti non si fanno con gli dei, ma con gli uomini. L’eroe semidio è un uomo, con tutte le sue debolezze. Incentrato su di sé e capace di compiere crimini. Anche Omero ci presenta Ettore come buon padre di famiglia e in preda al terrore davanti ad Achille.
Solo in una comunità democratica e affettiva si può trovare sollievo e soccorso nelle traversie quotidiane. Amicizia e buona società, ecco la ricetta di Euripide. Non per niente le ultime battute sono fra tre personaggi, struttura rara in Euripide, quasi un simposio.

Nella traduzione di Angelo Tonelli.










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