giovedì 9 maggio 2013

CHE COSA ABBIAMO IMPARATO DA “DEATH WATCH”


L’OPERA
“Death watch” è sulle scene, portato da Tecneke. Un gruppo di ragazzi dai 14 ai 18 anni.
Si tratta di un monologo. Piuttosto lungo. L’ho ridotto, ma non stravolto nella struttura. Non c’è problema nella riduzione di un testo linguistico per ricavarne il testo scenico. Nella mia scrittura (quella attuale, inedita, tre opere che segnano una svolta), prevedo una messa in scena virtuale che avviene nella mente del drammaturgo. Tutto vi è delineato, ma niente vi è materializzato, in uno scenario simile a quello del sogno. La messa in scena reale, a opera del regista, non crea conflitto. Per l’autore la drammaturgia si è già conclusa e ciò che avviene sul palcoscenico non è più di sua competenza. Viene eliminata la dicotomia insanabile che ha fatto ammattire Pirandello. Vengono negati i “diritti morali”. La drammaturgia da palcoscenico è libera per tutti.
Il monologo racconta in prima persona le ultime ore di un condannato a morte. L’argomento non ha condizionato più di tanto la messa in scena. Angoscia, protesta, dolore, dignità e ingiustizia sono già nel testo, non occorre creare un’ulteriore struttura registica per rimarcarle. Il testo chiede solo di essere vissuto da un attore che reciti e si muova sulla scia di un cantante-danzatore.

GLI ATTORI E I PERSONAGGI
Un monologo, un personaggio, un attore. Il monologo è stato invece affidato a tre interpreti più due musicisti e una figura femminile. Ognuno dei tre interpreti è il protagonista Zaccheo, e anche la guardia, il vicino di cella, il giudice… La voce del protagonista rimbalza da una gola all’altra, diventa una molteplicità di voci che tolgono senso alla sua individualità e lo fanno diventare molti, tutti. Ognuno è Zaccheo, ognuno è nella cella della morte. Fin dall’inizio ho rifiutato, nonostante le perplessità dei ragazzi, ogni indagine psicologica e ogni tentativo di recitazione mimetica. Mi è capitato di sentire leggere il monologo da attori dilettanti con anni di corso sulle spalle: un impeto e una visceralità che invece di facilitare la comunicazione la rendono ostica, erigendo un muro di espressività sovrabbondante e di falsità involontaria che taglia fuori il pubblico da ogni empatia. Ho invece cercato il ritmo della situazione, espresso dalle musiche originali al computer di Lorenzo e alla chitarra e bongo di Carlo; e condiviso dalla parola in movimento, in una coreografia continua che fondesse parola, musica e corpo in uno spazio vivo.
La mimesi non è rifiutata in nome di un astrattismo difficile da reperire con un testo letterario tradizionale; accanto a esacerbazioni vocali, si ascoltano i toni consueti della comunicazione, dal proclama alla narrazione, dal dramma allo sfogo accorato. Una struttura verosimil-naturalistica nella quale s’inseriscono espressioni verbali spazializzate che si accordano allo stato d’animo situazionale, con il doppio riferimento alla realtà interiore e a quella ambientale. 
Svincolare l’attore dal personaggio, renderlo disponibile a interpretare più personaggi e situazioni diverse, ci ha consentito di lavorare molto sulle dinamiche a tre. Abbiamo tolto l’attore dalla prigionia dell’interpretazione unica, facilitandogli il processo di rimanere sé stesso pur diventando un altro, aiutandolo a costruire la partecipazione attiva, sulla scia delle azioni fisiche di Grotowski, senza lasciarsi assorbire dall’immedesimazione. Ricorrere alla tecnica per rivivere con il corpo emozioni e sentimenti. Un modo di recitare ritmico e collettivo che porteremo nella prossima produzione (si spera Caligola di Camus), approfondendone i principi: controllo motorio, relazioni mutevoli con i partner, brusche variazioni di interpretazione e ruolo, attenzione costante al ritmo.
Che cosa abbiamo imparato? Che una interpretazione tradizionale, da teatro mimetico, da Grande Attore ottocentesco (mai estinto) avrebbe portato saturazione, noia, rifiuto di ascolto. Rifacendo il verso a televisione e cinema. Che un testo in apparenza “pesante” viene alleggerito, nella sua ricezione da parte del pubblico, dal ritmo e dal movimento e dalla flessibilità della voce. Che l’abbinamento personaggio-interprete può essere rivisto e diventare personaggio-interpreti o personaggi-interprete. Che l’immedesimazione nel personaggio può essere frammentaria e discontinua e comunque non impedisce il controllo di sé e sull’ambiente. Che tanto e tanto c’è da imparare sulle azioni fisiche legate alla visione dell’attore/danzatore di Artaud, Mejerchol’d, l’ultimo Stanislavkij, Grotowski, Barba… e tanto da imparare anche sulla voce. E anche sulle complicità, sulle cooperazioni, sui sottili legami espressivi che tendono a compattare tre interpreti in uno solo, senza alcuna invadenza della privacy reciproca, senza prevaricazione psichica. L’unificazione delle diversità avviene nella fede comune nel gioco, e nella convinzione che nessuno, da solo, può portare a compimento ciò che va fatto insieme.

