martedì 25 ottobre 2016

ATTORE E PERSONAGGIO

Aquilino
ATTORE E PERSONAGGIO
L’attore dall’antichità al secolo XIX


Da dove cominciare per affrontare un dibattito sul teatro? Dal testo, dall’autore, dal pubblico, dallo spazio, dall’incidenza sociale, dallo sviluppo storico…? Dall’attore, senza dubbio. Il teatro è fatto di personaggi, ma non è al personaggio che il teatro sembra appartenere, bensì all’attore. Egli se ne è impossessato e non se l’è più lasciato sfuggire, conseguendo sul finire del secolo diciannovesimo l’apice di una gloria che dura tuttora, ora legata più al cinema e alla televisione che al teatro in sé. Il teatro è stato spinto indietro dalla prepotenza dell’emozione di massa. Lo stesso è accaduto nella Roma imperiale. Lo spettacolo di massa, arena e circo, uccide l’attore; quello che ne rimane è dissolto dal fanatismo religioso: anche questo sta per avvenire di nuovo? Tollerato nel cinema e nella televisione, l’attore di teatro è più facilmente il bersaglio dei moralisti e dei politici. La presenza fisica e non virtuale, con la corporeità invadente, lo rendono troppo vero e incisivo perché lo si possa ignorare e perdonare. Nel dilagare della pornografia e di ogni estremismo online, è sufficiente un nudo di palcoscenico o una parola sventata per provocare un’interrogazione parlamentare.
La voglia di censura contro il teatro non si è mai attenuata.

Nel IV secolo l’attore fa in fretta a portarsi sotto i riflettori, cacciando il Coro dall’orchestra e insediandosi in maniera sfacciata sul proscenio, creando con la propria magia lo schermo invasivo che diventa sempre più laico, libero, incisivo. Anche allora lo spettacolo è di massa, dato che nel teatro di Dioniso si avvicenda l’intera popolazione di Atene; ma quale differenza con la plebe romana o il formicaio inconsulto dei nostri stadi dove in  uno pseudo baccheggiare si venerano atleti e cantanti! Oggi il popolo non ha nemmeno bisogno di maestose architetture, per sottomettersi agli incantesimi dei potenti: in ogni casa ci sono un televisore e un collegamento internet. 
Nata come declamazione di miti, erede della semplice tecnica dell’aedo (poi nobilitata dal rapsodo con le doti di mnemotecnica e antologizzazione dei brani), la recitazione è legata al canto e alla danza. Soprattutto al canto, dato che le tragedie del quinto secolo, per la nostra sensibilità, sono più simili a opere liriche che a drammi; il testo è infatti in metrica.
La declamazione è al servizio del testo e il testo nasce, come d’altronde la performance espressiva, dall’enthusiasmos che si manifesta nell’autore/attore grazie alla presenza del dio.
Ce lo spiega Platone nello “Ione”, dove oppone al soggettivismo artistico della techne l’oggettività ideale dell’ispirazione: “Non per arte dicono queste cose, ma per virtù divina (…) Il dio togliendo loro il raziocinio si serve di costoro, e di chi dà oracoli, e dei sacri indovini, come ministri”. Autore, attore e sacerdote-sciamano sono sullo stesso livello, fanno da tramite tra la divinità e l’uomo.
Il poeta invasato vive a livello emozionale ciò che scrive, come racconta Ione: “Ogni qual volta narro qualche sventura, gli occhi mi si riempiono di lacrime; quando invece qualcosa di spaventoso e terribile, mi stanno dritti i capelli per la paura e il cuore mi batte forte”. E il pubblico lo segue empaticamente: “Li vedo, dall’alto della tribuna, piangere e guardare in modo torvo e spaventarsi con me alle mie parole”. Che cosa trasmette quindi la divinità all’uomo? Più emozione che filosofia o precetto morale. Come succede con il magnetismo, ogni elemento della catena espressiva attrae gli altri: autore, attore, pubblico. “Quello di mezzo sei tu, il rapsodo e attore, il primo è il poeta stesso. Il dio, per mezzo di costoro, trascina l’anima degli uomini dovunque voglia, facendo derivare dall’uno all’altro questa forza”. Questa potente comunicazione superiore non è certo esclusiva dell’Ellade; anzi, risulta antecedente nelle regioni a settentrione (i primi sciamani provengono dalla Siberia) e in Oriente, dove Shiva, il locale Dioniso, libera le emozioni con canti, danze e libertinaggio gioioso.
Non è questo il contagio di Artaud? Un’epidemia di peste, voleva Artaud, che distruggesse il corpo malato di ipocrisia del pubblico borghese e lo rimpiazzasse con una persona nuova, libera, aperta. La sua era una rivoluzione velleitaria dettata dalla propria diversità, dal proprio stare male al mondo; e non si rendeva conto che il pubblico è in grado di ingurgitare qualsiasi pozione senza subirne il maleficio. I successivi tentativi di cambiare la società attraverso un teatro nuovo e “contagioso” sono stati in fretta inglobati nel sistema dello spettacolo, ingabbiati nelle storie del teatro, fagocitati dagli impresari e digeriti dal pubblico più ostile, capace di trasformare in beniamini gli istigatori e gli eversori. Un’epidemia di emozioni divine volevano gli antichi, un “toccare il cielo con il dito” misterioso e nobilitante. Ma guerre e stragi, invece di essere fermati, venivano cantati; come ancora succede.
Il teatro non salva, indica solo delle strade e invita a percorrerle; alcune di queste sono le autostrade del potere, dato che il termine “teatro” non indica un luogo preciso, ma un territorio sconfinato in parte inesplorato e selvaggio, un labirinto nel quale non tutti vogliono perdersi, una geografia dell’immaginario che molti vogliono degradare ad atlante della colonizzazione.
Forse gli dei ispirano solo le persone sbagliate, quelle prive di potere. Altrimenti, come potrebbero governare, senza vergognarsi, un’umanità infelice e straziata, succube del proprio bisogno di un mondo ultraterreno forte e beato nel quale traslocare post mortem? Se gli dei possiedono un tale potere invasivo, perché non lo usano per influenzare le decisioni dei potenti? Lo stesso avviene nei monoteismi: Dio, o qualcuno della sua corte, dialoga solo con i semplici, i puri di cuore. Non mostrerebbe più misericordia se si mettesse in comunicazione diretta con i malvagi?
Scrive Platone nel “Fedro”, a proposito della mania o possessione da parte delle Muse: “Invasando un’anima sensibile e intatta, la ridestano conducendola fuori di sé nell’entusiasmo bacchico. Ma chi giunge alle porte della poesia privo della mania delle Muse, convinto di essere un buon poeta grazie alla tecnica, resterà non iniziato, e la poesia di chi è in sé sarà oscurata da quella di chi è in stato di mania”.
A dispetto di ogni divismo, Platone è chiaro: il poeta è grande solo finché si trova sotto l’invasamento (l’ispirazione); poi torna a essere un uomo come tutti gli altri, magari perfino gretto e fatuo. E il tecnico può scrivere versi perfetti, ma che restano privi di calore e profondità se non interviene la vera ispirazione.
La poesia è quindi “divina” solo quando l’artista si rende “assente” riguardo alla propria soggettività. L’arte non appartiene all’individuo, ma alle categorie superiori. Quali dei operavano questo prodigio, di elevare l’uomo dalle proprie miserie per fargli esprimere il senso del soprannaturale? Senza dubbio Apollo e le Muse per i tragici e i lirici; e Dioniso per i comici.
Posso trarre due conclusioni.
La prima è che tanto fervore mistico ha fatto da alibi per i ricercatori in campo sia creativo sia espressivo. I poeti e i musicisti non avevano bisogno di alimentare un avanguardismo malvisto (Euripide ci proverà e sarà criticato in nome della tradizione), dato che a tutto provvedeva il dio; quando c’è di mezzo la religione, scienza e conoscenza arrestano il loro slancio e cadono in letargo.
La seconda è stata recuperata due millenni dopo, quando i teorici novecenteschi hanno, in modo non sempre chiaro e coerente, invitato l’attore a fare spazio al personaggio sacrificando in parte sé stesso. Un esempio è Stanislavskij: fa sorgere il personaggio dall’attività psichica dell’attore, attivato in tutte le proprie facoltà; e allo stesso tempo sostituisce a lui il personaggio, perfino durante il processo di creazione. A me sembra molto importante questa censura dell’Io attoriale, di solito piuttosto invadente. È come se l’attore organizzasse in modo cosciente e sereno il proprio suicidio, facendo nascere il personaggio da sé stesso e, una volta nato, cedendogli il posto vitale da lui occupato. In altre parole, l’attore dà tutto sé stesso al personaggio, che ne prende il posto sulla scena.
Ma se l’attore deve scomparire in quanto identità reale, non deve farlo solo per il personaggio, ma per tutto ciò che costituisce la scena, ossia il mondo in cui rinasce. Il dio non è più una proiezione olimpica, il dio è il testo dal quale l’attore trae l’energia per rinnegare sé stesso, cambiare, interagire con i partner e la scena per costruire il teatro. L’invasamento non è fisico; essendo innescato dal testo che procede sulla via della comprensione e dell’interpretazione personale per giungere alla suggestione scenica che attiva la compartecipazione fisica come dinamica corporale e vocale e interazione con partner-spazio-oggetti, posso considerarlo psicofisico. Elimino cioè ogni gerarchizzazione, considerato che già la lettura è un’attivazione corporea non agita.

Ma come appariva un attore davvero invasato dal dio?
Ci racconta Aulo Gellio nel sesto libro delle “Notti attiche”: “Visse in terra di Grecia un attore di grande rinomanza, di nome Polo, superiore agli altri per la limpidezza e il fascino del gesto e della voce. Recitò con appassionata bravura le tragedie dei poeti illustri. Ebbe la sventura di perdere il figlio, amato quant’altri mai. (…) Doveva rappresentare in Atene l’Elettra di Sofocle; e doveva portare l’urna che si credeva contenesse le ossa di Oreste. Indossate le vesti luttuose di Elettra, tolse dalla tomba le ossa e l’urna del figlio e abbracciandole come fossero di Oreste riempì la scena non di finzioni, ma di strazio e di gemiti autentici e sinceri. Si credeva di assistere a uno spettacolo teatrale: ma protagonista fu il dolore”.
Non è questo un caso di psicotecnica, memoria emotiva e reviviscenza secondo il metodo di Stanislavskij, ma due millenni prima?
Dal punto di vista del mestiere, quali doti doveva avere l’attore tragico? Una voce chiara e forte (sappiamo tutti che Sofocle dovette limitarsi a scrivere senza più interpretare le proprie opere, a causa della fragilità della voce), ma forse nemmeno eccezionale, considerata l’acustica straordinaria dell’edificio teatrale greco; una voce ritmica, dato che le parti del Coro e molte di quelle dei personaggi venivano cantate. Inoltre, una capacità mimica stimolata ed evidenziata dall’uso della maschera (che impediva l’espressione facciale delle emozioni). Sembra poco, ma le testimonianze ci dicono che il grado di realismo era alto, smentendo chi si ostina a portare sulla scena la quotidianità spacciandola per verismo; a volte è più vero un gesto stilizzato che non una sequela mimica volgare. Atro non c’è. Nessun manuale, nessuna cronaca di scuola.
Nel 449 a.e.v.  Atene decide di premiare, oltre al poeta e al corego, anche l’attore ritenuto migliore. Il primo vincitore è un tale Eraclide. Nasce quindi l’attore professionista. Un secolo dopo Aristotele si lamenta che i concorsi per attori sono più importanti di quelli per gli autori. Il filosofo non ama gli attori, che giudica perversi, stolti e ubriaconi (la prima stroncatura della categoria nella storia, ripresa secoli dopo con ancora più veemenza). In ogni tempo si condanna l’attore anonimo, mentre si salva quello divenuto famoso, il divo corteggiato dai potenti.

Quali sono i criteri di giudizio seguiti dalla giuria nell’agone tragico? Anzitutto, la potenza vocale. Poi, la dizione perfetta e la capacità di modulare la voce per adeguarla al personaggio. Si tratta di adottare i timbri e i volumi consoni alle emozioni che si devono esprimere. Aristotele cita come esempio di naturalezza il grande Teodoro, specialista in ruoli femminili, la cui voce sembrava essere proprio quella di una donna in ambasce.
Infine la gestualità che, quando si indossa la maschera, deve supplire alla mancanza di mimica facciale. Ci rimane qualche schema di danza, ma niente sulla gestica.
Ben presto l’attore si organizza in associazioni a difesa del proprio status.
Ecco un decreto dell’Anfizionia delfica relativo agli artisti di Dioniso ateniesi, della prima metà del III secolo a.e.v.: “Gli artisti di Dioniso di Atene godono in ogni tempo d’immunità personale e di esenzione dai tributi; nessuno di loro in nessun luogo né in pace né in guerra può dunque subire arresto o confisca dei beni, ma devono essere loro concesse stabilmente esenzione fiscale e immunità personale. Gli artisti siano esenti dall’obbligo militare e da ogni tributo, perché le feste e i riti in onore degli dei, ai quali gli artisti sono addetti, si possano svolgere nei tempi stabiliti”.
Quale differenza con il trattamento riservato agli attori nel Medioevo!
L’arte teatrale non è quindi un divertimento popolare, ma una componente dei complessi riti (processione, canti e danze, sacrifici, spettacolo…) che dovevano assicurare la protezione degli dei e la coesione sociale. Forse goderono maggiori riguardi gli attori che i tragediografi: ricordiamo che Eschilo ed Euripide furono censurati e passarono i loro guai con la giustizia.
La sacralizzazione e la ritualizzazione assicurano protezione alla creazione artistica, ma la pongono sotto una campana di vetro ostacolandone l’evoluzione. I primi tentativi avanguardistici sono guardati con sospetto: la  tradizione, come sempre, viene erroneamente considerata un pilastro inamovibile, quando poi basta un decreto per stravolgerla e imporre un nuovo corso. Solo alle autorità civili e religiose è concesso il cambiamento: il popolo è condannato all’immobilità intellettuale ed etica.

