venerdì 10 gennaio 2014

SULLE ORIGINI DELLA DANZA

Lucia Mattera
In scena…passo dopo passo

Una sintesi (senza le note, di un testo efficace sulla storia della danza, che trovate completo online a La danza di L. Mattera)

“C’è chi dice che la danza sia antica quanto il mondo: gli ebrei danzarono dopo il passaggio del mar Rosso e attorno al vitello d’oro; Socrate danza ancora in tarda età; i soldati spartani danzavano all’assalto, ritmando passi di danza sul battito di scudi”: così Fertiault, in un suo saggio, riconosceva l’universalità della danza come suprema - e insieme indefinita - forma espressiva, indicandone, attraverso esempi significativi, quelle che saranno le funzioni e le occasioni specifiche presso i diversi popoli e le rispettive civiltà.
Ma per comprendere il ruolo della danza occorre partire da un passato più lontano, dalle radici remote della storia dell’umanità. Forme organizzate di danza si rinvengono, difatti, già presso popoli primitivi, legate a occasioni probabilmente sacrali: a suggerirlo le figure elementari di passi e movenze secondo schemi lineari o circolari, al pari della disposizione dei danzatori intorno a pietre sacre, intese come templi ed altari.

A uno stadio più avanzato, i movimenti, i passi, perdettero a poco a poco la loro funzione “imitativa”, divenendo più composti e ordinati: dal primitivo cerchio si passò alla fila, alla serpentina, alla spirale, ai gruppi di tre, alla coppia e alle esibizioni singole. Lo schema circolare, già presente nel paleolitico, costituì probabilmente il precedente di quella che più tardi, già in epoca ellenica, si affermerà col nome di “carola”; quello lineare, più recente ed aperto a rielaborazioni, si impose, col tempo, in occasioni di sacre o profane celebrazioni.
Al Paleolitico risalgono, altresì, le danze astrali, di fertilità, falliche e funebri; a epoche più tarde e prevalentemente al neolitico danze profane di corteggiamento, del fuoco, guerriere e del ventre. Generi e sottogeneri che vedranno una contemporanea fioritura nelle diverse civiltà storiche che si andranno ad esaminare.
EGITTO



Nell'Antico Egitto la danza fu un'attività tanto rituale quanto celebrativa, o semplicemente ludica, che accompagnava banchetti, feste e cerimonie religiose. Le prime testimonianze di danza risalgono al Periodo Predinastico (VI-IV millenio a.C.): si tratta di vasi con figure femminili con le braccia alzate sopra la testa, e statuine in terracotta nella medesima posizione. Per i periodi successivi numerose scene di danza, maschile e femminile, vengono raffigurate sulle pareti delle tombe.
Particolarmente frequenti sono le rappresentazioni di danzatrici: il più delle volte sono raffigurate ragazze che danzano a coppie o in gruppo, compiendo movimenti delle gambe con il busto piegato in avanti e la testa inclinata. In numerose raffigurazioni le danzatrici compiono movimenti acrobatici e ginnici. In un “ostrakon” del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) conservato al Museo Egizio di Torino è ritratta una giovane che si flette all'indietro toccando il suolo con la punta delle dita, mentre nelle raffigurazione della tomba di Kheti, a Beni Hasan, un gruppo di fanciulle svolge una serie di salti e capriole.
A ravvivare il ritmo, era di solito il battito di mani; corone di giunco, pesi oscillanti attaccati alle trecce esaltavano le armoniose movenze di flessuose danzatrici, nude o coperte da abiti succinti (a volte trasparenti) con nastri e catenelle avvolte intorno al ventre.