LO SPAZIO
Il palcoscenico è costituito da un tappeto nero in pvc di quattro metri e venti per due e dieci. Minuscoli segnalini delimitano lo spazio individuale: una cella di un metro e quaranta per due e dieci. All’inizio, le celle hanno i muri, segnalati dal gioco mimico. A un certo punto lo spazio si amplia: le docce, le celle contigue, sopra e sotto e di lato e di fronte, la stanza dei visitatori… Le pareti scompaiono, i tre detenuti Zaccheo passano da una cella all’altra. La loro voce raggiunge i compagni di morte, il giudice, il pubblico che assiste all’esecuzione, l’umanità intera. Uno spazio, quindi, che da claustrofobico si fa cosmico. Non ci sono oggetti di scena. Solo tre palline da bouncing. E la sedia, che la madre porta in scena per assistere allo spettacolo da un punto di vista contrapposto, con il viso al pubblico, facendosi lei stessa spettatrice, presenza muta: osserva i detenuti Zaccheo e vede la gente che osserva i detenuti Zaccheo e lei. Lo spazio si annulla nella scena finale, quando i tre attori si spogliano e lasciano nelle celle le tre tute arancioni; diventa lo spazio della morte; e poi lo spazio del compianto quando la madre s’inginocchia con una tuta in grembo.
Abbiamo imparato che non serve scenografia per costruire l’ambiente della prigione. Sono sufficienti le mani che costruiscono i muri e le suggestioni della parola in movimento e della musica che ritma il corpo. Abbiamo imparato che un oggetto in scena dev’essere utile e utilizzato. Viene inserito per essere usato, non per motivi estetici. E che un costume (in questo caso le tute arancioni) può fare spettacolo in assenza di scenografia, sia per il colore sia per il distacco che crea dal vestito quotidiano. Anche in questo caso, la visione non è statica, non è il bel quadro estetico di Diderot, ma è dinamica: parole, volumi e suoni in movimento.
Tutto ciò che manca sulla scena (cella, sbarre, branda, sgabello, wc, lavandino, scatole…) non crea un vuoto, ma uno stimolo invisibile a ricreare lo spazio con l’immaginazione. L’attore viene spinto verso una rappresentazione mentale e virtuale, nella quale la consapevolezza della situazione viene eccitata e fortificata. Paragono questa scelta alla dinamica del mimo (vedi Decroux e teatro orientale e in genere il teatro che Barba chiama eurasiatico nella sua ricerca di antropologia teatrale) che effettua un’azione avviando l’azione contraria e assorbendola poi in quella da portare a termine. L’inconciliabilità dei contrari, la chiama Alfio Petrini. Sfruttare sia la presenza sia l’assenza. Ecco, abbiamo imparato che il teatro è povero. Fa a meno di lustrini e finzioni scenografiche e il poco che utilizza lo carica di simbolo. Abbiamo imparato che tutto il nostro teatro sta in un bagagliaio: tappeto, tute, computer, chitarra, bongo… E che non abbiamo bisogno di un edificio teatrale, per rappresentarlo. Ci basta un salone con una presa di corrente. Possiamo utilizzare anche le luci di sala. Un teatro con poche esigenze.