C’è già, tuttavia, chi condanna l’arte teatrale come attività ingannevole e menzognera.
Plutarco ci riporta il pensiero di Solone: “Solone, che era per natura amante di udire e di apprendere, dandosi ancor più in vecchiaia al passatempo e al divertimento, nonché ai simposi e alle manifestazioni artistiche, andò a vedere Tespi che recitava un dramma. Dopo lo spettacolo gli si avvicinò e gli domandò se non si vergognava di dire tali menzogne al cospetto di tanti spettatori. Tespi rispose che non v’era nulla di grave nel dire e nel fare per gioco tali cose. Allora Solone, battendo con forza la terra col bastone: Lodando, disse, e onorando in tal modo questo gioco, presto lo troveremo attuato nei contratti d’affari” (Plutarco, Vite parallele, Solone, 29,6, Utet).
Ed è andata a finire proprio così.
Ma lasciamo Tespi (con lui nasce il teatro in forma itinerante, per la gloria dei teatranti vagabondi di tutti i tempi, e delle idee che non mettono mai radici, ma si spostano veloci superando ogni barriera) e torniamo al nostro attore del quarto secolo.
Non è più un interprete passivo, guidato dalla divinità, che racconta una storia mitica trasmettendo al pubblico il testo ispirato e sacralizzato. L’attore ora è un creativo, con tutto ciò che di bene e di male ne consegue. Non si limita a escogitare nuove modalità espressive e di rapporto con il pubblico, ma giunge a modificare il testo adattandolo alle proprie esigenze e alla propria personale esegesi. Il suo protagonismo influenza l’elaborazione dei costumi, la scenografia, lo spazio scenico, le musiche e le luci. La sua intraprendenza, insomma, smuove tutto quanto il teatro, dato che scopre che è tutto da reinventare.
Questo è senz’altro positivo, ma di sicuro la sua centralità porta con sé i capricci del divismo che ora, più nel cinema che nel teatro, nutrono la sua fama ingorda.  
La struttura della tragedia classica non gli va più bene, a causa soprattutto dell’importanza del Coro, che impone ritmi e spazi; e del corego che pretende di comandare, dato che paga; e dell’autore che s’impiccia di tutto, volendo perfino recitare e coordinare il coro. Il teatro non si regge sul testo, ma sull’uso che ne fa l’attore; il teatro è l’attore.
Egli critica le parti più letterarie e dirige la propria attenzione sulle scene madri e sui dialoghi che il pubblico riconosce come attuali e comprensibili. Immediatezza ed emozione, e quindi popolarità, diventano l’obiettivo della recitazione.
Ormai, gli dei devono fare a meno del loro intermediario. Sarà la nuova classe dei sacerdoti a trasmettere e interpretare la volontà divina: odi, ditirambi e tragedie sono sostituiti da inni e formule ritualistiche. Altrove, profeti ispirati continuano a mettere per iscritto la volontà di un dio unico, quel Geova o Jahvè che nei suoi rapporti burrascosi con il popolo ebraico non prevede certo il teatro, attività passibile di scomunica: “Beato colui che non si è recato ai teatri e ai circhi degli stranieri”, è scritto nella Avodah Zarah, un trattato del Talmud. Invece la volontà della poligamia ellenica è già stata scritta e ora non può che avviarsi verso il proprio declino. Gli dei muoiono e il teatro sopravvive.
Se l’evoluzione della tragedia verso il dramma è lenta e frammentaria, la commedia fornisce un modello di piena soddisfazione: caratterizzazioni, fisicità, più dialoghi che monologhi, istrionismo e partecipazione vivace del pubblico. Ce n’è abbastanza per dare soddisfazione all’attore più sviscerato.
Già fra gli attori tragici, comunque, come ci narra Aristotele nella Poetica (26, 1461-62), c’era chi si agitava come una scimmia o gesticolava come una prostituta con l’unico scopo di accattivarsi gli spettatori (il più vituperato è Callippide, colpevole per di più, a detta delle malelingue, di avere donato a Sofocle un grappolo d’uva con uno dei cui acini il tragediografo si è soffocato). Demostene porta a esempio il decoro e la compostezza di Solone, Pericle e Temistocle e raccomanda di non agitare troppo le mani. Ci penseranno i romani a ipnotizzare il pubblico con una gestualità perfino esagitata, nonostante i richiami al decoro da parte di Cicerone.

L’interpretazione di personaggi ignobili e immorali pone una questione etica che preoccupa Platone. Nella Repubblica (395) mette in guardia gli attori contro l’imitazione di personaggi spregevoli.
“Dovranno guardare a persone forti, temperanti, pie, generose e simili; rifuggiranno invece dal seguire e dall’imitare la volgarità e ogni forma di bassezza, per timore che dall’imitazione venga loro il contagio del vizio”. Ancora il contagio, ma non quello catartico, bensì un’epidemia morale che diffonde malcostume. E ancora: “Non vogliamo che imitino una donna e la rappresentino nell’atto di offendere il marito (…), oppure di abbandonarsi a pianti e lamenti nella sventura; men che meno poi permetteremo che la si rappresenti malata, o in preda a passione amorosa, o sorpresa dalle doglie del parto”. Sembra il catechismo dello spettacolo; gli stessi concetti esprimerà Rousseau venti secoli dopo. “Né vogliamo imitazioni di schiavi e dei loro atteggiamenti servili (…) Né, evidentemente, di uomini malvagi e vili (…) Né gli atti e le parole dei folli (…) E ancora: dovranno forse imitare i fabbri e gli altri operai? O i rematori delle navi pesanti e altri mestieri simili? Imiteranno cavalli che nitriscono, tori che mugghiano, o frastuono di torrenti, o scroscio di onde marine, o rimbombo di tuoni?”
Ha inizio (così presto!) l’era senza termine dell’attenzione censoria del potere verso le forme artistiche più coinvolgenti e ritenute pericolose, prima fra tutte il teatro. Dopo Platone una pausa di libertà espressiva, ma i primi padri della chiesa riprendono l’offensiva contro il teatro figlio di Satana.
L’interprete, predica Platone, deve essere un uomo onesto e di valore, che educa il popolo, concentrato sul contenuto del messaggio e non sugli aspetti spettacolari e di piacere della rappresentazione. Un teatro di regime, svuotato della dimensione artistica, equiparato alla pedagogia istituzionalizzata, moraleggiante e convergente, reazionario quanto uno slogan statalista.
“Se mai ci fosse un poeta dotato di sì prodigiosa abilità da essere capace di tramutarsi in mille forme e di prodursi in tutte le imitazioni possibili, e se costui, poniamo, si presentasse nella nostra città, e volesse recitare le sue composizioni, noi gli faremmo solenne riverenza, come si conviene a uomo così piacevole, meraviglioso e addirittura divino, ma gli diremmo che in mezzo a noi un essere siffatto non ci sta e non ci può stare, e dopo avergli sparso profumi e messo bende sacre sul capo, lo spediremmo in un’altra città; quanto a noi ci rivolgeremmo a un poeta più austero, a un narratore meno piacevole forse, ma certamente più utile, il quale imiterà per noi il modo di esprimersi dell’uomo onesto”.
Povero Platone! Se potesse visionare ora le serie americane in cui i delinquenti sono protagonisti rispettati e amati, non proverebbe il desiderio di bruciare le proprie opere, ignorate e derise dall’umanità (pubblico) che all’onestà antepone il successo, la ricchezza, il potere e il piacere?
O se potesse assistere alle parate spettacolari di maoisti, stalinisti, fascisti e hitleriani, non entrerebbe in crisi?
Il teatro, una volta allontanatosi dalla dimensione mitico-divina, è un fiume dai cento affluenti, invano arginato dai moralizzatori istituzionali che alla libera espressione antepongono l’ideologia politica e religiosa.
Si delineano già le future linee di sviluppo e soprattutto i conflitti e le questioni irrisolte.
Ho citato Artaud e Stanislavskij, ma il contagio soprannaturale tocca da vicino anche Grotowski: il suo teatro-non teatro sciamanico, di elevazione a una vita interiore più ricca, è un ritorno al rito danzato e cantato di immedesimazione dionisiaca e di condivisione dei doni divini, ove il pubblico è ammesso solo come co-officiante, dato che l’aspetto spettacolare non ha più alcuna importanza, oltre a quella di offrire strade nuove per un uomo nuovo.

Dopo i tre tragediografi del quinto secolo, si avvia già la problematica del personaggio come persona reale da far rivivere sulla scena; e nasce il divismo; e l’istrione incantatore che affascina la folla; e il dibattito sugli effetti (catartici e non) dello spettacolo sul pubblico; e le mille problematiche della tecnica attoriale; e le due dimensioni del testo drammatico e di quello drammaturgico; e il rapporto fra teatro e istituzioni; e così via.
Insomma, la storia del teatro non presenta un’evoluzione darwiniana dagli organismi più semplici a quelli complessi; ma è un continuo saltare avanti e indietro per riprendere e sviluppare elementi del passato, oppure mostra salti in avanti audaci e ancora infecondi; e fa sospettare che tutto quanto il teatro, in tutti i suoi meravigliosi e misteriosi componenti, sia già presente nell’Atene del quinto secolo.
Torniamo al nostro attore tra il quinto e il quarto secolo.
Ora a disposizione non ha solo i tragediografi, ma le commedie di Aristofane. Gli eroi tragici parlano molto, agiscono meno e non ridono mai. Ora i personaggi agiscono sempre e ridono spesso. Dalla parola all’azione, dalla parola seria a quella leggera, dalla tragedia alla comicità.
Ciò che affascina l’interprete è la possibilità di esprimere tutta la gamma delle emozioni e dei sentimenti riferiti non a figure mitiche, ma a personaggi-persone reali. L’attore mette in scena il presente, non più il passato. L’immediatezza di comprensione e di piacere da parte del pubblico lo gratifica e lo stimola a migliorare sempre più l’imitazione del vero, anche se spesso in modo parossistico, parodistico, surreale.
In breve, il pubblico ritrova sulla scena il politico o il vicino di casa, si entusiasma e venera un interprete-divo, acclamando i favoriti della scena insieme a quelli dello stadio. Sono passati appena ottantacinque anni dal primo concorso tragico organizzato da Pisistrato e vinto da Tespi, mentre la prima tragedia che possediamo completa, i Persiani di Eschilo, è di ventitré anni prima. Il teatro, con l’avvento dell’attore, non appartiene più al mito. Se ne stacca per seguire gli umori della politica, degli interpreti, dei registi e soprattutto del pubblico. Generato dal pubblico, e mantenuto in vita dal pubblico, l’attore non recita più per gettare un ponte tra l’uomo e il dio, ma tra sé stesso e lo spettatore.
Tanto potere sulle labbra di un uomo solo non può, con il tempo, che preoccupare i reggitori dei destini, che non sono più gli dei, ma i governanti. L’atleta si esibisce e vince in silenzio, senza veicolare giudizi e concetti; ma l’attore, istigato dall’autore, oppure esprimendo la propria creatività, può spargere semi tossici. Non per niente gli attori si tutelano entrando a far parte di associazioni e corporazioni. Nei secoli, molti di loro sono comunque sacrificati alla ragion di stato; o all’ego paranoico di un qualunque potente laico o religioso. In occasione del debutto dei Cavalieri, per paura del politico Cleone oggetto della satira, un demagogo sostenuto dal popolo, Aristofane non trova un attore che sostenga la parte di Paflagone, un servo ipocrita e prepotente che spadroneggia in casa. Aristofane stesso, forte di un’esperienza giovanile, recita la parte.
SALSICCIAIO - Mi dici come diverrò grand’uomo, io che sono un salsicciaio?
SERVO – Proprio per questo! Perché sei piazzaiolo, furfante e temerario!
SALSICCIAIO - Mi solletica, questa profezia! Ma mi stupisco d’essere capace di amministrare.
SERVO -  Fa’ quello che fai già. Tutti gli affari intruglia insieme, insaccali, accontenta sempre il popolo, da bravo cuoco, con belle paroline, e tiralo dalla tua. Hai voce sgangherata, sei nato male, sei di piazza. Hai tutto quel che ci vuole a reggere il governo.
La funzione attoriale passa da quella religiosa a quella civile. La commedia si fa satira e la satira è mal tollerata da chi si sente al di sopra degli altri e non tollera critiche.
Le commedie di Aristofane sono ancora legate alla forma scenica della tragedia: danza, canto, variazione continua di ritmo. Due generazioni dopo si passa al teatro di parola e al tipo si sostituisce il carattere e il carattere conduce al personaggio e alla sue problematiche. La musica non scompare; anzi, è sempre più invadente; e non per mettersi al servizio del coro o del cantante, ma per sostituire la parola creando atmosfere proprie e imitando la natura. L’attore e il musicista si presentano anche da soli al pubblico, nel recital. Il solista diventa il virtuoso, una figura che si ripresenterà nei secoli (dal giullare all’entertainer, dalle colorature di Mozart alla declamazione di Sarah Bernhardt). Anche il mimetismo subisce la critica di Platone che accusa l’arte di essere imitazione dell’imitazione del mondo ideale.
Musica e parola si ritrovano insieme solo in generi specifici, mentre il dramma e la commedia si strutturano sulla parola recitata.