LA DANZA GRECA
  

Un nesso indissolubile legò la lirica, dunque la magia della parola e del suono, all’armonia e all’espressività di gesti e movimenti, tanto che i poeti greci che recitavano o cantavano i loro versi danzando furono chiamati “danzatori”. Pindaro, del resto, definisce “danzatore”lo stesso Apollo e Omero narra nell’Iliade che Vulcano, il divino zoppo, cesellò sullo scudo di Achille una danza simile a quella che Dedalo aveva inventato per Arianna.
Vi erano rappresentati delle fanciulle e dei giovani intrecciati in un passo cadenzato, a imitazione del moto circolare di una ruota. Le fanciulle, coperte con un velo leggerissimo, e i giovani, lucenti per l’olio di cui si erano cosparsi, vestivano una tunica e portavano la spada con l'impugnatura d'oro e pendagli d’argento.
Mitologia a parte, attestazioni sulla danza e del suo ruolo in Grecia ci vengono sia da storici e trattatisti sia dagli stessi poeti lirici.
 Platone parla della danza nelle Leggi e nella Repubblica (IV sec. a.c.) e ritiene che abbia origine dal desiderio spontaneo del corpo dei giovani di muoversi; istinto tipico degli animali, ma che solo nell’uomo assume una forma ordinata e consapevole, grazie al ritmo e all’armonia. Il filosofo distingue, infatti, tra danze “buone” e “cattive”: le prime sono le danze armoniose, severe e gravi, che hanno come loro fine la bellezza e la bontà (ciò che è buono è anche bello); le seconde sono danze deformi e indecenti, che imitano il brutto e il ridicolo.
Analogamente per Luciano da Samosata, autore di un trattato su questa disciplina, la danza non entrò a far parte dei giochi olimpici solo perché i Greci temevano di non trovare premi degni di essa. Lo stesso attribuisce la sua origine all’intento di imitare i moti armoniosi degli astri e dei corpi celesti. Essa è, dunque, un dono delle divinità perché il kosmos, ovvero l’equilibrio e l’armonia, si diffondi nel mondo, ne informi passioni, sentimenti, che il danzatore ha il dono di illustrare, a sua volta, tramite gesti e movimenti.

Così, in una scena da lui descritta, il giovanetto danza col vigore della gioventù e il suo ballo consiste in passi militari, preludio dei movimenti che dovrà poi fare quando sarà al campo; la ragazza, invece, indica alle sue compagne come danzare, in modo che la danza risulta nel complesso una unione di forza e modestia. Su tale concezione insiste anche Erodoto a proposito del banchetto dato dal tiranno Clistene con lo scopo di scegliere un futuro sposo per sua figlia, la bella Agariste. In tale occasione, tutti i pretendenti dovevano esibire le loro qualità musicali e sociali; Ippoclide, il favorito di Clistene, racconta Erodoto, che si esibì proprio in una danza che in questo caso fu talmente lasciva da costargli la sposa. Attestazioni sulla danza, nel suo duplice valore etico ed estetico, ci vengono altresì dai lirici, sia che si tratti di fuggevoli visioni di balli festivi sia che si sintetizzi la sua intima essenza in incisive definizioni.

Gli Elleni, dunque, godevano di tali spettacoli, accogliendoli come espressione artistica associata ad esibizioni ludiche, non mancando l’elemento di stravaganza e provocazione nonché quello erotico.
Va però precisato che essi non conoscevano la danza di società nel senso in cui la intendiamo noi: inizialmente si danzava in gruppo o da soli, mai in coppia, e solitamente ragazzi e ragazze, reclutati soprattutto dall’Arcadia, si esibivano separati.
Ancora pitture e bassorilievi di bronzo e di marmo ci informano di gesti, occasioni, costumi e valenze simboliche delle tre principali tipologie: la danza sacra, la profana, la danza militare parenetica o con funzioni di celebrazione. Se ne offre qui una sintetica ma esaustiva descrizione.

Danze militari

 Tra le danze militari, la pirrica fu adottata dagli Spartani che la trasformarono in vera e propria danza di preparazione al combattimento. Platone, partendo dall’etimologia del nome (“pyrrìchios”, danza rossa) ne attribuisce l’origine alla dea Atena. La danza pirrica ebbe però il più grande sviluppo nella città di Lacedemone (Sparta), capitale della Laconia. Probabilmente derivata dai riti organizzati per celebrare le vittorie di guerra, veniva eseguita da giovani, sia individualmente che in gruppo, con armi e armature, che simulavano le posizioni di attacco e di difesa, accompagnati dalla musica del flauto. Questa danza aveva però anche lo scopo di esercitare i combattenti aumentandone l’agilità prima della battaglia stessa in cui dovevano confrontarsi con il nemico. Il capo dei guerrieri era infatti anche il capo dei danzatori. 
Più tardi divenne una pantomima di imitazione del combattimento, più vicina a una forma di spettacolo. Platone nelle “Leggi” descrive questa danza come una mimica guerriera che rappresenta i differenti momenti del combattimento; iniziava con alcune parate eseguite sia tornando indietro lateralmente, sia indietreggiando, sia saltando, sia abbassandosi. Era eseguita sia da danzatori singoli sia da due danzatori che si opponevano l’uno all'altro, sia in gruppo numeroso. In questa forma si trattava di una danza schermata, o meglio, di una scherma organizzata coreuticamente che introduceva una nota di virile bellezza nelle feste spartane dei Dioscuri e in altre feste come le Gimnopedie e le Grandi e Piccole Panatenaiche.  


