venerdì 24 gennaio 2014

TEMPERAMENTO TRAGICO E COMICO

 
Con “La nascita della Tragedia  dallo spirito della Musica” (1872), Nietzsche segue lo sviluppo della società greca antica in parallelo con quello della tragedia. La tragedia nasce dallo spirito dionisiaco soprattutto come coscienza della morte, dell’irrazionalità del mondo e della sua crudeltà. I “trogodoi”, cantori della capra (l’animale condotto al sacrificio, la tragedia come inno del/al sacrificio), non si lasciano tuttavia andare al pessimismo. Essi reagiscono con forza all’orrore della situazione umana contrapponendo al Fato un sistema olimpico che rappresenti l’anelito di giustizia, pace, rispetto della vita. È questa energia vitale che Nietzsche vuole recuperare per il popolo tedesco, esortandolo a uscire dall’impasse e a superare ogni volontà di autodistruzione. Un recupero di immagine di sé: dall’umanità naufraga in balia delle tempeste irrazionali al superuomo che si impone al destino. Nietzsche auspica un ritorno allo spirito dionisiaco, simboleggiato dalla musica di Wagner, che ridoni forza e fiducia alla nazione tedesca.
Allo spirito dionisiaco, scrive Nietzsche, sentito come rivelazione della realtà, ma anche come volontà di risorgere incessantemente (Dioniso muore, viene smembrato, ma ritorna in vita) riaffermata nei riti primaverili, si contrappone il pensiero di Euripide e di Socrate. Essi oppongono all’immaginazione mitica l’elaborazione logica della realtà, che ritengono comprensibile e modificabile secondo un progetto umano fondato sulla razionalità.
Con Euripide si assiste alla crisi della tragedia e con Socrate al ripudio del “pensiero primitivo” in nome di una dichiarata supremazia della mente umana capace di conoscere l’universo da sé sola.
Nasce, con loro, lo spiriti apollineo, legato non più alla musica, ma alla rappresentazione plastica della realtà, in primis alla scultura. Nasce la volontà di rappresentare il mondo così come appare e non come risulta dal desiderio e nel sogno. Il mondo è visibile e definibile. Il pensiero umano è in grado di descriverlo, comprenderlo, modificarlo senza ricorrere a dei o spiriti; e inizia il viaggio di ordinamento del cosmo e di svelamento dei suoi segreti che porterà alla scienza moderna, decretando la netta distinzione tra la positività della mente e la negatività delle forze oscure, magiche, trascendenti, ctonie.


Se andiamo più indietro nel tempo, alle soglie della comparsa della tragedia, prima ancora che Tespi ne anticipasse la forma con la performance di un attore al fianco del citaredo, troviamo due forme letterarie che preludono l’una alla tragedia e l’altra alla commedia: il ditirambo e il giambo.
Ma al di là della metrica e della esternazione rituale (con il ditirambo le invocazioni e i deliri esoterici della possessione dionisiaca; con il giambo le invettive e gli scherzi della processione-festa), si delineano due comportamenti e poi due “tipi” di persone.
Dal un lato abbiamo il temperamento tragico, dall’altro quello comico.
La persona di temperamento tragico non esita a prendere coscienza di come si presenta la realtà, togliendosi le maschere (persona, maschera di legno o terracotta, forse da per-sonare, per fare meglio arrivare la voce al pubblico) che le autodifese e le strategie di rassicurazione sociali gli hanno fornito. La realtà non è un idillio per nessuno. Non per la natura, fitta trama di vita e morte, dove non ha senso il concetto di giustizia, dove parole come orrore e crudeltà indicano la consuetudine, dove la catastrofe è la logica della propria dinamica, in perenne mutazione, rispondente a leggi che possono mutare, instabile e imprevedibile. Non per l’uomo, che da sempre combatte senza mai vincere le battaglie per la pace, la giustizia, l’equa distribuzione dei beni, l’ambiente… L’uomo dal temperamento tragico non per questo si fa prendere dal pessimismo e va in depressione. La sua è comunque una visione di vita, per quanto spietata e irrazionale possa apparire; e vive e produce alla ricerca non tanto di un senso, dato che è scettico verso le soluzioni basate sulla logica, quanto di un’armonia il più concreta possibile con l’universo, conscio della fatica e delle disillusioni che comporta.
Egli non fa i conti con la società, con la scienza, con la religione, ma solo con se stesso. Vede se stesso non come ingranaggio di uno stato, ma come essere liberamente pensante. Non si sente definito e delimitato dalla scienza. Non sottosta ai dogmi religiosi. Egli ha una visuale più ampia, come l’avevano i tragediografi greci, la cui fonte era il mito.
Un fatto di cronaca nera familiare (per esempio, l’uccisione del padre e l’incesto con la madre) non era solo una notizia, ma uno sconvolgimento dell’universo, una hybris che turbava l’ordine di dike e stava all’origine di terrificanti mali futuri. Un presente di colpe influenzava in peggio la storia a venire. Un meccanismo cosmico che si sarebbe trasformato, a breve, in reato e punizione che lo estingue, con ritorno immediato alla pace sociale. Come dire che l’inquinamento del pianeta si risolve con una multa, senza mettere in conto il disastro che l’oggi preannuncia per il domani.
Il temperamento tragico, insomma, pensa e agisce in grande, superando i confini del gruppo sociale e della mentalità a esso legata. Egli si relazione con il tutto universale e lo ritiene primario rispetto ai particolarismi storici e ideologici. La sua visione va sempre al di là, alla ricerca di “dei” (con il significato dato da James Hillman nella sua rielaborazione psicoanalitica degli archetipi junghiani) che lo supportino nell’errare esistenziale, aiutandolo nella ricerca di significati e soprattutto nelle relazioni con il mondo.
La molla esistenziale è l’indagine, la sperimentazione di relazioni, la partecipazione alla vita universale, l’adesione alla realtà senza infingimenti e ipocrisie e senza scopi egoistici ed egocentrici. Il temperamento tragico appartiene all’eroe solitario.
Lo scrittore di temperamento tragico non può limitarsi a raccontare la realtà in sé, ritenuta interessante e valida nel suo particolarismo, ma procede per simboli e stimoli, in una ricerca di segni che portino sempre altrove. Egli non ama e non odia l’esistenza, e la ama e la odia insieme, e comunque più che al “consumo” della propria esistenza è interessato alla sua dinamica nelle cose buone e cattive, alle relazioni con le cose, con gli animali, con i misteri.

