giovedì 4 agosto 2016

LA MEDEA: allestimento

Alcune considerazioni relative alla messa in scena di “La Medea” come conclusione del corso di teatro con ragazzi dai 10 ai 12 anni dell’I.C. Verjus di Oleggio, prevista per aprile 2017.

Di solito, il luogo deputato per la rappresentazione è il teatro civico da quasi quattrocento posti, con un ampio palcoscenico attrezzato. Probabilmente ci andremo anche quest’anno, ma l’intento è di un prodotto proponibile in qualunque spazio e situazione. Risulta pertanto utile l’abolizione della disposizione unidirezionale dell’attore che si ritrova il pubblico davanti nella classica scatola teatrale a tre pareti. La rappresentazione supporta il pubblico in qualunque dislocazione: frontale, laterale, circolare.
La scelta scaturisce dalla rescissione parziale del rapporto attore-pubblico. L’interpretazione avviene infatti su due livelli: un gruppo si relaziona con il pubblico in modo diretto e coinvolgente; l’altro lo ignora del tutto, in una performance a proprio uso e consumo.
I personaggi sono: tre mediatori, Medea, Giasone, Nutrice, Creonte, Glauce, Mermero e Fereto (i figli di Medea), Coro dei cittadini. I mediatori hanno il compito, come già nelle Baccanti dell’anno scorso, di facilitare la comprensione, stimolando soprattutto un rapporto critico non offuscato dall’empatia e dalla partecipazione emotiva. Essi hanno quindi una funzione epica e il rapporto con il pubblico è quasi da avanspettacolo. Proprio per questo essi si trovano all’esterno della scena vera e propria. Assistono alla rappresentazione come cloni degli spettatori e non possono interferire con gli attori veri e propri. Sono, in effetti, tre spettatori fatti accomodare sul palcoscenico. A differenza dello spettatore in platea, sono attivi e propositivi, esprimono in diretta giudizi e perplessità, fanno spettacolo pur rimanendone fuori.
Sono un esempio di cultura, motivazione, curiosità, rapporto positivo con l’immaginario. Essi sono vivi e ritraggono lo spettatore ideale, quello che ha motivazioni e interessi, che rispetta i tempi e l’eticità, che sceglie in modo personale e oculato, che ha cultura e idee personali, che sa apprezzare e gratificare.

Non possiamo dire altrettanto con i personaggi della tragedia.
Sono figure mitiche, non inseribili nei libri di storia, quindi personaggi fin dall’inizio, non di una tragedia d’autore, ma di un racconto popolare anonimo. Non soggetti alle regole spietate della vita umana, essi dovrebbero essere eterni, ma niente è eterno: anche i miti muoiono. D’altronde, essendo sublimazioni incarnate, in quanto figure mitiche hanno assunto il tempo narrativo come scansione delle proprie imprese. Sottoposti anche loro al tempo, possiamo considerarli morti.
Tutti i personaggi di tutti i generi letterari non sono altro che morti che ritornano, ai quali ognuno può fare indossare l’abito che preferisce. Come i morti di Kantor, denotano memoria labile, confusione mentale, tendenza alla ripetitività, incostanza e imprevedibilità. Essi, cioè, possono cambiare a ogni resurrezione. Un personaggio muore non appena nasce, e manifesta però una vitalità disumana che lo rende disponibile a ritorni infiniti, ogni volta per una vita illusoria breve. Si forma, così, dalla sommatoria delle vite innescate dai nuovi rifacitori letterari e drammaturgici, un superpersonaggio di illogica e irrazionale complessione, che tracima da ogni parte, ma dotato di una forza di coesione che gli impedisce di implodere.
Questa Medea, nelle intenzioni, presenta uno di questi superpersonaggi, sintesi di secoli di rielaborazioni scelte e rivedute dall’autore.
Anche questo superpersonaggio, tuttavia, nasce morto, pronto a risorgere per diventare “un’altra Medea ancora”.