Gli storici raccontano che gli eserciti spartani entrassero in battaglia con un tipo di marcia che corrispondeva a una danza. Fra le danze guerriere, si ricordano ancora la “xiphismòs” (danza con la spada) e la “thermastrìs” (danza dai movimenti convulsi).

In parallelo alla civiltà ellenica, la danza militare trovò inoltre notevole riscontro in aree geografiche, per lo più dell’Asia, con cui la Grecia ebbe contatti non soltanto culturali. Nell’”Anabasi” di Senofonte (VI, 1, 2-13) si legge, ad esempio, di uno spettacolo improvvisato che danzatori greci offrirono, per sancire la pace, a dignitari Paflagoni sulla costa del Mar Nero. Tra le danze descritte, quella “delle spade”, ancora oggi comune nel mondo balcanico e medio-orientale, in cui le spade, virtuosamente volteggiate, fendevano l’aria tra canti militari. Al termine di un mimico duello, il ballerino “morto” era condotto via, spogliato delle armi. Più vivaci e originali le danze successive, come ad esempio la “carpea”, propria della Tessaglia, con due attori-ballerini nelle parti rispettive di un ladro astuto e di un soldato contadino. La danza poteva essere conclusa con la vittoria del ladro che imbavagliava e depredava il contadino (finale presentato con successo in quella occasione) o con la cattura, al contrario, del malfattore, colto in flagrante nell’atto di rubare i buoi. A concludere il gradito spettacolo, un ballo misio con scudi, fatto di salti, piroette e movenze difensive, altre danze militari, dell’Arcadia e di Mantinea, al ritmo di flauti e battiti di scudi, e l’improvvisa apparizione di un’agghindata ballerina, che suscitò tra i compiaciuti Paflagoni un’entusiastica ammirazione!

Legate a occasioni svariate, che vanno dalle feste alle rappresentazioni teatrali, le danze non legate in esclusiva a vincoli sacri riconducono le loro origini e caratteristiche a vicende mitologiche nonché ad aspetti della natura e della quotidianità.
Tra le danze cosiddette “allegre” si ricorda la “diploia”, in cui le cadenze erano sostenute con la voce; l’“ephilema”, costituita da una specie di girotondo cantato e accompagnato dalla musica. Una struttura più articolata presentava la “Niobe”, una vera e propria coreografia divisa in cinque atti (preludio, sfida, combattimento, tregua e vittoria).
Particolari per l’originalità dei temi, la “chreon apokopè”, in cui veniva rappresentato il taglio delle carni; le “Hypogones”, imitazione di vecchi curvi sui loro bastoni; il “nibadismos” , con movenze simili ai balzi delle capre.
Ogni città greca aveva, inoltre, la “danza Bucolica” e la “danza dei Fiori.” Fra le più rinomate vi erano poi la “danza delle Ninfe”, la “danza del Giavellotto”, la “danza degli Elementi” e quella “delle Vergini schiave”. Una danza rustica molto particolare era quella dedicata a Bacco, in cui i ballerini dovevano saltare su otri pieni d’aria e unti con l'olio, affinché scivolassero.
Ancora agli animali si ispiravano la danza “degli uccelli migratori” (a inventarla fu forse Teseo ) e singole movenze che ne imitavano l'andatura, come il passo del gufo, dell'avvoltoio, della civetta, della volpe.

Danze profane 


Coloro che accompagnavano le danze dando il tempo ai ballerini battendo i piedi (accelerandolo o rallentandolo a seconda delle situazioni) erano muniti di sandali di legno o di ferro, più o meno pesanti a seconda dell'effetto che si voleva ottenere. Per le cadenze leggere invece battevano le mani una contro l’altra, con gusci d’ostriche o conchiglie.  
Ricordi di queste e simili tipologie di danza si riscontrano anche in attuali balli popolari. L’attuale “sousta”, per esempio, deriverebbe dalla danza eseguita da Achille intorno alla pira del defunto Patroclo, per quanto, eseguita nelle piazze dei villaggi, si connoti piuttosto come ballo d’amore. Lo “tsakonikos”, ovvero “ danza del labirinto”, sembra invece conservare il legame originario col mito di Teseo e del Minotauro, mentre la “mirologhia” mira essenzialmente, in un contesto funebre, al ricordo e alla celebrazione. Il tutto in un gioco di piedi battuti a terra o strusciati, salti, contorsioni, e ritmo che si fa sempre più serrato.

Danze sacre
A partire dalla nota definizione nietzschiana, una prima categorizzazione delle danze cultuali vede da un lato le danze “apollinee”, severe, composte, legate in esclusiva ad un contesto cultuale, dall’altro quelle dionisiache, dal ritmo concitato, satiriche, orgiastiche talora, molto spesso improvvisate.
Le danze apollinee più famose furono: la “gheranos” , danza degli Ateniesi a Delo, l’ “emmèleia”, danza usata nella tragedia, il “peana”, danza magica eseguita dal coro, e infine la danza “ipochermatica”, accostabile, per la vivacità del ritmo, a quelle dionisiache.
Di particolare interesse, e forse tra le più antiche, la “gheranos”, che, come suggerisce il nome, imitava i movimenti di Tèseo nel Labirinto. E fu proprio all’eroe ateniese che se ne attribuì l’origine, quando, appunto sbarcava a Dèlos di ritorno da Creta. A offrircene un’idea l’immagine ritratta sul vaso François, con uomini e donne alternativamente che sfilano, rivolti verso l’altare, in pose rigide, tenendosi per mano. Un richiamo alla civiltà cretese (a cui si ascrive, del resto, la provenienza delle danze apollinee) è nell’abbigliamento femminile, costituito da lunghe tuniche aderenti, alla maniera della “Dea dei serpenti”, vivacizzati da stilizzate geometrie. Corti mantelli di forma triangolare caratterizzano invece le figure maschili, con ridotti copricapi e le gambe scoperte e divaricate.

Danza per eccellenza della tragedia, eseguita nelle pàrodo, negli stàsimi e negli esodi finali, l’emmelèia, come tale, si caratterizzava per atteggiamenti (o schemi) composti, coordinati in passaggi (phorài) distinti e compiuti. “Grave e dignitosa”, come la definivano già antichi commentatori, essa poteva adattarsi tuttavia agli argomenti delle singole tragedie. Si deve a Polluce la trasmissione di alcuni nomi di passi di danza (tra questi “panierino”, “doppia”, “capriola”, “mano concava”, ecc.), ma ciò non basta a evocare la dinamica del passo che designano. Si può anzi ritenere che appartengano alla danza greca in generale e non all’emmeleia in particolare.
Tra le danze afferenti al culto di Dioniso, le più famose erano il “kordax”, danza tipica della commedia, l’“oklasma”, danza persiana con caratteristiche acrobatiche, la “sikinnis”, propria del dramma satiresco, a contenuto scurrile.
A caratterizzare la prima, movimenti grossolani e grotteschi, ascrivibili al suo legame con i culti di varie divinità e in particolare di Dioniso; si pensava infatti che fosse riprovevole danzare il cordace da sobri e che Dioniso si fosse servito di esso, come di bevande inebrianti, per ridurre in proprio potere intere popolazioni refrattarie.

