mercoledì 19 settembre 2012

DA BRECHT AL TEATRO PANICO


“Tengono gli occhi fissi sulla scena come ammaliati, espressione che ci viene dal Medioevo, dal tempo delle streghe e dei chierici. Guardare e ascoltare sono attività all’occasione anche divertenti; ma questa gente sembra materia passiva. Il rapimento col quale paiono abbandonarsi a sensazioni imprecise ma violente è tanto più profondo quanto meglio gli attori sanno recitare; talché noi, disapprovando questo stato di cose, ci troviamo spinti a desiderare che recitino nel peggior modo possibile. (…) un po’ di cartapesta, un tantino di mimica, un pizzico di testo – da farci ammirare i teatranti che, servendosi di così meschini ricalchi, riescono a commuovere i loro rapiti uditori ben più violentemente di quanto non riesca a commuoverli il mondo stesso. (…) La sola cosa importante per gli spettatori di questi teatri è di poter scambiare un mondo contradditorio contro un mondo armonioso, quel mondo che si conosce assai poco contro un mondo che si può sognare.”
(B. Brecht, "Scritti teatrali. Breviario di estetica teatrale", Einaudi)

Il teatro di straniamento di Brecht adotta tecniche per attivare lo spettatore, ipnotizzato dall’immedesimazione e dalla catarsi. Il teatro lo inchioda alla poltrona con le emozioni, ammaliandolo con un mondo fittizio rappresentato per il suo piacere. Brecht lo vuole invece vigile, osservatore attento, critico, consapevole, disponibile all’apprendimento, curioso verso la scoperta e la verità.

Ma rimane qualcosa da rivelare allo spettatore ignaro? Ora che le grandi rivoluzioni sociali sono naufragate e che le destre e le sinistre s’incontrano in un’area moderata ambigua e indefinita, che cosa può insegnare, il teatro? A essere critici verso la realtà? Siamo bersagliati ogni giorno da opinionisti, documentaristi, politici, giornalisti… A distanza di un clic abbiamo non una, ma mille verità tutte plausibili e alcune delle quali perfino oneste. Nella nuova Babilonia tutti hanno un parere e una visione di vita e nessuno se la tiene per sé. Che cosa deve fare, il teatro? Tuffarsi nel carnaio dei nuovi profeti? Per dire che cosa?

Il pubblico ha la possibilità di entrare ovunque, con l’informazione massmediale. Televisione e internet gli spiattellano ogni giorni segreti intimi, rivelazioni scandalose, scoperte epocali, disillusioni e utopie, discorsi origliati, immagini rubate… Il pubblico reclama il diritto di tutto sapere, tutto guardare, tutto sentire, tutto toccare con mano. Ama indignarsi, commuoversi, infuriarsi, odiare, venerare. Il diritto di cronaca. La possibilità offerta a chiunque di sentirsi un esperto diventa fenomeno di massa. Tutti sanno, tutti vogliono sentenziare, tutti giudici ma non di sé stessi, tutti boia. Tutti detentori di diritti ferrei, con pochi doveri flessibili. Ma anche: tutti hanno ormai la possibilità di orientarsi nel caos del mondo. Perché non lo fanno? Preferiscono pregiudizi, superstizioni, fanatismi, schizofrenie e paranoie.

A costoro il teatro dovrebbe offrire ulteriore accoglienza? Farsi maestro per sentirsi insultato dagli allievi? A costoro il teatro offre l’estraneità, non lo straniamento. Il pubblico è presente per gentile concessione della compagnia. Gli attori fanno un’apparizione panica, che pone sé stessa al di sopra delle opinioni e delle verità presto consumate. L’apparizione di un dio con l’atteggiamento distaccato dell’animo puro che non si fa corrompere dalla massa. Un’apparizione che sorprende, sconcerta, spaventa. Un’apparizione, soprattutto, sulla quale il pubblico non può mettere le mani. Non c’è un telecomando. Nemmeno un direttore di giornale prezzolato. Non c’è corruzione che tenga e nemmeno c’è la forza deterrente del giudizio. Il teatro panico non si riflette nell’applauso, ma solo in sé stesso.

Il teatro panico afferma la propria libertà d’espressione, la propria purezza d’intenti, nell’ambito dell’estetica teatrale e della potenza di comunicazione della parola, e si propone come voce fuori del coro. In questo sta la sua eticità. Nel mettere in scena un recupero dell’arte non moralistica e non meretricia. Al pubblico non si chiede di immedesimarsi o di partecipare, ma di sentirsi estraneo in una vicenda alta. Un rito di interiorità trascendente per una platea immersa nel caos rassicurante. Un ordine e una limpidezza delle cose che inquieta e infastidisce. Una proposta ad affrontare l’immediatezza della natura panica per avviare un percorso di ricerca.


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