L’attore e il personaggio, dunque. Il personaggio vivo sulla scena. Ma non sono già personaggi le figure tragiche? Medea non è un personaggio? Sì, ma cambiando il rapporto con l’attore, cambia la sua consistenza. L’attore tragico, più che interpretare in senso moderno il personaggio, lo ricostruiva con le parole, come se lo additasse da lontano, avvolto dalle ombre del Tartaro. Era un interprete che portava una maschera, quindi impossibilitato nella mimica facciale; la cui gesticolazione era misurata; la cui compostezza di rigore; la voce addomesticata per sottolineare i ritmi del testo o la sua cantabilità. Insomma, non era una persona che si potesse incontrare al mercato quella che lui portava sulla scena.
Era una persona morta.
Assente. 
L’attore era un medium che prestava corpo e spirito a una figura eroica morta per farne rivivere le vicende.
Atene richiedeva che i personaggi e gli avvenimenti delle tragedie fossero lontani nel tempo e nello spazio, salvaguardando possibili contaminazioni con lo scenario politico e sociale. Ora prevale invece la tendenza opposta. Sono quindi “vivi” i personaggi dei drammi contemporanei? Ritengo che ogni personaggio, antico e moderno, non possa ritenersi vivo, dato che al di fuori dell’opera egli non è nulla, in nessun tempo e in nessun luogo. Come se fosse una persona morta della quale si ricordano alcuni episodi. Ogni testo drammatico è un necrologio e riguarda un defunto e alcuni frammenti della sua esistenza.
Da questo connubio perverso, per cui l’attore vivo e reale  si rattrappisce in sé stesso per fare spazio a una persona letteraria e renderla, per illusione, altrettanto viva, scaturisce il personaggio come figura ambigua, un Giano bifronte che è allo stesso tempo interprete e interpretato, persona reale e persona immaginaria, Io e Sé.
Stridori, crisi, linea di demarcazione confusa e variabile, invadenze reciproche. Il personaggio vuole uccidere l’attore e l’attore fa resistenza al proprio suicidio; entrambi chiedono di vivere, sono fratelli siamesi indivisibili, ognuno dei due vive dell’altro, un rapporto d’amore che si confonde con l’odio, un conflitto che sembra insanabile. Come può il personaggio sperare che l’attore scompaia per avere solo lui vita piena se egli non è altri che l’attore? E come può l’attore pretendere vita per sé, dato che più è presente sulla scena più si oscura il personaggio? Due menti e due cuori in un corpo solo, una mostruosità affascinante.
Certo, l’attore ha un’arma che reputa infallibile (quella tanto invocata da Shakespeare): l’illusione che si basa sull’immaginazione propria e del pubblico. Appena comincia a recitare, egli lancia il messaggio: non sono più io, l’attore con un nome sulla locandina, quello che tutti conoscete; sono diventato il personaggio, il cui nome è scritto accanto al mio; a lui dovete dedicare la vostra attenzione, compiendo un atto di fede teatrale. Credete nell’illusione! Se non fate questo atto di fede, il rito teatrale è insensato, un gioco infantile smontato e di nessuna soddisfazione.
Come può l’attore scomparire idealmente nel personaggio e proporre allo spettatore un patto di fede assoluta nell’immaginazione, per il quale sul palcoscenico non c’è più un professionista, ma un’altra persona altrettanto viva scaturita da un testo drammatico? Egli opera la magia grazie al proprio mestiere, ma più è bravo più lancia al pubblico un messaggio discordante: guardate me, non il personaggio. Il pubblico, alla fine, non applaude la figura immaginaria ricreata sul palcoscenico, immediatamente svanita con l’ultima battuta: applaude l’attore e la sua bravura. Si tratta quindi solo di un gioco di suggestione. Un gioco a tempo. Scaduto il tempo (si chiude il sipario), il gioco è finito. Del personaggio sembra non rimanere nulla, mentre l’attore riappare sorridente alla ribalta per godersi il successo. Con lui si congratulano gli spettatori, non con il personaggio. Un gioco in un certo senso crudele, che evoca un morto per ricavarne emozioni forti e dopo una o due ore lo rispedisce nell’aldilà senza nemmeno un mazzo di fiori.

Rivediamo i caratteri che al gioco assegna l’ottimista Johan Huizinga in “Homo ludens” e verifichiamo quanto appartengano anche al gioco teatrale (anche se l’opera è ormai datata).
Citiamo:
1)      Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco. Il gioco libero, se non è nobilitato dall’interesse economico (sport, azzardo, quiz televisivo…) è ritenuto infantile. Il teatro libero è sempre osteggiato in nome del teatro “decoroso e utile”, utile a chi governa.
2)      Il gioco è superfluo. Il bisogno di esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale. Sembra contrastare con il punto 6, ma Huizinga distingue tra una prima fase e una seconda quando il gioco assume una funzione culturale.
3)      Gioco non è la vita “ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria. Vedi il mio “teatro come rito di passaggio”. Il teatro come cristallizzazione del rito di passaggio che rimane incompiuto, bloccato nella fase di mezzo anarcoide e di esplorazione pura, non giungendo quindi all’integrazione nel sistema sociale.
4)      Ogni gioco può in qualunque momento impossessarsi completamente del giocatore. Inclusio, l’essere nel gioco.  L’atto di fede del pubblico. Da una parte non è gioco, è serietà. Dall’altra non è immaginario, è reale.
5)      L’antitesi gioco-serietà resta sempre un’antitesi instabile. Il gioco si converte in serietà, la serietà in gioco. Il problema di rendere persistente fino alla fine il realismo teatrale.
6)      È indispensabile all’individuo, in quanto funzione biologica, ed è indispensabile alla collettività per il senso che contiene, per il significato, per il valore espressivo, per i legami spirituali e sociali che crea, insomma in quanto funzione culturale. Idem per il teatro. Spesso gioco e spettacolo si confondono l’uno con l’altro.
7)      Si svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in sé.
8)      Forma di cultura. Giocato una volta, permane nel ricordo come una creazione o un tesoro dello spirito, è tramandato, e può essere ripetuto in qualunque momento.
9)      Crea un ordine, è ordine. Realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea. Il teatro come ecosistema.
10)  Affascina, cioè incanta. È ricco delle due qualità più nobili che l’uomo possa riconoscere nelle cose ed esprimere egli stesso: ritmo e armonia. La parola teatrale non può fare a meno della musica.
11)  Tensione. Ansiosa aspettativa.
12)  Ogni gioco ha le sue regole. Ogni teatro ha le sue.
13)  Può portare alla formazione di un gruppo. La compagnia teatrale.
14)  Si circonda di misteriosità. L’essere-diverso e la misteriosità sono espressi ambedue visibilmente nel travestimento. Come il teatro, messo in relazione con gli dei, l’inconscio, l’anima, l’altro da sé, l’avatar...
Conclude Huizinga:
“Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera: conscia di non essere presa “sul serio” e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero  o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito.”
E aggiunge:
“La funzione del gioco, nelle forme più evolute che ci interessano qui, è riducibile in massima parte a due aspetti essenziali, coi quali appunto ci si presenta. Il gioco è una lotta per qualche cosa. Queste due funzioni possono anche riunirsi, cioè il gioco può “rappresentare” una lotta per qualche cosa, oppure è una gara tra chi meglio rappresenta qualche cosa. Il rappresentare, o presentare, può essere puramente un mostrare doni naturali agli spettatori. Il pavone e il tacchino mostrano lo splendore delle loro piume alle femmine, ma in tale esibizione c’è già un voler suscitare l’ammirazione per la cosa insolita, eccezionale”.
E questo “pavone” è l’attore come non lo vogliamo. Oppure non è così? Senza la presunzione, il narcisismo e l’arroganza che cosa resta dell’attore? Se consideriamo che tali qualità non sono esclusive, ma appartengono al politico, allo scrittore, allo storico… e a tante altre categorie di individui che si ritengono diversi e straordinari, siamo tentati di ipotizzare che l’attore possa farne a meno. D’altronde, il gioco è tanto più bello quanto più è leggero e scevro da sovrastrutture che potenziano l’individuo e depotenziano l’attività.
Anche nel teatro si assiste a “una lotta per qualche cosa?”. Quello a cui si assisteva nel teatro di Dioniso per i greci era un agone, una competizione tra autori e attori. Oggi sembra un combattimento anche l’adesione dell’interprete al personaggio, dato che ognuno dei due tenta di prevalere sull’altro. Una battaglia che può essere condotta nel campo delle’mozione o della razionalità; o di tutte e due per chi combina le sue dimensioni dell’immedesimazione.
Lotta significa tensione e senza tensione non c’è né gioco né teatro. È una partecipazione dell’anima, sia da parte dell’attore sia da quella del pubblico. Se manca, l’incendio si spegne e lo spettacolo è di cenere. Questo alto livello emotivo produce effetti contrastanti. Alcuni lo evocano come farmaco catartico; altri come pericoloso sviamento dalla quotidianità sana e controllata.
Una lotta alcuni per il bene, altri per il male.
Il teatro non unisce, divide (per fortuna).
Combattimento perché si oppone alla società nei suoi aspetti più ingiusti e malefici; ma non combatte con le armi della violenza, bensì con quelle della parola e della musica. E in questo consiste la sua forza tanto temuta.
Purtroppo, se vince delle battaglie, la guerra l’ha sempre persa.
Ma nessuno può cambiare faccia al mondo.