IL PUBBLICO
Abbiamo imparato che il pubblico non esiste. Per essere precisi, esiste solo quando vogliamo noi. Gli interpreti non si pongono problemi di comunicazione e di relazione con un gruppo di spettatori seduti di fronte a loro. Immaginano un pubblico circolare e spettrale, che non può interferire con il loro gioco teatrale perché è lontano e invisibile. La situazione è quella di un gruppo di bambini concentrati in un gioco talmente intenso che perdono ogni contatto con la realtà. Non vedono chi li vede e li osserva, non hanno coscienza del tempo che scorre, vivono in uno spazio-altrove, stabiliscono tra di loro relazioni inusuali e immaginarie, comunicano anche con filastrocche, movimenti simili a una danza, vocalizzazioni inconsuete. A un tratto, decidono di levare lo sguardo sull’adulto che li spia, ed è uno sguardo alieno, che viene da un altro mondo, uno sguardo superiore, quasi inquisitorio. Non si aspettano commenti al proprio gioco, non ne vogliono proprio. Il loro gioco è segreto e riservato, non vogliono farne partecipi gli altri.
Gli interpreti di “Death watch” sono liberi di orientarsi in qualsiasi direzione, di recitare con le spalle al pubblico, di muoversi in una bolla che non ha più punti cardinali. Si tratta, più che di una consegna rigida, di una forma mentis che li libera dall’oppressione dello sguardo che osserva, giudica, critica. A loro non interessano né critiche né consensi. Non danno alcun valore all’applauso. Non considerano gli spettatori come persone presenti, ma come simulacri che rappresentano l’umanità. Sono gelosi del proprio gioco scenico e non ne fanno partecipe nessuno. Lo spettatore può solo spiare.
Si tratta di un rifiuto del pubblico? No, vale ancora il principio di attivare mediante il contrasto, di fare uso degli opposti senza eliminazioni, di attivare il pubblico non con un invito esplicito (che spesso genera invece opposizione o indifferenza) ma con la mancanza di ogni tipo di attivazione, che è invece nelle aspettative. L’attore si pone su un piano superiore, dal quale inverte il rapporto consueto: è lui a osservare, senza guardarlo, il pubblico (la funzione della madre e dello sguardo diretto dei tre interpreti); è lui a relegare gli spettatori su un palcoscenico e a giudicare la loro rappresentazione, cioè la loro vita.
Abbiamo, insomma, imparato che quanto avviene sulla scena è di pertinenza nostra, un gioco esclusivo di comunicazione indiretta. Allo spettatore arriva, di riflesso, ciò che è già arrivato agli attori. Abbiamo imparato che lo spettacolo non consiste nel rapporto dell’attore con il pubblico, ma in quello del pubblico con l’attore. Spetta allo spettatore relazionarsi e attivarsi per cogliere un significato estetico ed etico di ciò che vede. Non gli sono concessi né applausi né interferenze di altro tipo. Il flusso di recitazione lo investe senza soluzione di continuità. Se vuole rendersi “utile”, il pubblico deve vincere l’inerzia e stabilire un contatto di propria iniziativa. Ciò a cui assiste è un gioco rituale e non può parteciparvi, ma può desiderare di farlo.

   

Nessun commento: