lunedì 10 marzo 2014

IL TEATRO NEI MISTERI ELEUSINI


Parlare di teatro vero e proprio riguardo ai Misteri Eleusini è azzardato e improprio, ma cercare negli antichi misteri riferimenti che conducano a un teatro in forma di “peste” come annuncia Artaud penso che sia lecito.
Siamo alla fine dell’età del bronzo, più o meno dal 1600 a.C. fino al 396 d.C., quando il tempio fu distrutto dai Visigoti ariani di Alarico, in nome di un Cristianesimo che da tempo aveva cominciato l’epurazione e la distruzione o la riconversione di tutto quanto fosse pagano.
I misteri attraversano quindi l’età micenea, il medioevo ellenico, la grecia classica, l’ellenismo, l’età repubblicana di Roma e quella imperiale. Un lungo percorso. La segretezza imposta agli adepti e la consueta distruzione delle fonti rende esile e frammentaria la documentazione, ma a volte l’intuizione e la suggestione sono più fecondi di una cronaca dettagliata. Esse infatti consentono di interagire non solo a livello razionale, ma usufruendo della potenzialità immaginativa che stabilisce nessi inusitati.

Si fa derivare la tragedia greca, e quindi la prima forma di teatro, dal ditirambo, una performance corale di poesia, musica e danza in onore di Dioniso. Si attribuisce ad Arione di Metimna (vissuto a cavallo del 600 a.C.) il merito di avere perfezionato il testo creando uno schema metrico. Dai racconti di Erodoto e di Egino sappiamo che ebbe un grande successo perfino all’estero, in Sicilia; e che si esibiva con corona d’alloro e costume di scena: egli declamava suonando la lira e il coro riecheggiava e commentava le sue parole. Viene ricordato anche per essere stato salvato dai pirati per mezzo di un delfino mandato da Apollo. Egli, per distrazione (era un poeta!), lo lasciò morire sulla spiaggia dove si era arenato; ma al delfino sarà poi eretto un sepolcro e sarà concesso dagli dei di vivere in eterno come costellazione (anche ad Arione, insieme a Orfeo: la Lira).



Qualche decina di anni dopo, Tespi non si limitò a cantare il ditirambo ma, con l’inserimento di un prologo, del dialogo con il coro e con una struttura più narrativa, lo trasformò in un’opera rappresentata nel 534, durante le feste in onore di Dioniso. Solone, tuttavia, non gradì quella nuova forma espressiva non più strettamente legata alla cerimonia sacra: “Se noi onoriamo la menzogna nei nostri spettacoli, la ritroveremo nelle nostre promesse più sacre”. A Tespi non rimase che lasciare Atene con un carro che trasportava l’attrezzatura teatrale: la prima forma di teatro di strada. Delle sue opere ci rimangono solo i titoli: Le gare per Pelia, Penteo, I giovinetti e I sacerdoti. Dopo di lui, gli amici e allievi Frinico (inventore della tragedia di argomento storico e il primo a inserire personaggi femminili; “La presa di Mileto” gli costò una multa di 1000 dracme o per avere sconvolto il pubblico fino alle lacrime o per le sue posizioni filopersiane) e Pratina (il primo a comporre drammi satireschi), insieme a Cherilo (gareggiò con Eschilo in occasione della settantesima Olimpiade, quando le impalcature di legno per gli spettatori crollarrono), divulgarono le sue idee e apportarono miglioramenti. Di centinaia di drammi satireschi ci rimane solo “Il Ciclope” di Euripide, con coro di satiri e parodia del celebre episodio dell’Odissea. Lo schema riprende quello della tragedia, ma il linguaggio si fa più colloquiale e anche scurrile; l’ambientazione fa riferimento a banchetti e legami sentimentali. Con Eschilo (525-456 a.C.) nacque la tragedia così come oggi la conosciamo, nelle varianti stilistiche e ideologiche apportate poi da Sofocle ed Euripide.
Commedia letteralmente significa “canto del villaggio”. Questa forma teatrale sarebbe nata dalle cerimonie per la fecondità della terra, in cui si trasportava in corteo un simbolo fallico. Durante la cerimonia, i coristi camuffati da animali scambiavano battute salaci con il pubblico. Questo, d’altronde, accadeva anche durante le processioni per recarsi ai santuari dove si svolgevano i Misteri: sacro e profano si mescolavano rispecchiando la vita degli dei. Gli abitanti dell’Olimpo non erano entità contemplative, ma frementi di desideri: gradivano guerre, banchetti e sesso quanto i fumi delle vittime sacrificate sugli altari.

Tutto questo, in sintesi, ci narra di come si sia formata la forma letteraria del teatro. Esso nasce da formule rituali, da inni danzati in onore di un dio estesi poi agli eroi, da celebrazioni divine condotte in forma prima monodica e poi dialogica. Esso trova origine sia nel komos mascherato, quando i partecipanti a un corteo esprimente convivialità ed ebbrezza interpellavano in tono provocatorio e derisorio i passanti, preparando lo sviluppo del dramma satiresco e della commedia; sia nel kommos, canto lirico solista o corale che esprimeva dolore o orrore, l’acme della dimensione tragica (Archiloco: “Io so intonare il bel canto di Dioniso Signore, il ditirambo, quando nell’animo sono folgorato dal vino”).
Scribe Burkert in “La religione greca”: “Durante la processione verso Eleusi, all’imboccatura di una critica strettoia presso il ponte sul ruscello chiamato Rheitoi, sedevano personaggi travestiti in modo grottesco, che spaventavano e prendevano in giro i passanti. Anche in occasione delle feste dei Dionysia la città era attraversata da carri di persone tripudianti, da cui la gente sulla strada veniva grossolanamente insultata. (…) Come l’elemento solenne, così anche l’estremamente non solenne, il ridicolo-osceno è contrapposto al quotidiano: tra i due elementi si sprigiona una tensione quasi raddoppiata, che dà alla festa una più ampia dimensione. Così vi sono anche sacrifici, in cui si esige esattamente l’antitesi al silenzio sacro usuale: selvagge bestemmie o finti lamenti.”

Arturo Graf in “Il mito in Grecia” parla di due filoni nelle ipotesi sulla nascita della tragedia: “Quelle ritualistiche da una parte, che fissano il punto di partenza nel culto di Dioniso o degli eroi; e quelle storiche letterarie dall’altra, che partono dal ditirambo”. Questa seconda ipotesi è quella adottata da Aristotele, che fa nascere la tragedia dai poeti ditirambici e la commedia dal culto di Dioniso, come scrive nella “Poetica”. “Nata dunque la tragedia all’inizio dall’improvvisazione (sia essa sia la commedia da quelli che guidavano il coro: la prima dal ditirambo, mentre la seconda dalle processioni falliche che ancor oggi sono rimaste in uso in molte città)…”.
Scrive ancora Burkert: “I festeggiamenti dionisiaci sono riconoscibili dalle selvagge esclamazioni: soprattutto euhoì (evoe nella trascrizione latina), ma anche thtìambe, dithìrambe. (…) Il grido collettivo conduce alla soglia dell’estasi; non appena i Greci se ne resero conto sul piano linguistico s’iniziò a parlare di dei personali, antropomorfi.” (E qui si apre il capitolo dell’entusiasmo, ossia del dio dentro, con protagoniste le Muse e l’ispirazione-invasamento del poeta-profeta).
“Il danzatore, sopraffatto alla fine dalla stanchezza, si sente libero e guarito non solo dalla sua follia, ma anche da tutto ciò che prima lo aveva oppresso: è questa la purificazione con la follia, la purificazione con la musica, che avrà in seguito un ruolo tanto importante nelle discussioni sull’effetto catartico della tragedia.”
In conclusione, tutto cooperava per aprire un varco nel quotidiano, per accedere a un’altra realtà, per attingere a forze superiori grazie al camuffamento (biacca e fuliggine, maschere in stoffa e corteccia o stucco di satiri e di animali, travestimenti femminili… con effetti osceni, orrendi, comici), all’invasamento, alla trasformazione di sé in altro.
Il credente, per avvicinarsi alla dimensione del divino, e per sentirsi più simile agli dei, e per ricercare un linguaggio più adeguato, e un’apparenza che lo allontanasse dallo stato di inferiorità umano, si mascherava, camuffava volto e voce rifacendosi ai suoni della natura, ri-costruiva il corpo con movenze a imitazione di quelle animali, attingeva alle energie fisico-sessuali, trovava impeto nell’ebbrezza, fissava una soglia da oltrepassare… E poteva così dialogare con gli dei.
Il credente, per pregare, si faceva attore.
Se la dimensione religiosa si fosse dissolta, che cosa gli sarebbe rimasto? La recitazione finalizzata non più a un dialogo con gli dei, ma con gli uomini.
Solo l’ex credente ateo completa la trasformazione in attore. Altrimenti, rimane un fedele orante.

Ma non possiamo legare la nascita del teatro solo a elaborazioni letterarie (ditirambo) e ai cortei (komos). A che cosa era finalizzato il ditirambo? A quale luogo era indirizzato il corteo?
Abbiamo già visto che il ditirambo, nato come celebrazione del dio, si è allargato a celebrazione del semidio e dell’eroe, secondo una parabola che lo porta fino all’uomo. È la stessa parabola della tragedia: dal rapporto assoluto con la divinità espresso da Eschilo, alla crisi di Sofocle, fino alla scelta di Euripide di “portare lo spettatore sulla scena”, come ci dice Nietzsche che lo incolpa di dare il colpo di grazia alla tragedia con la complicità del razionalismo di Socrate.
Ma questo uomo dove va? Dove lo porta il corteo accompagnato dall’aulos?


Una delle mete più significative è il telesterion, ossia il luogo dell’iniziazione; per esempio, all’interno del santuario di Eleusi, dove si celebravano i Misteri.




Mircea Eliade, in “Storia delle credenze e delle idee religiose”, scrive che sul far della sera i pellegrini entravano nel cortile esterno del santuario. Una parte della notte era dedicata alle danze e ai canti in onore delle dee. Il giorno successivo i misti digiunavano e offrivano sacrifici. Quindi, con le torce in mano, imitavano Demetra vagante alla ricerca di Persefone. I pellegrini recitavano una parte drammatica: la perdita della figlia, la perdita dell’estate, la perdita della vita con la discesa nell’Ade; e poi una resurrezione a metà: il ciclo vitale distinto in mesi improduttivi e mesi fecondi, alternanza di vuoto e abbondanza, dolore e gioia.
Questo ci ricorda la recita del faraone nel dramma Memfitico, quando impersonava Osiride. Ora, però, il teatro sacro non è più riservato al dio-regnante, ma è praticato dal popolo; e non è scolpito in una forma immutabile, ma si trasforma nel tempo. E, soprattutto, si laicizza. In senso davvero democratico. Ai Misteri, infatti, potevano accedere tutti, dallo schiavo all’aristocratico; e il senso di ciò era che di fronte agli dei gli individui perdevano le loro connotazioni sociali.
Il filosofo Proclo ci dice che i misti incontravano la prima genesi, vedendo apparire dinanzi a loro dèi dagli aspetti molteplici e dalle molteplici forme. E questo avveniva nel telesterion, al quale le colonne davano un senso labirintico. Non si apprendeva, ma si guardava e si subiva la suggestione.
La nascita di Iacco/Bacco da Persefone: “…lo ierofante in persona… che si è reso impotente con la cicuta e si è staccato da ogni generazione carnale, di notte ad Eleusi, in mezzo alla luce delle fiaccole, nel compiere il rituale dei grandi ed ineffabili misteri, grida e urla proclamando: Brimò, la Signora, ha generato il sacro fanciullo Brimos…” (Ippolito, Confutazione).
“Gli dèi presentano molteplici forme, spesso mutando apparenza. Talvolta presentano una fiamma di forma indeterminata, talvolta una fiamma in forma di uomo, talvolta in altra forma. E ciò ci è trasmesso dalla mistagogia di origine divina” (Proclo).
Lo stesso autore ribadisce in un altro passo: “Per gli stessi motivi, nelle più sante delle iniziazioni, dinanzi alla presenza di un dio, simboli di demoni ctoni appaiono e spettacoli che turbano coloro che vengono iniziati… Così gli dèi ordinano di non guardarli prima di prima di essere fortificati dalle forze che vengono dalle iniziazioni.”
E scrive Plutarco: “Prima vi sono delle cose a caso, penosi ritorni, inquietanti cammini interminati attraverso le tenebre. Poi, prima del termine, il fragore è al colmo, il brivido, il tremito, il sudore freddo, lo spavento. Ma poi una meravigliosa luce si offre agli occhi, si passa in puri luoghi e in praterie, dove risuonano voci e danze. Parole sacre e divine apparizioni ispirano un religioso rispetto.”
Anche Apuleio ci dà una testimonianza: “Raggiunsi il confine della morte, dopo aver varcato la soglia di Proserpina fui condotto attraverso tutti gli elementi, e ritornai indietro. A metà della notte vidi un sole lampeggiante di fulgida luce. Mi presentai al cospetto degli dèi inferi e degli dèi superni, e proprio da vicino li venerai.”

Niente a che fare, quindi, con il socratismo tanto detestato da Nietzsche che attribuisce al filosofo e ad Euripide la fine della tragedia.
“… il socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso: Tutto deve essere razionale per essere bello, come proposizione parallela al principio socratico: solo chi sa è virtuoso”.
“Per opera sua (Euripide) l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura (…) Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina.”
Quel “teatro” d’iniziazione nei Misteri veicolava il cambiamento, da una vita materiale a una spirituale, dall’oscurità alla verità, dall’assurdità al significato della vita.
“…e Demetra a tutti mostrò i riti misterici,
a Trittolemo e a Polisseno, e inoltre a Diocle,
i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere
né proferire: difatti una grande attonita e atterrita reverenza
per gli dèi impedisce la voce.
Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose:
chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte
non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre
marcescenti di laggiù.” (Omero, Inno a Demetra, 476-482)
A esso sembra voler tornare Artaud: “Tutti i mezzi scientifici utilizzabili sulla scena saranno adoperati per dare l’equivalente delle vertigini del pensiero o dei sensi. Echi, riflessi, apparizioni, manichini, slittamenti, tagli netti, dolori, sorprese, ecc. Con tali mezzi contiamo di ritrovare la paura e i suoi complici” (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio).


Lo spirito della tragedia greca ha dunque attinto a quello dei Misteri: un rapporto con il divino non elaborato sui dogmi dei libri sacri e nemmeno sul razionalismo o sull’ottimismo di chi ritiene che la mente umana non abbia limiti. Ascoltiamo ancora Nietzsche: “L’elemento ottimistico, una volta penetrato nella tragedia, è destinato a invaderne a poco a poco le regioni dionisiache e a spingerla necessariamente alla distruzione di sé - fino al salto mortale nello spettacolo borghese. (…) Come appare ora, di fronte a questo nuovo mondo scenico socratico-ottimistico, il coro e in genere l’intero sostrato musicale-dionisiaco della tragedia? Come qualcosa di fortuito, come una reminiscenza dell’origine della tragedia, di cui si può benissimo fare a meno. (…) La dialettica ottimistica scaccia la musica  dalla tragedia con la sferza dei suoi sillogismi, cioè distrugge l’essenza della tragedia, che si può interpretare unicamente come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione visibile della musica, come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca.”
La tragedia come dimensione dionisiaca che risveglia non la mente, ma le potenzialità inespresse al si sotto e al di sopra della mente; la tragedia come parola che si fa musica e musica che è parola ed esprime l’indicibile; la tragedia come visione pessimistica del mondo, votato al dolore e all’impotenza; la tragedia, infine, come iniziazione, limen oltre il quale si estende la dimensione superumana degli dei e della consapevolezza nella verità realistica; come Mistero di cui si fa esperienza, non conoscenza; con la paura, la sofferenza, e la metamorfosi in altro da sé.

Eppure… basta questo a comprendere l’essenza della tragedia?
Penso che la sua essenza non si trovi tanto nella crisi del dionisiaco in favore dell’umano e del razionalismo quanto nell’inganno di fondo che sta alla base dei Misteri e di ogni riferimento divino.
La tragedia è tale perché si spinge verso la verità.
Che altro facevano, i pellegrini di Eleusi, se non quello che fanno oggi i credenti che vanno a La Mecca, a Lourdes o a Varanasi? Compiono un viaggio di speranze e di illusioni. Cercano la guarigione, l’illuminazione, la comprensione, la santificazione, la soglia per l’eternità, l’immortalità… e trovano un labirinto in cui perdersi che altro non è se non un palcoscenico. Per loro si allestisce uno spettacolo suggestivo e ipnotico, crudele e fantasioso. Essi vedono gli dei, parlano con gli dei, elevano se stessi al livello della divinità, fraternizzano con la divinità, si assicurano una vita soddisfacente e un aldilà accogliente.
Anche il teatro è finzione, ma è una finzione consapevole e responsabile che intende strappare via i veli che ricoprono la verità e mostrarla nella sua nudità tragica. La verità non è bella quanto le statue greche. Essa è piagata, consunta, afflitta, disillusa, cinica, eppure compassionevole e solidale. Essa è tragica. In ciò che appare orrendo e riprovevole la tragedia scopre una bellezza straordinaria, superiore a quella estetica fondata sul falso. La stessa bellezza della natura selvaggia.
In questo sta la tragicità della tragedia.
Nella scoperta che gli dei non esistono, che l’uomo è solo, che le sofferenze umane non hanno fine, che dopo la morte vi è un mistero ultraindividuale, che l’individuo è insignificante, che le storie individuali hanno senso solo se inserite nel flusso irrazionale della vita umana e solo se la vita umana è armonizzata con la vita del mondo.
Il percorso Eschilo-Sofocle-Euripide è un percorso doloroso di presa di coscienza che cerca una sintesi ancora da definire tra l’apollineo e il dionisiaco nietzschiani.
Di nuovo Artaud:
“O riusciremo a tornare a quel concetto superiore di poesia, e di poesia teatrale, che è alla base dei miti raccontati dai grandi tragici antichi; a ritrovare un’idea religiosa del teatro, cioè ad arrivare, senza razionalizzazioni, senza inutili contemplazioni, senza vaghi sogni, a una presa di coscienza e anche di possesso di certe forze dominanti, di certe nozioni che determinano ogni cosa; e, poiché le nozioni, quando sono efficaci contengono in sé le loro energie, a ritrovare in noi quelle energie che in fin dei conti creano l’ordine e accrescono il valore della vita – o non ci resterà altro che lasciarci andare senza indugi e senza reazioni, riconoscendo di essere ormai definitivamente destinati al disordine, alla carestia, al sangue, alla guerra e alle epidemie. (…) Propongo perciò un teatro in cui immagini fisiche violente frantumino e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori. Un teatro che, abbandonando la psicologia, racconti lo straordinario, metta in scena conflitti naturali, forze naturali e sottili, e si presenti anzitutto come un’eccezionale forza di derivazione. Un teatro che provochi trances.”
E per concludere:
“Il teatro deve farsi uguale alla vita, non alla vita individuale, a quell’aspetto individuale della vita in cui trionfano i CARATTERI, ma a una sorta di vita liberata, che spazza via l’individualità umana e in cui l’uomo non è più che un riflesso. Creare Miti, ecco il vero oggetto del teatro, esprimere la vita nel suo aspetto universale, immenso, ed estrarre da questa vita immagini con cui saremmo lieti di riconoscerci.”
“Non so chi ha sostenuto che tutti gli individui in quanto individui sono comici e pertanto non tragici: da ciò si potrebbe dedurre che i Greci in generale non potevano tollerare individui sulla scena tragica” (Nietzsche, “La nascita della tragedia).









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