Chiamiamo “homo agens” questo uomo che recita.
Agens dal verbo latino agere, condurre. Colui che porta avanti l’intreccio: qui fabulam agit. O che porta avanti il discorso, l’orazione. Cicerone e Quintiliano chiamano actores gli oratori e histriones o scaenici actores gli attori di teatro. Nei secoli successivi, si usano i termini istrioni per indicare i mimi, comici per gli attori drammatici. Il termine attuale “attore” si impone solo nel secolo scorso.
Può essere affiancato all’homo sapiens e all’homo faber, oltre che all’homo ludens, e di lui si può discutere se abbia una dimensione preculturale: recitano, gli animali? I gatti di sicuro.
La dimensione di mascheramento e finzione non necessita di una struttura sociale, dato che l’individuo mente anche a sé stesso. L’homo agens, grazie all’immaginazione, recita la parte del dio, del sacerdote e del credente; recita le proprie illusioni e le proprie paure, per rassicurare o spaventare a seconda dei casi; recita la propria vanagloria, la depressione e il suicidio; recita l’aggressività per non sentirsi imbelle; recita eros e thanatos. La società è un palcoscenico e tutti ambiscono a parti da protagonista. Chi più mente, più sale nella scala sociale.
A questo homo agens si indirizza la fede sociale di chi coglie nei governanti i caratteri dell’onnipotenza, della giustizia, della magia. All’homo agens televisivo, cinematografico e teatrale va la fede dello spettatore. Credendo in lui come attore, rischia di credere in lui anche come uomo, mettendolo al di sopra degli altri ed emulandolo.
Gli attori diventano opinionisti, politici, leader.
Non è facile per il pubblico (e molto difficile per i critici e i razionalisti) annullare in sé ogni riferimento all’attore e dedicare l’attenzione solo a un personaggio ritenuto, per gioco, vero e vivo. La fede nel personaggio si accompagna all’apprezzamento dell’attore e questo spezza l’incantesimo, distrugge in parte la magia del teatro.
Nel gioco infantile tutti entrano nella finzione, anche un eventuale direttore di gioco. Nel gioco adulto, come nello sport, si accetta la presenza di elementi spuri, che fanno parte della realtà. Chi è finto, è vero; chi è vero, è falso. Il direttore di gara, l’osservatore, il giudice… inquinano la purezza originaria del gioco e lo riducono a transazione commerciale: c’è chi investe come c’è chi perde e chi guadagna.
Il gioco autentico non appartiene a chi è consapevole di giocare; ma nemmeno a chi scompare del tutto nel gioco, confondendo immaginazione e realtà, spianando la strada per l’estremismo e il fanatismo.
Di solito, l’animo semplice accoglie con immediatezza l’invito, proprio come in chiesa prega con convinzione e in piazza dà ragione al politico di turno. L’animo semplice accetta i miracoli del teatro senza indagini critiche. Ciò che vede è reale e ciò che ascolta è autentico. Il suo livello emozionale è sempre al massimo. Affronta ogni situazione più con le emozioni che con la consapevolezza razionale. Diventa quindi facile preda dei dispensatori di suggestioni.
Chi è più circospetto di fronte alla realtà può o non può godere delle stesse emozioni forti? Può anche lui commuoversi e indignarsi e fremere nell’attesa dello scioglimento finale? Certo, accantonando la coscienza critica. Non per atto di fede, ma per gioco. Il gioco del facciamo finta che sia così, altrimenti non è bello; e decidiamo noi per quanto tempo. Dall’illusione alla finzione. Dalla finzione alla fruizione controllata.
In un caso o nell’altro, il teatro non propone il vero.
Il vero è fuori, nelle strade e nelle case. Se n’è reso conto Grotowski, al termine della sua avventura artistica, quando ha deciso di non produrre più spettacoli e di fare teatro in privato, solo per la crescita spirituale degli attori.
Il teatro è un inganno accettato, ce lo dice chiaro Gorgia. Il teatro illude e allontana dalla verità, ce lo dice Brecht.
Tutto sta, allora, nella gestione dell’inganno; e qui risiede il vero; nella sincerità dell’attore di fronte al pubblico, che si rifiuta di plagiare; nella sua minore invadenza, nel suo rifiuto di protagonismo; nella sua accettazione di essere al servizio di un personaggio che vuole risorgere dalle tenebre del Tartaro e rivivere per poco la propria storia sul palcoscenico; nell’accettazione della propria morte in quanto persona reale e vivente, unica via per accedere alla dimensione attoriale e potere ospitare il personaggio; come riservare le stanze migliori all’ospite di riguardo, mentre il padrone di casa si ritira in uno stanzino.
Meglio rinunciare a un’emozione in più, egli pensa, che sovreccitare lo spettatore, la cui fede acritica potrebbe spingerlo oltre, là dove nemmeno io voglio che giunga, in una dimensione del tutto avulsa dalla realtà.
Teatro come gioco autocontrollato, partecipazione il cui obiettivo è la riuscita del gioco e non il successo personale, emozione deleteria se rifugio dell’ansia e fuga dalla realtà.
Ah, l’enfasi delle emozioni!
Spettacoli, cronache, social… tutto tende a suscitare emozioni forti non più rapportate con equilibrio e consapevolezza alla realtà effettiva. L’umanità si è fatta pubblico e chiede a gran voce emozioni continue, per sentire ancora il senso affievolito del vivere. Ha ragione Platone? Certo, quando dietro le emozioni non c’è niente di davvero importante. L’emozione per sé, e non come veicolo di collocamento razionale. Emozioni senza confronto con il pensiero. Facile, così, per chiunque, trasmettere idee della realtà mistificate.
Il teatro deve stare attento alle emozioni, per non perdersi nel parapiglia degli acquisitori di consenso.
Il teatro non è solo emozione, deve essere molto di più.
Il successo non è la misura equa per un teatro che intenda sopravvivere al contingente.
Il pubblico è del tutto inaffidabile.

Questa illusione che genera emozioni forti è proprio ciò di cui ha bisogno l’avvocato per vincere le cause.
L’oratore prende esempio dall’attore e all’attore passa poi le proprie scoperte sull’efficacia di una gestualità più contenuta ed elegante di quella, spesso sbracata e sovreccitata, del palcoscenico. La sua non è recitazione, è actio, l’azione fatta di voce e gestualità. L’homo agens con senno, moderazione e grazia (quella che diverrà la cortesia), ma con la potenza della parola che emoziona; egli fa uso della techne insegnata dai sofisti come Protagora, Gorgia e Prodico, veri professionisti della suggestione di massa. L’oratore non è ispirato dalla divinità, ma applica tecniche che rendono efficaci i discorsi quanto la magia e la droga.
“Chi accettava di pagarsi le lezioni poteva in tal modo acquisire l’arte di persuadere un uditorio giocando sulle sue sensazioni. Se si dà fede a Tucidide, Pericle derivò almeno una parte del suo potere politico dall’abilità nell’influenzare le folle (…) Il teatro, anche più dell’assemblea o del tribunale, è il luogo dove l’emozione di massa si manifesta appieno. Platone suggerisce di sostituire al potere, proprio della poesia, di suscitare emozioni, il dialogo filosofico: sarebbe stata questa la poesia adeguata allo Stato ideale” (C. Segal, L’uditore e lo spettatore, in L’uomo greco, a cura di J-P. Vernant, Laterza, pag. 201).
Nei due libri di Cicerone sull’argomento, Orator  e De oratore, e nella Institutio oratoria di Quintiliano troviamo un vero e proprio manuale tecnico per chiunque debba esprimersi di fronte a un pubblico.
“Le altre parti del corpo aiutano chi parla, ma oserei dire che le mani parlano da sole. Domandano, promettono, chiamano, congedano, minacciano, supplicano, respingono, manifestano timore, interrogano, negano, indicano gioia, tristezza, dubbio, confessione, pentimento, misura, quantità, numero e tempo” (Istituzioni oratorie XI, 3).
L’attore si cala nel personaggio, l’oratore nel proprio assistito e nei suoi familiari, oppure nei panni dell’avversario da denigrare, e dalla tribuna commuove o sobilla il pubblico: entrambi  agiscono per un medesimo scopo, il consenso. La scoperta fondamentale, per entrambi, è che non basta fingere di essere qualcun altro, ma bisogna vivere nell’animo emozioni e sentimenti appartenenti all’altro, grazie a un processo empatico che non dipende più dall’intervento divino, bensì dalla sensibilità individuale.
Il contagio c’è ancora, ma non è più un prodigio; esso dipende dall’abilità dell’attore-oratore. Egli riscalda il pubblico e il pubblico, a sua volta, incentiva e potenzia l’attore; oppure lo raffredda; o addirittura lo distrugge.
Come l’attore è diventato invasivo nei riguardi del personaggio, così il pubblico verso l’attore; gli applausi si alternano ai fischi e l’estro del momento decide del successo o della disgrazia di chi sta in tribuna o sul palco. Immediata è anche la scoperta che il pubblico è manipolabile e corruttibile. Le strategie di condizionamento si evolvono in fretta: calunnie, soldi, corruzione, opinion leader, massmedia, arruffapopoli, casualità, umore del momento, ignoranza, politica e religione…
Il teatro, che non ha più niente della ritualità antica, diventa un fenomeno sociale sempre più complesso; fenomeno che spesso si fa problema, coinvolgendo nel bene e nel male tutti coloro che vi ruotano intorno.
 
La teoria emozionalista, tuttavia, s’incrina subito: come può, l’oratore-attore, provare ogni volta le passioni su cui fa leva per avere il pubblico dalla propria parte? Come può davvero rivivere emozioni e sentimenti nel momento in cui essi si succedono rapidi e contrastanti? Ecco che Cicerone, Quintiliano, Seneca, Plutarco e altri indicano una via diversa: grazie a una grande abilità (ma qual è il metodo per conseguirla?) l’attore non prova niente, ma finge di provare, e fingendo così bene trascina il pubblico in una realtà immaginaria, per cui davvero vale il motto del sofista Gorgia: “La tragedia è un inganno per il quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare”. Ossia: lode all’attore che convince lo spettatore della sua realtà finta e lode al pubblico che si lascia irretire. E questo è il gioco in cui bisogna credere: facciamo finta che io sono.
Il dibattito sull’oratoria si concentra sulle strategie più efficaci per convincere pubblico, giudici e giurie, alla ricerca di un metodo organico che per il momento non esiste. Le cause sono condotte in modo appassionato e idealizzato, ma ben presto l’avvocato si astrae dal giudizio morale e se difende un malfattore anche lui si fa protagonista del gioco del facciamo finta di credere che sia innocente e agiamo di conseguenza. Anche il teatro perde presto la propria originaria dimensione di voce della polis, e il palcoscenico può dare voce agli interessi politici particolari. Ne consegue che non solo l’arte è finzione, ma il messaggio stesso che veicola non è veritiero, e inganna e imbroglia il pubblico.
Una doppia menzogna, quindi.
Storie e personaggi costruiti per veicolare determinati messaggi. Il teatro è sempre più espressione particolare di gruppi ideologici. Non intendo la trasmissione esplicita di determinati contenuti, ma una produzione di testi che, anche abbastanza inconsapevolmente, supportano lo status quo e i suoi valori. In compenso, non mancano drammaturgie critiche e addirittura eversive. Lo spettacolo segue due filoni, quello del divertimento puro e quello delle idee sull’uomo e sulla società; ma ormai è assodato che solo il divertimento rende lo spettacolo davvero popolare.
Purtroppo il dibattito tra emozionalisti e antiemozionalisti deve aspettare secoli per proseguire, dato che la chiesa interviene in modo pesante sul teatro. Ma quale teatro? La tragedia greca è in parziale letargo e si risveglierà solo con l’umanesimo, quasi due millenni dopo la sua nascita. Per il momento, i suoi personaggi rivivono nelle letture a carattere antologico, dato che il pubblico mal sopporta ore di rappresentazione e pretende quindi cose brevi e appassionanti.
Le tragedie greche e romane, come quelle senechiane, compresi i rifacimenti di pochi nuovi drammaturghi, sono riservate agli intellettuali riuniti in un salotto intorno a un dicitore. Il popolo assiste alle commedie di Plauto, alle farse, agli spettacoli pornografici o violenti. Sulla scena sesso estremo e sgozzamenti si alternano alle satire inaccettabili, come verifica l’attore fatto bruciare vivo nell’arena da Caligola, intollerante verso tutte le critiche, anche quelle “artistiche”. La satira è sempre più pericolosa.
Nell’impero romano si edificano quasi trecento teatri, ma la dimensione spettacolare non si esaurisce sui palcoscenici. Essa invade le arene, i circhi, le ville signorili. Il teatro di strada non è certo un’invenzione moderna: saltimbanchi, giocolieri, ammaestratori, illusionisti… si spostano di villaggio in villaggio, di città in città, e danno origine alla dimensione itinerante dell’arte più esecrata, quella che genera vagabondi e ladri, imbroglioni e prostitute. Questo a detta dei benpensanti che da che mondo è mondo hanno sempre voluto le strade e le piazze lastricate e pulite, dedicate solo al commercio e alla socialità, vietate ai mascalzoni senza fissa dimora.

Quali scelte ha l’attore, nel primo secolo dell’era volgare, prima che la chiesa concluda con successo la crociata contro il teatro?
Tre sono i tipi di carriera attoriale.
Il cantor, il cantante; l’actor, il dicitore; l’histrio, il performer.
Il cantante, insieme al musicista o all’orchestra, è presente in diverse forme di spettacolo: nella pantomima, nella commedia, nell’atellana, nella farsa… Quasi sempre, infatti, i testi sono misti di prosa e poesia, e questo ci rimanda alla tragedia greca; infatti, non manca neppure la danza, prima di pertinenza del coro, semplice e codificata in uno stile solenne, ora eseguita sia dai cori sia dai singoli, spesso in modalità lasciva o addirittura pornografica.
L’actor, lo abbiamo visto, si ispira ai canoni estetici ed espressivi dell’oratore. Egli declama scene madri di tragedie, ma anche pagine famose di grandi autori, e perfino dialoghi filosofici. Riservato a un pubblico scelto e acculturato.
La novità, il cui seme è nelle commedie di Aristofane, riguarda l’histrio, l’attore di azione, che basa la propria performance sulla fisicità, voce e corpo; e sul ritmo pressante che eluda la noia; e su un provetto rapporto con il pubblico al quale è disposto a concedere tutto ciò che emoziona, diverte, eccita. Attore e attrice, poiché non siamo più in Grecia e le donne si esibiscono sui palcoscenici o nelle piazze con grande successo. Incentrare lo spettacolo sul corpo è stato considerato immorale e scandaloso, ma ha costituito nel secolo ventesimo il nucleo della rivoluzione drammatica. Non più solo testo, non più solo voce, non più solo spettacolo, ma l’espressione totale del corpo vivente, espressione intorno alla quale ruotano i grandi nomi del teatro moderno e contemporaneo. Il corpo, in Grecia, era accuratamente nascosto, dato che sulla scena non c’erano servi e operai, ma i signori micenei e gli dei. Anche l’erotismo da palestra o bagno pubblico era moderato dall’estetica e dall’educazione che escludeva la volgarità e l’aggressività. A Roma tutti i limiti vengono via via spostati all’infinito e sotto gli imperatori sesso e violenza sono ingredienti comuni. Bisogna però osservare che accanto all’estrema licenza permangono forme di buongusto, di educazione e controllo della fisicità, di validità intellettuale e culturale. Insomma, ce n’è per tutti; e anche questa è democrazia. Demonizzare l’età imperiale equivale a demonizzare il presente, considerata la diffusione della pornografia, della trivialità e della stupidità televisiva, dell’esibizione gratuita del nudo, del gradimento popolare della violenza testimoniato dalla vendita delle armi, dalla cinematografia, dai videogiochi, dagli spettacoli come quelli dei combattimenti tra animali eccetera.
Condannare il teatro imperiale è stato un atto di arroganza e di meschinità, giustificato solo dal tornaconto politico del nuovo potere religioso.
Ecco gli attori dell’età imperiale.

L’attore delle emozioni.
L’attore che più emoziona il pubblico è il pantomimo. Utilizzando le maschere per segnalare il cambio di personaggio, sostenuto da un coro che racconta la storia, egli con un ricercato linguaggio gestuale, grazie ai movimenti codificati che il pubblico affezionato comprende (non si può fare a meno di pensare al teatro orientale; e tanta ricchezza è andata persa, poiché troppo poco rimane delle tecniche, come se qualcuno avesse voluto distruggere non solo il teatro, ma anche la sua memoria), rappresenta scene dalle tragedie antiche o dai libri venerati di Virgilio. La pantomima viene introdotta a Roma nel 22 a.e.v. da Pilade di Cilicia e Batillo d’Alessandria e all’estero prende il nome di danza italica.
“L’attrazione essenziale erano i movimenti del danzatore, flessibili, artistici, appassionati, talora squisitamente lascivi” (W. Beare, I Romani a teatro, Laterza). Poteva avere sia contenuti comici sia tragici. Nel teatro imperiale, prende il posto della tragedia, mentre alla commedia subentra la farsa. Ci rimane il testo dell’Alcestis Barcinonensis, la tragedia euripidea ridotta in 122 versi, una mezz’ora di spettacolo, la misura giusta per il pubblico volubile di allora. Oltre al coro, la compagnia comprende i suonatori e le ballerine.
Questo attore è paragonabile al nostro attore drammatico, considerata la sua immedesimazione emotiva e fisica con il personaggio. Anche Cicerone e Quintiliano scrivono di immedesimazione, ma a livello tecnico l’oratore non fa che sciorinare gesti codificati limitati a mani, braccia e torso; la sua immedesimazione è più teorica che pratica; mentre il pantomimo mette a disposizione dell’interpretazione corpo e anima in modo totale.

L’attore del divertimento.
Il secondo attore è quello comico. La sua performance non è certo quella del cabarettista intellettuale o del garbato interprete del teatro leggero. Egli mette a fuoco i desideri  e gli umori del pubblico e non si pone limiti morali e di buongusto. Che reciti per strada, su un palchetto o in un teatro, la sua strategia è semplice: interessare, piacere, fare ridere. Spesso gli sono compagni giocolieri e acrobati, in un varietà vivace e sboccato, nel quale non mancano le ballerine discinte o nude e le volgarità più grossolane. Un avanspettacolo senza censure, con la sola attenzione a non offendere in modo troppo pesante i potenti, dato che c’è il rischio di perdere la libertà o anche la vita. Il mimo, molto apprezzato da Cicerone come testimonia in alcune lettere e nel De oratore (Orazio scrive invece di “cori di prostitute, ciarlatani, accattoni, mime e buffoni”), è lo spettacolo comico più popolare, un insieme di recitazione, mimo, canto e danza; le ballerine, naturalmente, poco o niente vestite. “…piccole compagnie di attori girovaghi, uomini, donne e bambini, che viaggiavano come zingari di paese in paese. Li guidava il capocomico, o la capocomica (archimimus, archimima), rispetto al quale il testo era poco più che contorno. L’archimimo avrà forse cominciato con l’annunciare il titolo, o anche col riassumere la trama; egli restava in scena praticamente senza interruzione, e dominava a tal punto lo svolgersi del dialogo che l’espressione fare il secondo attore in un mimo equivaleva al nostro fare la spalla. L’actor secundarium partium rivestiva ruoli del tipo del pagliaccio o del matto” (W. Beare, I Romani a teatro, Laterza, pag. 175).
L’archimimo (da non confondere con san Mascolo detto Archimimo) indossava un cappuccio, una giubba patchwork (centunculus, abito a toppe), la calzamaglia e il fallo: Arlecchino?
“Breve, divertente, d’attualità, completamente libero da ogni considerazione di tecnica o di decenza, e tuttavia capace di adottare, se atto al caso, lo stile più sentenzioso”.
Dalle opere del conte Francesco Algarotti (1712-1764): “L’Archimimo che rappresentava Vespasiano, volendo dimostrare l’avarizia sua, chiesto ai direttori della pompa funebre quanto ella costasse, e sentito che costava milioni; perdio, rispose, date a me un cento mila scudi e gettate il mio cadavere al fiume”.
L’atellana è invece una farsa improvvisata di tono satirico, l’antesignana della commedia dell’arte; mista di versi e di prosa e infarcita di termini rustici e volgari; impiega maschere fisse: Dossennus, Maccus, Buccus, Manducus, Pappus e Kikirrus, il cui nome richiama il verso del gallo. Sono i primi clown. Ghiottoni e grossolani, maliziosi e saccenti, i beniamini della plebe.

L’attore dell’eccitazione.
Dalla volgarità all’oscenità il passo non è lungo. Al pubblico impresari senza scrupoli forniscono spettacoli pornografici di tutti i generi, oltre a quelli violenti elaborati da una fantasia cinica. Nudità e amplessi, esecuzioni capitali e combattimenti all’ultimo sangue tra uomini (magari vestiti da eroi mitologici, a dimostrazione della continua teatralizzazione di ogni festa) o tra uomini e animali; e ci mettiamo anche la corsa dei carri nel circo e la naumachia, la battaglia navale. L’immaginazione romana è senza limiti. Il tetimimo, per esempio, simile ai nostri giochi acquatici, prevede che nella fossa dell’orchestra riempita d’acqua si esibiscano in elaborate coreografie belle sirene nude.
Questo attore è l’attuale performer, la cui esibizione spinta o sanguinosa al giorno d’oggi è teorizzata come particolare forma d’arte. Il performer di allora richiama alla mente quello dei video pornografici e snuff, o dei club privati sado-masochisti; con la differenza che sia i teatranti sia il pubblico della Roma imperiale hanno una consapevolezza diversa del sesso e della violenza, ambedue componenti fondamentali della vita, come gli stessi dei insegnavano agli uomini.
“Per i romani il teatro era essenzialmente un posto dove divertirsi. Il teatro doveva concorrere con altre forme di divertimento. Se non si riusciva a fare un’impressione immediata il risultato poteva essere lo svuotamento della platea (…) Le feste comprendevano corse di cavalli, combattimenti tra gladiatori, lotte di bestie, incontri di lotta, di pugilato, danza sulla fune ecc; talvolta queste attrazioni in concorrenza avevano luogo contemporaneamente rispetto all’esecuzione drammatica” (W. Beare, op.cit.).

In sintesi, una società dello spettacolo, quella imperiale. Meglio: della spettacolarizzazione. Come tendono a fare tutti i regimi dispotici: panem et circenses, parate, divismo, monumentalità, accentuazione della visione e svuotamento dell’ascolto, contenuti inconsistenti o stupidi.
Ma quali valori trasmetteva il teatro? Lo domando perché noi siamo abituati a misurare ogni cosa in base alla sua produttività. Serviva, il teatro? A chi e per che cosa? Certamente, nel suo complesso, non si poneva come obiettivo l’educazione del popolo. Il popolo non andava educato, ma dominato; e in mancanza della televisione… Nemmeno contribuiva a consolidare o diffondere la moralità. Ma quale moralità? Se non ci immedesimiamo nel cittadino romano (dato l’argomento trattato, non dovrebbe risultare difficile a nessuno), e se applichiamo il nostro metro di giudizio, non possiamo comprendere quanto il teatro fosse coerente con la società. Anacronistico parlare di immoralità, perversione, oscenità… Gli intellettuali avevano quello che desideravano: dotte letture durante i banchetti; i ricchi, spettacoli mozzafiato con abbondanza di scenografie e coreografie; il popolo continue occasioni gratuite per divertirsi ed eccitarsi. Il tutto ringraziando gli dei per tanta generosità.
Il breve excursus ci mostra che nei primi secoli tutte le forme di teatro erano presenti nell’impero, meno una: quella edificante e rassicurante. Mancava il teatro per famiglie, insomma. Sì, c’era stato Terenzio; ma poi? La famiglia non faceva pubblico. La famiglia non si muoveva al suo completo per andare a teatro. La famiglia non era ancora il nucleo sacro e intangibile della società com’è inteso oggi. Le vite quotidiane dei mariti e delle mogli si svolgevano su binari paralleli. Per donne e bambini erano più che sufficienti le farse e gli artisti della giocoleria. Il teatro, più che sui personaggi, era impostato sui tipi, come dimostra l’atellana. La comprensione immediata lo rendeva soddisfacente per tutti.
Finita l’era repubblicana, finito anche il primo teatro “borghese”, erede di quello di Menandro. Purtroppo, ci resta ben poco. Nomi di autori come Titinio e Atta e titoli di commedie: La ragazza di Velletri, La flutista, La sensale di matrimoni, La suocera, La recluta va alla guerra, Gli uomini sposati, Lo spendaccione, La figlia sospetta… I numerosi titoli al femminile ci raccontano l’evoluzione del ruolo della donna. Le commedie prevedevano azione e ritmo. La stessa scenografia ce lo suggerisce: la scena una strada, il fondale le abitazioni con tre porte praticabili, a sinistra la campagna, a destra il centro città. Un via vai di personaggi, un garbuglio di situazioni, un inseguirsi di battute. Vivacità, divertimento e satira erano sviluppati da attori capaci di interpretare tipi con il brio e l’energia necessari per soddisfare il pubblico popolare. Accanto alla commedia, il dramma per i palati più esigenti. Ci rimangono settanta titoli, ma nemmeno un’opera completa, nessuna trama. Come può essere scomparso nel nulla tutto questo?
Anche tutti i generi di attore erano presenti. Tutti meno due. Mancava il grande attore mimetico e mancava perché nessuno scriveva parti per lui. Mancava anche l’attore-sciamano alla Grotowski. L’dea che l’attore potesse lavorare per sé stesso più che per il pubblico non era ancora nata. L’attore viveva solo per gli applausi e gli incassi. E infine mancavano le scuole di teatro. I ceti più elevati godevano delle declamazioni di stile oratorio, il popolo applaudiva istrioni di scarsa considerazione a livello sociale, salvo le eccezioni che diventavano tali per l’appoggio dei potenti. La professione dell’attore non era granché e chi la sceglieva faceva una scelta di libertà anarcoide, o di sincero amore per il canto, la musica o la danza, o perché ereditava il mestiere. Più che artista era visto come intrattenitore, alla stregua di un gladiatore o degli stessi animali del circo. I teatranti svolgevano un importante ruolo sociale nell’ambito del “panem et circenses”, ma non avevano da aspettarsi alcun riconoscimento.
I clericali hanno inferto il colpo di grazia su vittime già duramente provate.

Tanta ricchezza di espressioni teatrali avrebbe potuto portare a grandi novità nel giro di pochi secoli, ma la lenta e incessante erosione praticata dalla chiesa ha spento le luci della ribalta e spinto nell’ombra del retroscena opere e interpreti, e soprattutto genialità e idee.
“Quanto all’oscenità, il mimo raggiunse abissi incredibili. Non solo l’adulterio era un tema di repertorio: l’imperatore Eliogabalo ordinò che venisse rappresentato realisticamente sul palcoscenico. Era naturale che la Chiesa cristiana si schierasse contro il mimo, e fu ugualmente naturale che gli attori la ripagassero mettendo in burla i sacramenti, per il maggior piacere delle masse. Gradualmente la Chiesa prese il sopravvento. Nel V secolo d.C. tutti gli attori di mimo furono scomunicati. Nel VI secolo Giustiniano chiuse i teatri. E tuttavia il mimo continuò a vivere” (W. Beare, op.cit.)
Parrebbe facile giustificare gli interventi stizziti dei padri della chiesa quando si considera che una parte del teatro imperiale scaturiva da denudamenti, atti sessuali, violenze di ogni genere. L’indignazione sembra legittima. Tuttavia bisogna osservare che la chiesa non ha combattuto solo gli eccessi, ma anzitutto e soprattutto il continuo riferimento alle divinità pagane e il terrificante meccanismo che sta alla base della recitazione, per cui l’attore è sé stesso ed è un’altra persona, diventando testimone di falsità.
Incomincia l’era repressiva dominata dai fanatismi e dalle interpretazioni dei testi sacri e della stessa volontà divina. A Roma molti riti sembravano apparati teatrali e molti spettacoli, infarciti di divinità, somigliavano a riti. La chiesa doveva estirpare in fretta tutti i riferimenti al paganesimo: edifici, preghiere, credenze, altari, culti, statue, papiri e pergamene, festività… tutto ciò che si riferiva agli idoli pagani via, censurato e smantellato. Era intollerabile che il popolo si estasiasse di fronte a una Venere nuda sul palcoscenico. E l’attore, quel bugiardo contro natura, quel mistificatore che come gli idoli instillava nella gente false verità… via, via, sfrattato senza stipendio.
Se Dio è verità, come si può tollerare che un uomo si presenti sotto le mentite spoglie del personaggio?

Molti i padri della chiesa che condannano il teatro: Tertulliano (160-220 ca.), Lattanzio (250-324 ca.), Agostino (354-430 ca.), Girolamo (IV-V sec.)… Che cosa rimproverano all’arte drammatica? Idolatria, uso inadeguato e degradato del corpo, messaggio satanico che passa attraverso gli occhi stabilendo con gli spettatori un rapporto puramente visivo ed emotivo, non filtrato dalla razionalità.
L’opera più drastica è forse il De spectaculis di Tertulliano, nella quale si afferma che ogni forma di spettacolo è opera del diavolo.
“Tutte le manifestazioni teatrali esercitano un effetto distruttivo, perché scatenano negli spettatori sentimenti, passioni, impulsi irrazionali, invogliandoli a non comportarsi più con serenità”.
Un concetto ripreso da Agostino che esprime dubbi perfino sull’uso dei canti e delle musiche in chiesa; quella del teatro è una “strana follia”. Lattanzio ribadisce: “Sono da evitare tutti gli spettacoli” perché “oltre alla licenza verbale, nella quale ogni oscenità è riversata, su richiesta a gran voce del popolo si tolgono tutti gli indumenti le prostitute che si spacciano per attrici” (De divinis instritutionis, 1, 20, 60).
Cipriano si ricollega al fenomeno del contagio, che non è certo quello catartico di Aristotele o quello rivoluzionario di Artaud, dato che scrive di “un contagio tanto impuro e infame”. Le emozioni terrorizzano i sant’uomini, che predicano di mantenere la coscienza “tranquilla”, evitando turbamenti e impressioni forti, dato che cattivi pensieri e tentazioni sono sempre in agguato. Ambrogio (340-397) esorta a rifuggire dalle vanità: “Volgiamo i nostri occhi dalle vanità; perché l’animo non concupisca ciò che vedrà. (…) I piaceri del teatro sono osceni”.
Si apre la tematica dell’occhio, del vedere e desiderare, intenzione giudicata identica all’azione. E Girolamo (347-420): “Non passeggi al tuo fianco un attore travestito da donna, non la dolcezza avvelenata di un cantore diabolico, non un giovane depilato e vezzoso. Niente delle arti sceniche ti si attacchi”.
Gli attacchi sono contro l’idolatria, esprimono la condanna della violenza e della crudeltà, esorcizzano la sfrenatezza dei sensi, la libidine esibita dai teatranti che attraverso lo sguardo si trasmette al pubblico facilmente suggestionabile come una peste dell’anima.
Insomma, niente sesso. E questa è la chiesa di tutti i tempi.

Scrive Vincenzo Ruggiero Perrino (Lo spettacolo nell’alto medioevo. Tra condanne e la definizione di una nuova estetica teatrale, in Senecio, 2012): “È proprio il cristianesimo a istituire una responsabilità dello spettatore, abolendo la sua innocenza e negando l’autonomia dello spazio ludico come mondo a parte, esente dal principio della responsabilità. Per questo può dirsi che il discorso cristiano sugli spettacoli è, essenzialmente, un discorso sulla disciplina dello sguardo”. Al riguardo, cita il versetto 5, 28 del Vangelo di Matteo: “Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”.
La responsabilità dello spettatore? Mi pare che venga presa in considerazione solo in negativo. Si ritiene che lo spettatore sia responsabile di fronte a ciò che vede, ma si deplora che venga inevitabilmente danneggiato nello spirito da certe visioni, che sia cioè succube dello sguardo. E dov’è quindi la responsabilità? Consiste solo nell’evitare certi spettacoli? Non sta anche nella capacità di sostenerli e di non farsi influenzare? O di accettarne il gradimento? Ma lo spettatore, per questi esegeti del mondo, è solo un bambino che va tutelato. Anche contro la sua volontà.
La chiesa spegne il teatro, ne distrugge gli edifici (utilizzando però le pietre per erigere edifici sacri), ma non rinuncia come al solito a fare proprio ciò che ha condannato.
“Tuttavia, negli Atti di Giovanni, risalenti verosimilmente alla seconda metà del II sec., la tendenza alla spettacolarizzazione delle pratiche cristiane a scopo di proselitismo è decisamente forte. Vi si narra che l’apostolo organizza a Efeso, non senza trovarvi ostacoli e resistenze da parte del potere politico, un grande spettacolo di guarigione nel teatro della città” (Perrino, op.cit.).
Ciò che è male per gli altri, va più che bene per chi condanna. Il teatro è una grande risorsa di comunicazione e la chiesa ha sempre piegato alla propria volontà i pulpiti, i giornali, i libri, le scuole, le televisioni, gli spettacoli. Quindi, dopo il primo furore iconoclastico, l’obiettivo non è più: distruggiamo il teatro; ma: reinventiamolo a nostro uso e consumo.
Il teatro, in conclusione, si moralizza e nel millennio successivo gli unici a dare ancora qualche problema ai difensori della pubblica decenza e a trattare di amore (e sesso metaforico) sono i giullari, i menestrelli, i trovatori.
Il nomadismo (senza dio, senza patria, senza famiglia) rende il giullare una figura ambigua. Per l’arcivescovo Vanus non produce beni e non diffonde contenuti validi. Per Turpis fa spettacolo mediante una gesticolazione scomposta che tradisce la sacralità del corpo. Il corpo, per i cristiani, è tanto più sacro quanto meno è corpo, il che contraddice ogni legge naturale e divina. Il loro dio avrebbe potuto creare un mondo di puri spiriti, senza l’appendice fisica imbarazzante e demonica.
Si arriva quindi al punto che la chiesa stessa si fa produttrice e promotrice di spettacoli.
Dapprima timidamente, con i drammi liturgici (evoluzione del cantus responsorius mutuato dalla liturgia ebraica) organizzati dai monaci nelle chiese; e poi con le sacre rappresentazioni fuori delle chiese, nelle piazze e nelle vie. Tutta la città vi partecipa, grazie anche alla suddivisione del dramma in scene che vengono rappresentate in punti diversi. La città stessa è il palcoscenico, la città è santificata; l’attore non è più un professionista, ma un fedele.
La forma liturgica cede sempre più il passo alla spettacolarizzazione sacra.
Scenografie impressionanti riproducono l’inferno e il paradiso, il popolo si emoziona di fronte a Mosé o a Cristo in persona. Canti ed effetti speciali portano fuori dalla realtà, come se astronavi ultraterrene invadessero la terra. Le semplici tonache dei religiosi diventano costumi orientalizzanti, ricamati d’oro e d’argento, sontuosi e regali. Le chiese di pietre irregolari diventano templi di perfezione architettonica la cui vastità intimidisce, ornati da sculture, bassorilievi, affreschi; e ancora oro e argento ovunque. Gli oggetti di scena sono… d’oro e d’argento.
Grandi architetti come Brunelleschi progettano gli ingegni, macchine che consentono di far volare gli attori; oppure li fanno scomparire o danno l’impressione che siano avvolti dalle fiamme.
Insomma, quello che non andava bene per i pagani ora va più che bene per i cristiani. I preti vedono con soddisfazione accorrere le masse entusiaste. Prima lo spettacolo e poi… tutti alla messa. Ora la finzione non è più un’offesa alla verità divina, ma la sua celebrazione. I sacerdoti, le suore, i chierichetti, i membri delle confraternite, i partecipanti alle processioni… tutti indossano un costume e tutti recitano il dramma del dio incarnato; gli interni dei templi sono più che mai set cinematografici di sicura presa sul pubblico; ognuno, durante i riti, assume un ruolo e interpreta una parte.
Lo spettacolo si è fatto religioso e la religione è spettacolare.
Dopo qualche secolo, non c’è parrocchia e oratorio che non abbiano una sala teatrale e cinematografica. Il teatro e il cinema, se approvati, sono buoni. Tutto il resto è frutto del demonio. D’altronde, fin dagli inizi, la chiesa non ha teatralizzato i riti sulla falsariga delle cerimonie pagane? Gli spettacoli presentati intorno agli altari sono la copia di quelli che avvenivano intorno alle are; solo che nella Roma imperiale chierichetti e chierichette erano poco vestiti.
Eccoci dunque all’attore santo di Grotowski? No, non di questa santità si tratta. Grotowski è chiaro, il suo attore non ha niente a che vedere con la religione. Il suo attore inizia la carriera donandosi tutto al pubblico, in una forma di martirio, più che di santità. Egli contrappone l’autenticità sofferta della propria finzione all’ipocrisia della verità pubblica. E poi abbandona gli spettacoli e santifica sé stesso cercando le vie per una perfezione ancora da definire.
L’attore cristiano recita per la gloria di Dio, e per la salvezza della propria anima, più che per una santità individuale. E poco gli importa del pubblico dei fedeli.
Un attore ritualizzato, più che santo.

La tardiva (mille anni!) apertura della chiesa verso l’arte teatrale precede di poco la grande stagione dell’umanesimo. Vengono riscoperti e messi in scena i capolavori dell’antichità, per il momento a beneficio degli ambienti accademici e signorili. Dapprima l’interpretazione è affidata a un recitator, ma presto le singole parti sono assegnate ad attori diversi. Il teatro è di nuovo vivo. Le traduzioni della Poetica di Aristotele e dei dialoghi di Platone riavviano il dibattito sulla recitazione. Le opere di Cicerone, Quintiliano e Orazio trovano immediata consonanza con lo stile cortigiano e il Castiglione stesso (1478-1529) identifica nella grazia e nella leggiadria le doti primarie dell’attore. Bei modi, bei gesti, voce misurata e disinvoltura. L’attore di corte disprezza lo stile comico, che giudica di espressività eccessivamente plebea. Ma è in questo stile popolare che si sviluppa l’attore più promettente.
L’antica eredità pagana non è del tutto perduta e le compagnie itineranti che lavorano nelle piazze o nei cortili dei palazzi strutturano una manualistica di movimenti, azioni, gesti e smorfie il cui obiettivo è ottenere il consenso del pubblico. Il corpo è di nuovo il padrone indiscusso della scena; perlomeno nel teatro popolare. Il teatro non appartiene solo alla cerchia nobiliare del signore, ma fa parte degli interessi della nuova società borghese. Nascono circoli di gentiluomini che scrivono testi; come Angelo Beolco detto il Ruzante, agiato e acculturato, che mette in scena gli umori del popolo.
Ancora, quindi, due forme drammatiche: da una parte la declamazione composta riservata a un’élite, i cui stilemi derivano dall’oratoria antica; dall’altra l’attore di corpo e azione che si rivolge al pubblico della strada.
In attesa che si formino i nuovi drammaturghi, questi attori ripescano scene e personaggi dalla tradizione millenaria che va da Aristofane a Plauto fino ai giullari e strutturano un repertorio di situazioni da mettere in scena a loro piacimento. Nasce la commedia all’improvviso, affidata a una professionalità indiscussa che viene tramandata per generazioni. L’attore ritorna a essere il creativo che sa cavarsela in ogni frangente, con una memoria drammaturgica straordinaria. Egli plasma la messinscena e il pubblico a proprio piacimento, specializzandosi in tipi e caratteri. Recupera i requisiti già condannati dalla chiesa: corporeità, seduzione, acrobazia, libertà di linguaggio, oscenità, spavalderia, provocazione…
Inevitabile, nel clima di Riforma e Controriforma, la nuova offensiva cristiana, con un paladino del calibro di Carlo Borromeo (1538-1584) che definisce il teatro “scuola di impudicizia e di libidine”. Anatemi da parte dei protestanti, soprattutto dei puritani inglesi. Ma i tempi bui appartengono al passato e i gesuiti, per esempio, organizzano recite nei loro istituti.
Il teatro sembra ormai inarrestabile. Anzi, è pronto a esplodere dopo avere accumulato tanta frustrazione. Non subito. Per il momento se ne occupano gli intellettuali e il punto di vista è ancora quello dei letterati. Ma anche i percorsi lunghi si fanno un passo dopo l’altro e vanno prendendo forma le figure del drammaturgo, dell’attore drammatico, del regista e di tutti i creativi che contribuiscono a una messa in scena. Ci vuole solo qualche secolo.

La novità è rappresentata da una forma di censura interna.
Attori di chiara fama se la prendono con i buffoni e gli intrattenitori di strada, auspicando un codice etico che assicuri dignità e decoro alla professione.
Nel sedicesimo secolo vengono pubblicati i primi trattati sulla recitazione. Poche le novità, dato che i riferimenti d’obbligo sono Aristotele e Orazio, Cicerone e Quintiliano. Il decoro è ancora il primo dei requisiti.
In fin di secolo, nel 1598, il letterato Angelo Ingegneri affronta la questione della scrittura drammaturgica, differenziando il testo teatrale da quello prosaico o poetico. Egli auspica che l’autore scriva immaginando nei dettagli la scena e i suoi tempi, in modo da recuperare autenticità e veridicità.  Un grande passo, dato che finora un testo era giudicato meritevole della scena solo in base alle proprie caratteristiche prettamente letterarie. Ingegneri ritiene necessaria l’aderenza realistica sia della recitazione sia della scenografia, per quanto il mondo rappresentato debba risultare non come è nella realtà, ma come dovrebbe essere idealmente. Insomma, la natura va corretta. Ancora il decoro. Il realismo di bassa lega è legato agli attori di strada e dell’improvviso, a quelli professionisti, insomma, che più che di “trattati” teorici si intendono di efficacia espressiva e impatto sul pubblico.
Anche loro, tuttavia, si sentono in grado di scrivere sul teatro e ci pensano, tra i primi, Pier Maria Cecchini (1563-1645) della compagnia degli Accesi; e Flaminio Scala (1552-1624), capocomico della compagnia dei Confidenti. Egli caratterizza la commedia non per la prevalenza del testo, ma del gesto, del movimento e dell’esibizione dell’attore. Una rivoluzione, per il tempo, che però non si concretizza, dato che le sue osservazioni vengono ignorate.
La casta dei letterati ha la meglio sulla congrega dei teatranti che vengono più apprezzati all’estero che in Italia, come è consuetudine del nostro paese codino e miope.
Sono gli anni di Shakespeare, di Molière e della Comédie Française, tutti posti sotto la protezione della corona. E tutti assediati da moralisti, religiosi e oppositori politici. Il teatro non ha mai avuto vita facile e la tradizione va sempre salvaguardata. Gli attori sono esclusi dai sacramenti e lo stesso Molière viene sì seppellito in terra consacrata, ma di notte e tra mille difficoltà, grazie a una dispensa speciale dell’arcivescovo, su pressioni della corte.
Si scrivono trattati censori furibondi e alla fine del ‘600 la stessa facoltà di teologia della Sorbonne ribadisce la condanna del teatro. Per evitare guai, non resta che rinnegare la dimensione dell’istrione e accettare la corrispondenza dell’arte attoriale con quella dell’oratore. Insomma, di nuovo il decoro. I benpensanti bloccano la trattatistica sull’arte della recitazione; ma ci sono per fortuna eccezioni come l’opera di François d’Aubignac che sottolinea ancora una volta la diversità assoluta del teatro dalla letteratura e soprattutto dalla retorica.
Nemmeno lui, purtroppo, riesce a incidere sulle convinzioni culturali del tempo.
Sulla fine del secolo XVII vengono pubblicati numerosi trattati che definiscono sì l’attorialità come appendice dell’oratoria, ma ne riconoscono anche una misteriosa originalità e diversità. L’actio oratoria è quindi insufficiente a spiegare quello che avviene sul palcoscenico.
Nuove intuizioni portano linfa al dibattito, come quella espressa da Charles Gildon nel 1710. Egli osserva che il pubblico è incantato da qualsiasi azione avvenga sulla scena, anche espressa male da un attore dilettante; mentre è annoiato da una lunga declamazione senza azione.
Inoltre, l’efficacia di un attore, a differenza dell’oratore, sta nella sua partecipazione alla situazione anche quando non ha la battuta; egli sa rimanere nella parte ed esprimersi in silenzio e nell’immobilità mediante lo sguardo.
Stiamo entrando in una nuova fase che pone le fondamenta per affrontare le questioni fondamentali: il teatro è più che declamazione, richiede un uso sapiente del corpo; l’attore non presenta solo un personaggio, ma lo vive; la sua partecipazione è profonda e verosimile; il pubblico non assiste passivamente, ma compartecipa emotivamente.

Ma perché la fisicità rappresenta un cruccio tanto grave e tanto persistente per i religiosi e i cosiddetti benpensanti?
Verrebbe da parlare di una censura totale del corpo di cui si ha un terrore cieco, ma sarebbe una risposta incompleta. Vero che i religiosi lo celano del tutto con abiti senza colori (ma indossano l’iride durante le funzioni pubbliche, al momento dello spettacolo, quando rosso, giallo, azzurro, viola, verde… ricordano le vivide colorazioni dei templi greci), ma è anche vero che l’arte sacra è zeppa di nudità; e che i religiosi hanno sempre propugnato una lecita corporeità in determinati settori.
La chiesa vede di buon occhio lo sport. La pratica dello sport, si ritiene, aiuta a controllare la libidine (quanti casi di cronaca li contraddicono!). La gestione del corpo, alla quale si arriva con un allenamento militaresco, non è libera, ma risponde a regole precise e codificate, elaborate per portare l’atleta alla vittoria. Il credente deve vivere una vita possibilmente agiata, deve essere competitivo, deve risultare vittorioso, deve distinguersi dalla massa… e così facendo dimostra il favore divino.
La chiesa, inoltre, ha sempre benedetto la vita militare. Anche in questo caso l’addestramento serve per plasmare il corpo e per guidarlo verso l’obiettivo: la distruzione del nemico o la morte. L’atleta e il militare non sono mai lasciati soli, sono come animali d’allevamento e di compagnia, vengono spiati, pilotati, supportati, educati nel corpo e nello spirito. Entrambi perseguono obiettivi individuali (la gloria), ma lo scopo ultimo è  difendere Dio e la patria.
Entrambi portano benefici alla società.
Il corpo di un atleta è seminudo, ma va bene. Il corpo di un militare è rivestito di violenza, ma va bene. Tutto è previsto, tutto è organizzato in vista di un bene superiore, tutto è sotto controllo.
Chi controlla invece l’attore? Chi lo convince a non parlare male dei valori correnti, degli uomini di potere, degli ecclesiastici? Per che cosa è allenato il suo corpo se non per dare al pubblico un piacere effimero e spesso immorale? Ma, soprattutto, che cosa costruisce, dentro di sé, l’attore? Forse una fede solida? Un ferreo senso patriottico? No, egli dentro di sé è un anarchico che si illude di godere di una libertà di espressione scandalosa. Egli sfugge al controllo, esce dai limiti, valica i confini stabiliti con fatica durante secoli di repressione e indottrinamento.
Il suo è quindi un corpo malvagio.
A meno che non sia guidato dalla voce di un suggeritore.

Già a metà Settecento l’attenzione posta nella definizione del personaggio (ricordiamo anche lo scavo emotivo di Grimarest, 1659-1713, nel Traité du recitatif) cambia la dizione, non più cantilenante come nell’oratoria e nella declamazione tragica, ma imitatrice del reale, pur nella ricerca di un’espressività che non sia quella quotidiana, ma prettamente teatrale.
L’aspetto più importante dell’evoluzione drammatica riguarda tuttavia la nuova gestualità.
L’attore deve apparire spontaneo, non artefatto e falso; e deve agire in coerenza con il personaggio che interpreta. Sono solo gli inizi, perché siamo ancora lontani da una messa in scena realistica: si recita ancora in versi e i costumi, in teoria ispirati dal tempo e dal luogo della fabula, sono in realtà rielaborazioni teatrali di sartorie che si affidano ancora molto alla creatività fantasiosa.
Rinasce il questo periodo la contrapposizione tra emozionalisti e antiemozionalisti, una diatriba che arriverà fino al Novecento e che probabilmente non sarà mai risolta. La tecnica della recitazione, avente come scopo il potenziamento della sensibilità dell’interprete, si occupa soprattutto di eliminare gli intralci emotivi, caratteriali e ideologici che lo ostacolano.
Luigi Riccoboni, detto Lelio, attore e capocomico, pubblica nel 1728 Dell’arte rappresentativa. A questo punto fra recitazione e oratoria è posto un divisorio definitivo. Anzitutto, Riccoboni riconcilia autori e artisti della commedia dell’arte, affermando che l’improvvisazione abbinata a un testo valido fornisce la migliore base per una rappresentazione di qualità. Poi opera la distinzione tra finto e falso. L’attore opera nella finzione, assumendo un carattere, e per questo è finto; ma non deve essere falso, poiché deve credere in ciò che fa e sentire per quanto possibile nel proprio animo emozioni e sentimenti rappresentati, sempre attento alla coerenza tra personaggio e situazione.
Basta, quindi, con i codici espressivi precotti tipici dell’actio, dell’oratoria, e del teatro che vi si ispira; e viva la freschezza della materia prima.
Ancora una volta i precursori non vengono ascoltati da tutti.
Un gesuita, Franz Lang, aggiorna il codice espressivo dell’oratoria, facendo corrispondere a ogni emozione e a ogni sentimento gesti e movimenti codificati. La battaglia continua.
Ma ormai le nuove idee si diffondono.
Tra il 1735 e il 1753 Aaron Hill pubblica alcuni saggi esponendo concetti che sembrano appartenere più al futuro che al suo presente: l’attore deve dimenticare sé stesso e il pubblico e non deve recitare, ma diventare davvero il personaggio. Come fare? Grazie all’immaginazione plastica. Per esprimere fisicamente una passione è sufficiente riviverla con una forte immaginazione. E questo, scrive, è un processo naturale. Ne consegue che l’analisi del testo, l’identificazione delle passioni e la conoscenza profonda dell’animo del personaggio sono attività essenziali che precedono la recitazione.
Anche Pierre Remond de Saint-Albine ripropone la teoria emozionalista, ribadendo che la metamorfosi dell’attore nel personaggio non riguarda solo i tratti esteriori, ma soprattutto l’intero mondo interiore. E anche lui assegna un’importanza fondamentale al lavoro dell’attore sul testo; l’attore che traduce le parole in azione non solo chiarisce, ma anche migliora il testo letterario.
Manca più di un secolo, prima che a dare unità e coerenza alle diverse dinamiche del palcoscenico intervenga il regista; per il momento è il capocomico a dare qualche indicazione.
Ogni attore è regista di sé stesso e questa attivazione senza limiti lo sta portando a occupare la scena, ma solo nel caso che egli sappia diventare il “grande attore” in grado di entusiasmare il pubblico. Il suo protagonismo assoluto sarà presto bilanciato dalla figura del regista, anche lui proteso a dare dell’opera una versione personale e originale. Per spegnere gli incendi provocati dalle scintille che scaturiscono tra i due, il regista si avvierà nel Novecento a prevalere sull’attore, in nome della coerenza e dell’unità della messa in scena. Ma anche questo conflitto non è certo risolto. Vi sono ampi spazi per l’attore che intende dirigere sé stesso, mentre l’autorità registica viene svuotata dalla creazione collettiva dell’allestimento. Tutto questo, nel secolo Diciottesimo, è ancora da venire, ma il vivace dibattito presenta già le aperture per un grande sviluppo del teatro.

L’emozionalismo pone molti problemi.
Non tutti hanno fatto esperienza di particolari emozioni e sentimenti. Come può un attore che non si è mai innamorato interpretare una scena d’amore? Come può un attore onesto identificarsi in un personaggio malvagio? La risposta per il momento è solo parziale: dove non arriva la sensibilità attoriale, interviene la tecnica. Ma quale tecnica? Ancora non la si conosce.
Gli antiemozionalisti contrattaccano.
La prima critica appartiene al figlio di Riccoboni, Antoine-François (1707-1772, L’art du théâtre). Recitare vivendo sul momento le emozioni del personaggio porta a un sovraccarico nell’animo dell’interprete, che perde il controllo su quello che sta facendo. Solo l’esprit, la conoscenza, la comprensione razionale della situazione consente all’attore di padroneggiare l’arte, applicando la tecnica specifica. L’opera di Riccoboni junior è infatti anche un manuale pratico, ricco di consigli ed esercizi (es. i mille modi di dire buongiorno). L’adesione emotiva non si concilia con la tecnica, e risulta anzi di ostacolo per una recitazione sicura e fluida.
Ma il più famoso degli antiemozionalisti è Denis Diderot (Paradosso sull’attore, 1784), senza dimenticare Lessing. Auspica un nuovo genere, la tragedia borghese, non sapendo che entro pochi anni sarebbe dilagata in tutti i teatri europei. È drastico: l’attore non deve provare davvero le passioni che rappresenta; va a discapito della sua efficacia. L’attore imita il personaggio come lo vede nella propria immaginazione, ma deve mantenere il controllo assoluto sulle proprie emozioni. Terribile è il ritratto che fa dell’attore in pubblico, dove dovrebbe distinguersi come uomo se davvero fosse dotato di una sensibilità tanto eccezionale da vivere a ogni replica emozioni diverse e intense. L’attore è un uomo di scarse qualità e, se consideriamo che dalla sua non ha più nemmeno la mania descritta da Platone, di lui non avanza niente che lo renda eccezionale.
“In società, quando non fanno i buffoni, li trovo cortesi, caustici e freddi, un po’ esibizionisti, dissipati e dissipatori, interessati, più divertiti dei nostri difetti che colpiti dai nostri mali; sempre imperturbabili di fronte a un caso penoso o al racconto di un triste avvenimento; isolati, vagabondi, agli ordini dei potenti; scarsa moralità, niente amici, quasi nessuno di quei santi e dolci legami che ci accomunano nelle pene e nei piaceri a un altro essere. Ho visto spesso un attore ridere fuori di scena, ma non mi ricordo di averne mai visto uno piangere. Di quella sensibilità che si attribuiscono e che viene loro attribuita, che uso fanno? La lasciano forse sulla scena, quando ne escono, per riprenderla quando vi rientrano?”
Gli attori non portano in sé la grandezza dei personaggi che interpretano: “Non hanno nessun carattere perché, recitandoli tutti, perdono quello specifico che la natura ha dato loro, e diventano falsi”.
Ma il pubblico fatica a distinguere tra loro e i personaggi: “Voi li vedete grandi sulla scena perché, secondo voi, hanno un animo sensibile; quanto a me, li vedo infimi e meschini in società, proprio perché quella sensibilità non ce l’hanno”.
E ancora: “… una vanità che rasenta l’insofferenza e una gelosia che riempie il loro ambiente di liti e di odi”.
L’attore sta emergendo a fatica da secoli di oscurantismo che subito viene messo di nuovo alla berlina. Gli si attribuiscono le peggiori qualità come se ne fosse l’unico detentore, omettendo di citare altri artisti, i politici, molti professionisti, commercianti, impiegati carrieristi… Ma sugli altri i giudizi sono solo razionali, mentre quelli sull’attore sono condizionati dall’affettività. L’attore attira su di sé (calamita emotiva) amore e odio, a seconda dell’occasione, in virtù anche del fraintendimento tra l’individuo e il personaggio. In lui si giudica anche il personaggio, come il personaggio a volte viene giudicato anche in base all’attore che lo interpreta. Questa confusione di ruoli, per cui molti non distinguono chi hanno di fronte, se una persona reale o una immaginaria, stimola il livello irrazionale producendo giudizi estremi e irrealistici.
Qualcosa, e spesso più che qualcosa, l’attore deve pagare a sé stesso per il carosello di immedesimazioni a cui si sottopone; ma deve farlo anche con la gente; nella vita sociale non può avere un comportamento più finto di quello che ha sulla scena e l’esuberanza come forma di sollievo e distacco dai fantasmi drammatici viene fraintesa; soprattutto, non gli si perdona di non somigliare alle grandi figure che interpreta; egli è solo un uomo, non un eroe tragico o un buffone rassicurante.
Del 1758 è la delirante lettera di J.J. Rousseau a D’Alembert (Lettera a d’Alembert sugli spettacoli). “Noi crediamo che il teatro sia un punto di riunione, in realtà è il posto in cui ciascuno si isola; vi si va per dimenticare i propri amici, i propri conviventi, i propri parenti; per interessarsi a delle favole, per piangere le sventure dei morti o per ridere a spese dei vivi (…) In che cosa consiste il talento dell’attore? Nell’arte di travestirsi, di assumere un carattere diverso dal proprio, di apparire differenti da come si è, di appassionarsi a sangue freddo, di dire cose diverse da quelle che si pensano con la stessa naturalezza che si avrebbe se le si pensasse realmente, di dimenticare infine la propria condizione a forza di assumere quella degli altri. Che cos’è il mestiere dell’attore? Un mestiere a causa del quale ci si offre pubblicamente per denaro, ci si sottomette all’ignominia e agli affronti di chi peraltro ha acquistato il diritto di farli, si mette in vendita la propria persona. Scongiuro qualunque uomo onesto di dire se non sente nell’intimo del suo cuore che in questo commercio di sé stessi vi è qualcosa di servile e di basso (…) Queste fanciulle audaci, prive di qualsiasi educazione se non quella fornita dalla civetteria e da una serie di parti amorose, assai poco vestite, continuamente circondate da una gioventù ardente e temeraria, in mezzo alle dolci voci dell’amore e del piacere, resisteranno alla loro età, al loro cuore, agli oggetti che le circondano, ai discorsi di cui sono le interlocutrici, alle sempre diverse occasioni, all’oro cui sono praticamente già vendute? (…) Proibire all’attore di essere un vizioso, equivale a proibire a un uomo di essere ammalato”.

Di fine secolo è L’art du comédien (1782), di Touron (o Tournon) de la Chapelle. Il personaggio si presenta come una persona reale all’immaginazione dell’attore, che per impersonarlo deve mettersi nelle sue situazioni e farsi le domande: che cosa farei, io? come la penserei, se fossi lui? Per imitarne al meglio la personalità, l’attore ripesca dalla propria esperienza situazioni, emozioni e sentimenti simili, e li rivive per sentirsi il più possibile coerente con quelli della scena. Ecco la tecnica esposta in tre punti: la ricostruzione del personaggio e della situazione; la traduzione in immagini interiori forti e dettagliate; la partecipazione emotiva.
Passo passo ci avviciniamo sempre più alla rivoluzione stanislavskiana. I principi generali ci sono, manca del tutto il famoso metodo. Intanto, si sottolinea che sempre più a fare il teatro non è tanto il drammaturgo, quanto l’attore. La sacralità del testo (dal ditirambo all’inno alla tragedia greca) sta diventando sacralità dell’attore; egli si martirizza di fronte al pubblico donando tutto sé stesso in un atto gratuito teso a ricreare sulla scena l’autenticità che la vita sociale ha fatto perdere. L’attore diviene portatore o perlomeno propugnatore di verità, come gli antichi testi del teatro di Dioniso.
A definire che cosa sia il personaggio e come lo si debba meglio interpretare provvede anche Goethe raccontando dell’attore Meister che non riesce a mettere a fuoco Amleto. Si dà da fare quindi per ricostruire, a modo suo, l’intera storia del personaggio, a partire dall’infanzia, arricchendo e completando il quadro fornito da Shakespeare. L’obiettivo è di creare, nell’immaginazione, una persona reale. La ricerca dell’assoluto tuttavia relativizza, perché l’Amleto scovato nella propria mente e nella propria sensibilità da Meister sarà solo il suo Amleto, uno degli infiniti possibili.

Tutto questo porta, nell’Ottocento, non solo al Grande Attore, ma anche al Grande Personaggio. Ce ne parla Tommaso Salvini (1829-1915), reputato il più completo attore tragico del tempo.
Ecco il finale di una lettera di Salvini sulla propria interpretazione di Corrado nella Morte Civile (da Sul teatro e la recitazione. Scritti inediti e rari, a cura di Donatella Orecchia, Acting Archives Review 2014).
“No. No, con gli emendamenti da me praticati nel dramma, e consentiti dall’autore, Corrado più non «scaturisce né si presenta un tipo psicologico bellamente intuito di delinquente per passione, e il corollario spontaneo e indefinibile del preordinato suicidio» sparisce del tutto. È un delinquente infelice, al quale non dobbiamo aggravare una nuova colpa, quella cioè di togliersi la vita. Dopo ciò io seguirò a morire di crepacuore, di paralisi cardiaca o di aneurisma, come meglio vi aggrada chiamarla, certo di non destare nel pubblico alcun disgusto, né violare affatto il tema della composizione. Così facendo credo d’essere logico e accostarmi assai più a quel verismo artistico che i giovani attori tentano inutilmente raggiungere con una slavata dizione, con delle forme eccentriche, e con barocche e esagerate interpretazioni”.
Come già scritto, l’attore invade il campo dell’autore e completa-cambia-mette a fuoco secondo la propria logica e la propria sensibilità (quello che sarà l’analisi del testo) il comportamento del personaggio; in questo caso Salvini, uomo di valori, rifiuta la soluzione del suicidio e opta per una morte naturale. Perfino l’autore, Giacometti, gli si arrende e nel camerino gli dice: “Muori come ti pare”.
Ma com’erano questi Grandi Attori di fine Ottocento? Leggiamo dal Discorso in commemorazione della Ristori (Adelaide Ristori, 1822-1906, non solo grande interprete europea, ma incaricata di missioni all’estero da Cavour, ammirata da Mazzini e Garibaldi, benefattrice, imprenditrice…):
“Essa fingeva quel vero, adatto al carattere che rappresentava; quel vero che ti tocca e persuade; quel vero che si sente e s’imprime; quel vero, infine, a 18 carati, non quello falso, fittizio, e manierato, di cui oggi si vantano molti comici moderni. La loro modernità consiste nel defraudare il pubblico di molte parole del poeta: nel voltare le spalle troppo spesso all’uditorio: nell’interporre fra un personaggio e l’altro che ragionano insieme, un pianoforte, o la spalliera di un divano, o finalmente nel precipitare le parole in modo da sembrare dei burattoli; mentre la prima qualità di un artista drammatico è quella di avere la pronunzia chiara, esatta, scolpita: e questa qualità formava uno dei più gran pregi di Adelaide Ristori. Ella riproduceva i caratteri di una società trascorsa, e se nel rappresentare la Regina Elisabetta, o la Maria Antonietta era necessariamente obbligata a vestire i costumi di quel tempo, doveva pur ancor, necessariamente, di quei caratteri riprodurre la forma del
porgere, dell’incedere e dell’esprimere, per essere nel vero. Ben mi rammento averla udita in un Dramma francese di poco valore, intitolato: La Contessa d’Altenberg: ebbene Essa mi fece piangere come un fanciullo: e il far piangere un Artista, abituato alle finzioni della scena, è il culmine di una potenza veristica. Sebbene i componimenti di allora non avessero la forma moderna di quelli d’oggidì, vi era però maggiore sentimento, maggiore sospensione nell’intreccio scenico, maggiore castigatezza nel dialogo, e maggiore moralità. Allora i componimenti miravano ad esaltare l’anima, e toccare il cuore, mentre oggi si cerca a preferenza di molestare i nervi. Le impressioni che l’uditorio riceveva allora erano durature, mentre ora sono fugaci. In allora gli autori parlavano alla mente e all’anima, ora parlano ai sensi. Ben si comprende che escludo coloro esenti da simile taccia; ma pur troppo la maggioranza degli autori italiani e stranieri tende ad un verismo talmente licenzioso che confina con l’inverosimile e con l’oscenità. Ho sentito sulla scena esaltare la poligamia; ho veduto intimi contatti, scusabili soltanto in privato; come pure proteggere il misfatto e giustificare il delitto, con l’attenuante della forza invincibile. Ma mio Dio! Lasciamo ai manicomi,
agli spedali, ai Gabinetti anatomici e agli ergastoli la cura di rimediare e correggere le anomalie della mente e le sozzure del corpo. Purché sia nuovo, tutto si accetta e si crede ammesso, ma fortunatamente non tutto è applaudito. Fortuna volle che Adelaide Ristori vivesse in tempo in cui il
teatro era scuola d’istruzione e di moralità”.
L’attore vate moralizzatore.
L’attore votato al bene comune della polis. Solo che ora la polis si dedica allo sfruttamento di donne e bambini dell’era industriale, al colonialismo e alle guerre, peggio che Atene prima che avviasse con le sue stesse mani la decadenza. Attori vittoriani, attenti ancora al decoro. Sì alle emozioni, ma solo a quelle che esaltano l’animo ai valori patriottici, religiosi, familiari. Ma com’era la Ristori?
“I pregi della nostra Ristori non si limitavano ad avere un talento superiore, una prestazione artistica, unica anziché rara, lampi di genio ammirabili, ma era dotata pur anco di una bellezza raffaellesca, di un nobile contegno, di un conversare squisito, e ancora d'una volontà ferrea, d’una tenace persistenza, e di nervi d’acciaio. Ben la vid’io, dopo una recita della Regina Elisabetta, affaccendarsi a riporre gelosamente bene condizionati i suoi cinque costumi entro ai bauli, e disfarne e prepararne altri per la seconda rappresentazione. La cameriera di Lei nulla doveva toccare, di nulla ingerire; essa sola, dopo una improba fatica, grondante di sudore, doveva compiere quel molesto servigio. Con uguale forza, con la stessa energia Ella aveva il potere di rappresentare in recite successive la Medea, la Giuditta, l’Elisabetta Regina d’Inghilterra, e durante gl’intervalli di un atto all’altro Ella riceveva nel suo gabinetto letterati, artisti, autori, e la schiera infinita de’ suoi entusiastici ammiratori, e con tutti teneva una garbata e geniale conversazione”.
Mi sembra di sentire Diderot che borbotta imbronciato: ricevere tra un atto e l’altro? e l’emozionalismo? e l’immedesimazione?
L’interprete, afferma Salvini, non deve solo sentire con i sentimenti del personaggio, ma anche pensare con il suo cervello. La partecipazione emotiva non significa affatto perdita di controllo, dato che è preceduta da un lavoro intenso di elaborazione testuale, comprensione di fatti e caratteri e analisi profonda di sé stessi. Fissa quattro principi: il compito fondamentale della recitazione è rendere vivo un personaggio come individuo; nell’interpretazione è coinvolta l’intera personalità dell’attore, emozioni e pensiero; ogni caratterizzazione esteriore si rifà a un’interiorità unica e individuale; il processo interpretativo è unico e infinito, partendo dalla prima lettura, procedendo con la comprensione e l’approfondimento, le strategie, le prove, le repliche, senza che questo sviluppo unitario abbia mai fine, essendo sempre perfezionabile.
Siamo così pronti per le esperienze eterogenee, rivoluzionarie, estreme, straordinarie e utopistiche del Novecento.

PICCOLA BIBLIOGRAFIA

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