Rispetto al peana, anch’esso eseguito in onore di Apollo (il cui culto sostituì a Creta quello dell’antico dio della medicina Paiaon), l’iporchema presentava una struttura più complessa, non esclusivamente innodica. Grande importanza veniva infatti attribuita alla danza, oltre che al canto, secondo almeno due modalità di esecuzione: nella prima, era una sola persona a cantare e suonare, mentre il resto del coro si esibiva nella danza; nella seconda, attestata da Luciano (De salt., 16), e praticata già in antico a Delo, più persone suonavano, mentre il resto del coro, con movimenti lenti e pacati, dava plastica espressione alla musica ed alla poesia.
Alla cultura cretese sembrano ricondurre diversi particolari, dalla postura rigida e frontale delle figure, pur ritratte in movenze di danza, al generale abbigliamento, comune ai personaggi degli affreschi (ad es., il “Principe dei gigli”) o dell’arte statuaria. Origini persiane o comunque asiatiche si ipotizzano, invece, per le danze dionisiache. Risulta purtroppo impossibile ricostruirne i passi, anche se alcuni studiosi hanno creduto di ravvisarli in talune rappresentazioni di danza sui vasi antichi. In particolare, in un cratere di Tarquinia, si scorgono tre ballerini, uno dei quali con la veste sollevata sul ginocchio, nell’atto di schernire, forse, il satiro centrale, che ha a sua volta, verso di lui, una gamba sollevata; simile alla prima, per un effetto di simmetria, la terza figura, priva, come le altre, di copricapo e calzare. Una scena simile compare su vasi laconici e corinzi, della fine del VII sec. a.C., ma in relazione, più probabilmente, alla “danza dei comasti”, cui sembra ispirarsi in origine lo stesso cordace. Anche in questo caso, i danzatori sembrano interagire tra loro, disposti frontalmente o di spalle, procedendo a saltelli e toccandosi talora con le punte dei piedi.


Più nota, invece, la struttura della sicìnnide, la cui mìmica si fonda soprattutto su rapidi movimenti delle mani, come lo “skops” (mano a solecchio), la “kéir simé” (mano con palmo all’infuori, piegata di 90 gradi al polso), la “kéir kataprenés” (palmo rivolto a terra). Contemporaneamente, i danzatori piegano alternativamente le due gambe all’altezza del ginocchio, ruotando vorticosamente su se stessi o procedendo a salti in avanti con le mani tese.
Da citare, infine, la “tribasia”, ovvero la danza del ditirambo, eseguita intorno all’altare di Dioniso, da un coro di 50 coreuti, al suono della cetra e del flauto. Una probabile scena di questa danza, opera del cosiddetto “Pittore di Pan”, è ritratta su un cratere a Basilea, custodito all’ “Antikenmuseum”: ivi tre coppie di danzatori, con le braccia levate in avanti e il corpo piegato in opposta direzione, avanzano verso sinistra al simulacro di Dioniso. Motivi geometrici, soprattutto “greche”, vivacizzano, oltre alla “nebris” (ossia la benda di pelle leopardata), i corti mantelli frangiati ; da notare, inoltre, l’assenza di calzari.
In una iscrizione frigia, figura la parola “dithrera” col significato di “sepolcro”, e ciò lascia supporre che il ditirambo sia stato, all’origine, un canto epitombale. L’ipotesi è supportata dal confronto fra Iliade, XXIV 721 e un passo della “Poetica” di Aristotele (IV 1449a9): i threnon exarchoi, “coloro che intonano il lamento”, di cui parla Omero, altri non sarebbero infatti che gli exarchontes ton dithyrambon, “coloro che intonano il ditirambo”, ritenuti da Aristotele, come accennato, i precursori della tragedia, nata, forse, da canti cultuali in onore di Dioniso prima e di eroi poi.

La “nebris” era una pelle ferina, indossata dai seguaci di Dioniso come una tunica, ricavata di solito dal cerbiatto ma anche dalla pantera, dal capro, dalla lince o dalla volpe, animali legati in vario modo alle vicende e al culto del dio.  

Al culto di Dioniso, si ricollegano anche le danze delle Menadi, invasate dalla carismatica potenza del dio. La loro danza, di rapimento e di istintività, fu effigiata dalla nota scultura di Scopa, nonché codificata come genere artistico, con la precisa corrispondenza tra gestualità e moti dell'animo. Si ricollegherebbe, invece, al culto di Afrodite e degli Amori – invocati, a detta di Luciano, perché partecipino anch’essi al tripudio e ala gioia- la cosiddetta “collana” (όρμός), in cui fanciulli e giovinetti si inseguono in u intreccio di grazia e virilità.

Ancora figure femminili sono le protagoniste della danza “cariathide”, così denominata da Carya, una fanciulla di nobile stirpe spartana, ed eseguita in onore di Artemide. Il ritmo concitato e l’intenso pathos che ne è sostrato si evincono da alcuni movimenti e posture, come il busto in avanti e la testa rovesciata. 

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