Tutto quanto si predica sull’arte immortale e sui personaggi eterni è pura retorica. La storia fa un massacro di grandi personaggi e di ammirevoli autori, ai quali l’attributo  di genio non è stato conferito in quanto le loro opere sono scomparse negli incendi, nelle distruzioni o nella cattiva volontà degli uomini, spesso ciechi e insensibili, oltre che crudeli. Le opere che sopravvivono non hanno di diritto una durata eterna, se la aggiudicano solo grazie al caso. I personaggi, comunque, hanno vita più breve. A volte l’opera in cui è avvenuta la loro gestazione sopravvive in angusti dimenticatoi, come è successo per le pergamene della civiltà greca e romana, rimanendo in coma per secoli, fino a quando uomini amanti della cultura danno loro nuova vita con le traduzioni, il recupero filologico, i commenti. I personaggi, nel frattempo, sono usciti dall’opera originaria, sono scomparsi e riapparsi in altre opere, come è successo appunto per la Medea euripidea rinata in lingua latina con Ovidio, Seneca, Ennio, Draconzio.
Quando diciamo “Medea” che cosa diciamo? Nulla. Nulla più di un episodio di cronaca nera. Non esiste una Medea, esistono infinite Medee che mai raggiungono lo scopo di unificarsi in un superpersonaggio stabile e definitivo, al di là degli stereotipi che illudono sulla sua unicità.
Il personaggio Medea è vivo in forma letteraria nel testo prosastico o drammatico, ma deve morire e rinascere sul palcoscenico, per diventare personaggio teatrale.
Ebbene, di che forma di vita parliamo? Esiste forse una donna Medea, maga di discendenza divina, madre e assassina? Ha un corpo, Medea? Ha una personalità? Ha il corpo dell’attrice che la interpreta, ma non la sua personalità. Medea non ha una personalità, non è una persona. A lei si nega la vita, perché non può contenerla; in questo senso è morta. Giunge dal mondo dove tutte le cose e tutte le parole finiscono, il mondo della morte che mai nessuna cultura ha descritto come mondo del nulla assoluto. Vi sono brecce tra una dimensione e l’altra provocate dai ricordi, dalle testimonianze ancora fruibili, dalle eredità morali e di pensiero, dalle credenze religiose e dalle iniziative artistiche.
Attraverso una di queste brecce la scena evoca il personaggio Medea, che è uno spirito sconosciuto, privo di lineamenti, ancora muto, incapace di agire sul reale, misterioso e informe. L’azione congiunta del testo, dell’interprete e delle arti visive e sonore coordinate dal regista rivestono di significati la forma nuda, donando al personaggio un’altra vita. Ma non è una vita umana, è una vita onirica e subliminale.

Da una parte abbiamo quindi i tre mediatori che sprizzano vitalità da ogni poro, dall’altra il gruppo di morti che rivive di vita propria per presentare un’altra Medea non al pubblico presente, ma a se stesso. I mediatori mediano tra la rappresentazione e il pubblico; gli attori mediano tra i personaggi testuali e quelli drammatici; solo con l’interpretazione il personaggio rivela a se stesso di essere un’altra volta in qualche modo vivo.
Ripugna, quindi, agli interpreti tutto ciò che è troppo vivo: colori, musiche, coreografie… Tutto prende efficacia solo se non si oppone con violenza all’idea di morte dalla quale sorge la drammaturgia, ma si armonizza con il silenzio interiore dei personaggi che devono recuperare la memoria, la motilità, la prontezza di pensiero e di eloquio. Tutto questo richiede un richiamo forte di energia. Da uno stato di passività devono passare in fretta a una situazione di simulazione della vita nel mondo reale e materiale.
L’attore evoca il personaggio, ma non lo domina; ne viene intriso, perfino invaso; sviluppa per esso sentimenti che possono stridere con la sua storia. Invece di pietà può sentire disprezzo, invece di empatia odio. Tuttavia, non tradisce la propria disponibilità e fa di tutto per facilitare la presa di vita del personaggio di pertinenza. Deve farsi da parte, lasciare esprimere l’entità che si manifesta attraverso il suo corpo e il suo animo. Il personaggio è invasivo e prepotente, si appropria dell’energia vitale con tanta più facilità quanto meno gli si oppone l’interprete.

Vivi e morti stanno in mondi separati.
I vivi abitano la realtà, i morti i sogni e le illusioni. I vivi coabitano con le cose, i morti con le parole inespresse. Per segnalare questa differenza in termini visivi, sul palcoscenico viene steso un grande telo bianco, il nuovo pavimento dei morti, quasi una nuvola. Esso non solo delimita il “cimitero”, ossia l’area esclusiva riservata agli attori, ma consente di ricavare con facilità un sotto, un “tartaro  o erebo”: è sufficiente sollevarlo e tirarselo sulla testa per scomparire nel mondo degli inferi. Gli interpreti non escono mai dall’ampia macchia bianca, dato che al di là non esiste nient’altro che il nulla. Viene quindi escluso ogni progetto di scenografia: niente all’esterno può collegarsi allo spazio chiuso, delimitato e impraticabile. Una bolla d’aria, un acquario, un cerchio magico, un varco spazio-temporale. Tutto ciò che vi accade è vero, reale, significativo. Tutto ciò che accade all’esterno è menzognero, illusorio, insensato.
Lo spazio a disposizione, circolare o vagamente poligonale, richiama l’idea di un vortice che trascina tutti verso il centro.
Al centro c’è Medea.
Sopra una struttura lignea rivestita, come un paludamento, o sopra una scaletta nuda, magari collegata mediante un’asse a un’altra, ella può sedersi e fare alcuni passi, drizzarsi sopra gli altri. Alla sua destra il re Creonte su un’alta sedia bianca da ufficio, la figlia accovacciata ai suoi piedi; e accanto a loro Giasone, che misura inquieto lo spazio ristretto, dando l’idea di non avere un proprio angolo in cui placarsi; ambizioso di tutto e padrone di niente.
Alla sinistra di Medea il Coro dei cittadini e davanti a lei i due figli: un poco scompaiono sotto la struttura un poco sotto il telo bianco; a badare a loro c’è la Nutrice.
Di lato, sul proscenio, i tre mediatori, la cui libertà di movimento è illimitata, purché non calpestino il telo bianco; essi si spostano anche in mezzo al pubblico.

Non vi sono colori se non il bianco, il nero e il grigio. Il giorno e la notte in tutte le loro sfumature. Anche l’incarnato viene spento dal trucco; ma sul pallore dei visi risaltano le labbra rosse, segno della vita provvisoria di cui godono i personaggi.
Musiche in tono, rallentate e lontane, quasi un’eco. Coreografie congruenti, anche se ancora non so come riuscirò a fare lavorare i ragazzi su un’idea che contrasta con il modo comune di pensare: esprimere violenza e aggressività senza ricorrere a urla e movimenti convulsi.
Non so nemmeno se riuscirò a trasmettere il senso di questa messa in scena che non ha assolutamente niente a che fare con il mondo cinematografico degli zombi. Spiegazioni e comprensione si svolgono sul piano delle emozioni e soprattutto sulla difficoltà di esprimerle… senza troppo esprimerle.
Affronteremo un training (molto semplificato) sull’interpretazione attoriale secondo il sistema di Stanislavskij e secondo invece la teorizzazione epica di Brecht, psicologismo contro straniamento. Commenterò dei video di Kantor e presenterò la gamma delle emozioni relative alla partitura della messa in scena. Fornirò un prospetto di emozioni e sentimenti (avrò il supporto di una psicologa che in quattro lezioni guiderà i ragazzi al riconoscimento) e ne attribuiremo una scelta motivata a ogni personaggio in una data situazione.

Come avviene l’approccio al personaggio da parte degli interpreti? 
Il metodo di Stanislavskij è tutto sulle spalle dell’interprete. Suo è il lavoro di documentazione, di approfondimento delle motivazioni e delle circostanze, di ricognizione nel proprio intimo per cogliere punti di contatto nel presente e nel passato. L’attore plasma se stesso per aderire a quella che suppone essere la verità del personaggio, vissuto come potenzialmente vivo. Con una ricostruzione lenta e faticosa, egli diventa il personaggio. Ma per quanto siano consolidati i cambiamenti, supportati dalle tecniche espressive e dal make-up, egli rimane comunque ciò che era, una persona esistente che si presenta al pubblico come qualcuno che in realtà non esiste. Il pubblico ne valuta e ne apprezza la verosimiglianza e applaude però non il personaggio, ma l’interprete, lodandone la magica professionalità che lo rende un altro; allo stesso tempo, il pubblico venera il personaggio confondendo realtà e fiction, faticando a porre limiti precisi tra la persona reale e quella frutto di invenzione e interpretazione.
Dal primo naturalismo ai serial contemporanei, l’adesione totale dell’attore al personaggio si è tanto specializzata che cinema e televisione hanno rubato la scena al teatro, fornendo le migliori prove di immedesimazione, supportate dall’ambientazione e dagli effetti speciali.
L’attenzione del pubblico sull’attore è storia vecchia, risale all’età ellenistica, quando le prime corporazioni impongono nuovi gusti, modificano arbitrariamente i testi, generano il divismo a scapito dell’opera in sé.
In questa Medea l’attore non conta più del personaggio.
Anzi, l’attore deve morire.

Se vuole recuperare il personaggio dal limbo in cui si trova, se vuole sintonizzarsi, deve usare la sua stessa frequenza, e spegnere il bailamme di interferenze causato dall’energia in eccesso della vita quotidiana. L’ostacolo maggiore non è rappresentato dal disturbo esterno, ma da quello interiore. Insicurezza, ambizione, presunzione, inadeguatezza, superficialità, distrazione… tutto ciò che riporta l’attenzione sull’Io dell’interprete è causa di disturbo.
L’attore non sa ancora come si presenta il personaggio che deve interpretare, il primo passo è solo di mostrarsi accogliente, di fargli spazio nell’Ego personale, di concedergli libertà di espressione, senza giudizi morali, senza alcuna prevenzione. Il personaggio è quello che è, non risponde alle leggi civili, né tantomeno ai precetti religiosi.
Da solo, l’attore fatica a ospitare in sé un personaggio che per sua stessa natura è portato alla comunicazione e richiede quindi, anche nel caso di un monologo, referenti reali o virtuali con i quali intessere le dinamiche del dramma. Alla costruzione del personaggio sulla scena contribuiscono quindi i partner, ma non solo; anche la struttura spaziale, gli schemi di movimento, le sonorizzazioni, gli oggetti. Un personaggio non può nascere a tavolino, deve nascere sulla scena, e l’evocazione non è immediata, ma lenta, con un ritmo discontinuo, affidato sia al raziocinio sia all’intuizione, finanche al caso e al sogno.
L’esito finale non è di avere dato vita a una persona tanto credibile da poterle aggiudicare un’identità umana; ma di avere sulla scena un interprete che veicola le parole di un’entità misteriosa, a metà strada tra il mondo dei vivi e quello dei morti, che racconta una storia fuori del tempo anche se è datata, armonizzata con le altre entità che la circondano in uno spazio che non ha relazioni con lo spazio circostante, in un rapporto con il pubblico esistente ma negato.

Ho scritto che il personaggio non nasce a tavolino, ma è un’imprecisione.
Fornisco a ogni interprete il time-lapse del relativo personaggio, ossia tutte le battute in successione, la porzione di drammaturgia in ordine cronologico. Contrasta con l’intreccio, dato che la fabula è stata ribaltata ed esposta in senso inverso; ma ora non stiamo svolgendo un’indagine, bensì una ricognizione del singolo personaggio presente in tutta la sua espressività testuale.
Leggiamo, identifichiamo le situazioni, attribuiamo emozioni e sentimenti, commentiamo.
Non andiamo alla ricerca della storia esterna del personaggio, se non per documentarci su riferimenti testuali che ci colgono impreparati. Il personaggio è tutto lì, vive nelle proprie parole, prende corpo e animo da ciò che dice, è presente in toto nei dialoghi che in questa fase sono monchi, dato che sono state estrapolate solo le sue battute.
Si tratta quindi di un personaggio interamente intratestuale.
La fabula che lo riguarda, le reazioni nelle date circostanze, le aspettative e gli atteggiamenti… tutto viene ricavato dal testo.
Dal testo non si scappa, anche quando di proposito si invoca l’autonomia del teatro e lo si esorcizza con la performance, l’azione fisica, l’happening… Qualunque cosa si metta in scena essa si fa testo nella ricezione da parte del pubblico. Che se ne ricavi un testo confuso e illogico, frammentato e incomprensibile, astruso e inenarrabile non importa. In ogni caso lo spettatore tenterà di ricavare un “testo”, una storia, un accadimento, dalle emozioni e dalle impressioni ricevute.

Ma di questo si tratterà più diffusamente in seguito.

CHI FOSSE INTERESSATO AL TESTO PUÒ FARNE RICHIESTA A   quila@libero.it



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