domenica 14 aprile 2013

"DEATH WATCH" ALL'IMPROVVISO



L’improvvisazione di cui faceva uso la Commedia dell’Arte non era certo invenzione di intreccio e allestimento estemporaneo di un’opera teatrale. Essa era prerogativa del teatro di ruolo, lo stesso ripudiato da Goldoni in cerca di una naturalezza realistica che non risultasse manierata. L’attor giovane, per esempio, che sosteneva la parte dell’innamorato, si costruiva un bagaglio tecnico e letterario di atteggiamenti, pose, gesti, modi di dire, vocalità caratteristica e modi di pensare dal quale attingeva durante le situazioni previste dal canovaccio.

Il recitar all’improvviso non era realizzato quindi sul vuoto, ma su una cultura di storie e personaggi tanto più ricca quanto più l’attore era bravo. L’improvvisazione è poi entrata a far parte delle “materie” di studio di tante scuole di teatro, ha avuto periodi di moda, è praticata da teatranti che operano in stile “corporeo o circense o d’avanspettacolo o di varietà eccetera” (a volte non si capisce quale sia la contaminazione e molte filodrammatiche mescolano reminiscenze oratoriane con il cabaret). “Ma tu” mi chiedono, “non lavori con l’improvvisazione?” E sono pronti a scandalizzarsi se il mio teatro è dogmatico, preciso nella tecnica, registico, una partitura.

A volte quella che viene definita “improvvisazione” si rivela un intruglio caotico, dovuto alla carenza di preparazione e di idee. Con questo, non si nega la validità di una tecnica che può arricchire in modo unico uno spettacolo. “Death watch” è pronto, manca solo qualche rifinitura. Ben poco è nato dall’improvvisazione. Un’improvvisazione stabilita dal regista per brevi quadri, quando dubbi o vuoti creativi spingevano ad attivare l’intraprendenza degli interpreti (li chiamo “agonisti”) intorno a idee vaghe.

Alla prima prova generale, mi sono reso conto di alcuni interventi spontanei causati anche dalla fatica di una concentrazione forte (ritmo sostenuto, interazioni continue, parola agita e non solo recitata). Si trattava solo di esclamazioni o di gesti e movimenti sfuggiti al controllo. Ma avevano un’importanza enorme. Segnalavano il momento opportuno per avviare un percorso di improvvisazione. Eccola qua, l’improvvisazione. Non a monte, ma a valle. Non per inventarsi uno spettacolo, ma per dagli la profondità individualizzata. Per dare una spinta all’attore-interprete verso la dimensione di attore-performante o attore-sacro o attore-officiante delle avanguardie di inizio secolo XX; per consentire all’agonista di fare propri il testo estraneo e anche la regia estranea, pitturando con la propria individualità e personalità una messa in scena finora imposta.

Con la prossima prova, quindi, concedo maggiore libertà all’agonista, con le seguenti raccomandazioni: fa’ ciò che ti mette a tuo agio, esprimi con parole e gesti ciò che il testo ha mosso dentro di te, opera variazioni sulla messa in scena acquisita senza però stravolgerla, proponi ritmi, azioni-reazioni, tutto quello che ti viene in mente durante la recitazione; ma senza fermare la rappresentazione; agisci nel suo flusso, all’istante. All’improvviso. Sfruttando il bagaglio di conoscenze che il lavoro di allestimento (di memorizzazione, vocalità, movimento e gestica) ti ha fatto acquisire. Sfruttalo per “improvvisare” le tue reazioni personali e spontanee.

La settimana prossima vi sveliamo che cosa abbiamo tratto da questa improvvisazione post-opera.

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