Al contrario, il temperamento comico ama la realtà. Nobilita il cosmo come creazione dedicata all’uomo e pone l’uomo al centro degli accadimenti terreni e divini, nell’illusione che vi sia un reale progresso di civiltà che sfocerà in una palingenesi sia umana sia ultraterrena.
Il temperamento comico ama la socialità. La molla esistenziale è il protagonismo che si realizza su diversi livelli: nella famiglia, nel gruppo sociale di riferimento, nella società, nella storia.
Altra molla è il benessere. Egli cerca sicurezza e piacere sia nella fede materialistica che ripone la felicità nel possesso di beni sia nella fede religiosa adattata ai suoi scopi. Anche lui possiede una mitologia di riferimento, ma non la va a cercare agli albori dell’umanità e presso altre culture, bensì nell’ambito ristretto della propria esistenza, ampliata nell’area documentabile del passato.
Ama i ricordi, perché testimoniano la sua esistenza e le imprese che preludono a un trattamento epico della vita. Ama la vita propria e altrui con entusiasmo e con ostinazione, opponendosi a tutto ciò che può incrinare la sua “fede nell’uomo adesso e qui”: stranieri, pensatori anomali, atei, irrituali…
Esalta la comunità perché è nella comunità che trova il senso dell’esistenza, non certo nelle relazioni fumose e incomprensibili con l’universo, vissuto solo come “infinito suggestivo”, o “ammasso di stelle che stordisce” o “troppo grande e lontano per perdere tempo a pensarci”.
La vita è qui, ora e adesso. Tutta la vita è qui. Il resto è ipocrita assicurazione di eternità e perdono stipulata vendendo l’anima o lasciandosi beatamente invadere dalle illusioni gratificanti.
Il temperamento comico ama la convivialità, ama ridere, ama gli eccessi in nome di “la vita è breve e bisogna godersela fin che si può”. Manifesta amore per gli altri, ma l’aspetto comico (di commedia) può mutarsi all’improvviso in aggressività drammatica e trasformare la famiglia o la comunità in un mattatoio.
Egli trova nella comunità tutto ciò di cui ha bisogno per sentirsi vivo e protetto: le istituzioni, i valori, i rapporti affettivi e sessuali, il rispetto e la considerazione, il palcoscenico per il proprio successo, le occasioni per manifestare i buoni sentimenti, la chiesa per godere della benedizione divina, le esistenze altrui come specchio della propria o come pretesto per sfogare odio e violenza.
All’uomo di temperamento comico non interessa l’eroismo, ma il consenso; e detesta la solitudine.

In conclusione, da una parte abbiamo la tragedia di Eschilo, Sofocle ed Euripide: l’uomo e la società, l’uomo e gli dei, l’uomo e il Fato, l’uomo e l’universo.
Dall’altra la commedia di Aristofane e Menandro: l’uomo e la società, l’uomo e i politici, l’uomo e gli accidenti quotidiani, l’uomo e il caso, l’uomo e il cortile.

E, in mezzo, l’una e l’altra, il mix di tragedia e commedia che ci dà la misura del nostro piccolo anche nell’atteggiamento eroico.

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