venerdì 12 aprile 2013

PASSEROTTI 11


Uno dei principali dibattiti, e forse il più stimolante, alla sorgente del teatro di tutti i tempi, riguarda l’attore. Su che cosa deve basarsi il suo mestiere? Su doti come naturalezza, spontaneità, realismo, immedesimazione? Oppure su tecnica, finzione, simbolismo? La questione è stata ripresa nel Settecento da Denis Diderot nel suo famoso “Paradosso sull’attore”, con il quale smaschera gli attori che a ogni replica “scompaiono” nel personaggio e suggerisce una interpretazione mentale preparatoria della performance. Un dato è certo: il pubblico preferisce il teatro realistico, nel quale gli attori sono i personaggi. Oggi, viviamo ancora dell’eredità del teatro borghese ottocentesco, tutto fondato sul Grande Attore, nonostante gli assalti portati da: Dada, Futurismo, Simbolismo, Teatro Epico, Biomeccanica, Supermarionetta eccetera. Il loro apporto, tuttavia, non è stato certo inutile e continua a fornire idee e a stimolare la ricerca.
Questo dibattito vede contrapposti due grandi teorici russi, Stanislavskij e Mejerchol’d. Il primo enfatizza il realismo con un sistema fondato su Reviviscenza e Personificazione che negli Stati Uniti si trasforma nel Metodo di Strasberg. Nel suo Actor’s Studio passano Paul Newman, Marlon Brando, James Dean, Jane Fonda, Dustin Hoffman, Al Pacino, Jack Nicholson, Robert De Niro… mostrando quanto il sistema sia più adatto al cinema che al teatro (quale attore può reggere la tecnica della personificazione per una o due ore? Il cinema è invece parcellizzato in scene e l’attore, tra un ciak e l’altro, ha modo di concentrarsi sul ruolo).
Mejerchol’d (allievo di Stanislavskij) contro il naturalismo intende riportare sulla scena la sorpresa e l’artificio, il gioco e il colore, la dimensione del circo e della Commedia dell’Arte, insomma l’immaginazione con i suoi simboli e la sua libertà espressiva, sottolineando la teatralità e rifiutando la copia realistica della vita quotidiana.
Negli ultimi anni, però, Stanislavskij rivede le proprie convinzioni e in parte sconfessa il sistema. Ora vede la recitazione non più come movimento dall’interno (la ricerca di un binario parallelo, di memoria emotiva, a quello del personaggio) verso l’esterno, e cioè verso l’adeguamento del corpo alla ricostruzione interiore. Ma come un movimento dall’esterno all’interno. Privilegia, quindi, il corpo come gestica, movimento e voce. Se l’attore comincia a muoversi, a gesticolare, a parlare come suppone che possa fare il personaggio, l’anima del personaggio gli si offre nella sua verità.

Questo è il metodo di lavoro che ho seguito con i bambini di “Dietro la porta”.
Come si fa a parlare a un bambino di ruolo, personaggio, identificazione? Se pensiamo al gioco “facciamo finta che io sono…”, ci rendiamo conto che il bambino più che essere agisce. Egli è ciò che fa il personaggio, non ciò che è.
Se quindi un bambino deve esprimere un carattere e assumere un’identità diversa dalla propria, la strada per l’interpretazione parte dal corpo. La propedeutica è il movimento nello spazio, la relazione con lo spazio e con i partner, addirittura la relazione con sé stesso, dato che il bambino ci si presenta spesso frazionato (ma questo vale anche per l’adulto). Mente e corpo separati, abilità settoriali, scarsa coscienza di sé nell’unità, difficoltà motoria…
La musica è essenziale per avviare un percorso di presa di contatto e di padronanza di sé come corpo e voce. Aiutano anche le filastrocche, dato che introducono alla scansione e aiutano, nella coralità, a sentirsi più sicuri nei primi approcci con un uso della voce inconsueto e controllato.
Altri stimoli, visivi o sonori, possono facilitare prestazioni corporee che all’inizio risultano ostiche, manifestandosi come disarmonia, scarso senso di orientamento, insicurezza, scarsa fiducia nelle potenzialità fisiche.
È un percorso che conduce dapprima a familiarizzare con spazio, oggetti e persone; poi ad affrontare sé stessi per vincere le resistenze emotive; infine a delineare i primi elementi identificanti (a livello di bambini di nove anni) di un “personaggio”.
Dall’esterno, quindi, e cioè dal movimento, dalla gestica e dall’espressività vocale all’interno, e cioè nel mondo delle emozioni, dei sentimenti, della memoria e della visione del mondo.
Tra il corpo e l’interiorità si stabilisce un fluire energetico circolare, per cui l’arricchimento è reciproco.
Un teatro, infine, che non si ferma alla sfera del divertimento. Non propone un consumo (come avviene con certa televisione e certo cinema e anche certa letteratura) improduttivo, ma una partecipazione coinvolgente che attiva e riattiva, e (ri)costruisce non solo un personaggio, ma lo stesso attore che lo interpreta.

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