mercoledì 23 novembre 2016

IL DIARIO DI MEDEA (otto)


Giornata grigia. I ragazzi vivaci, troppo. Due giochi di riscaldamento. Cerchio, uno pronuncia una sillaba “cantata”, nel senso che deve essere una nota e non una dizione; via via ognuno aggiunge la propria ripetendo tutte le precedenti. Anche in questo caso la tendenza è ripetere la sillaba del compagno su una tonalità diversa. L’ invito a non considerare solo da, ma bla, tol, miè… Il secondo gioco consiste nell’indossare un impermeabile. Bisogna inventare una situazione. L’esempio che faccio viene ripreso e ripetuto. Osservo che non devono limitarsi alla casa, ma immaginarsi in ambienti come il ristorante, l’ospedale… ed elaborare una breve storia che giustifichi i modi diversi (schifato, addolorato, irritato...) di indossare l’indumento. Fanno sempre fatica a staccarsi dagli ambienti quotidiani: hanno scarsa esperienza del mondo? vogliono sentirsi al sicuro? perché non fanno ricorso alla loro cultura di film, libri, videogiochi? è una cultura così poco produttiva? Faccio riflettere su alcune incongruenze. Raffaele solleva l’impermeabile e lo annusa infastidito. Sta ragionando da attore onnisciente, non da personaggio. “Mostri al pubblico le tue intenzioni, invece di nasconderle; tu sai già tutto, e lo riveli. Che l’impermeabile puzzi è una scoperta, non un’esibizione.” Errore comune, questo di lavorare sulla scena da attore e non da personaggio. Si comanda a sé stessi avendo in mente lo sviluppo dell’opera, invece di viverla momento per momento, svelando via via le emozioni. Qualche altra osservazione e poi via, si comincia.

Giornata grigia. Infatti non hanno studiato. Non possiamo andare avanti a esercizi divertenti. Ci si deve rassegnare al lavoro duro. Ma non è facile. Quando ci sono i primi cedimenti, temo subito la frana. Di colpo, mi prende lo scoraggiamento. Che cosa ci faccio, qui? In un’aula troppo angusta, senza un palco, senza le luci? Come posso fare teatro in un posto così? E loro? Davvero vogliono fare teatro o solo divertirsi? E perché non ho proposto una storiella per bambini, frizzante e facile? Che senso ha affrontare una Medea con ragazzi che hanno voglia di muoversi e chiacchierare? Non sto sbagliando tutto? Ormai siamo imbarcati, l’oceano della messa in scena ci accoglie con marosi spaventosi, e siamo circondati da scogli e mostri, il naufragio è vicino, e non si vede una spiaggia tropicale pronta ad accoglierci.

Andiamo avanti con la lettura. Devo combattere su due fronti: con gli interpreti e con il testo. È inevitabile che il testo risulti letterario. L’ho scritto per me, non per i bambini. Ora devo adottarlo a loro. Troppo lungo, provvedo a tagliare. Mi appaiono le prime difficoltà come ostacoli insormontabili: sempre tutti in scena, ma dove li metto? a fare che cosa? Devo trovare una linea musicale comune, che fondi i mediatori con i personaggi. Devo veleggiare verso la concentrazione, l’immobilità vibrante, la… trasformazione. Il concetto è difficile. Non posso discuterne con loro, non capirebbero. Devo ricorrere a stimoli fisici, ma anche questo appare troppo difficile. Li invito a cercare un registro vocale diverso, a fare esperimenti su di sé. Quando riescono a emettere un suono più nasale (ma non troppo), o più scuro (ma non troppo, per non fare teatrino), lo tengono per due battute, poi se ne dimenticano. E la postura? Cinque secondi, poi il corpo si raddrizza. Ecco le due direzioni di lavoro: la continuità dell’espressione fisica che garantisca coerenza, e non questa bailamme babelica; e la flessibilità mentale che supporti la ricerca di soluzioni. La trasformazione implica che l’interprete esca da sé stesso, si dimentichi; e affronti un viaggio verso un altro da sé, senza arrovellarsi sulla corrispondenza psicologica: il personaggio nascerà da una trasformazione che soddisfi a prescindere dalle linee psicologiche, utili solo come stimolo iniziale.

Ripetiamo il pezzo del coro sorretto dalle percussioni dei mediatori. Si ricordano, ma con molte sbavature. Molti ragazzi faticano a capire la necessità della perfezione. Badano al risultato, non alla sua qualità. Correggo i tempi, che devono essere precisi. Rendo più incisive le voci. Anche qui, sono richieste attenzione, concentrazione, precisione, pazienza, coordinazione, cooperazione… e per i miei piccoli grandi interpreti non sono comportamenti facili.


Bene, a casa ho tanti problemi da risolvere. Ma il teatro è appunto questo. Una “fabbrica del duomo”, una costruzione mai terminata (lo diceva anche Salvini, il “grande attore” di fine Ottocento: uno spettacolo viene rifinito durante le repliche, e la sua preparazione non finisce mai), un’utopia che presenta molte più difficoltà rispetto ad altre arti. Anzitutto, si lavora in gruppo e la volontà dell’uno deve sempre confrontarsi con quella degli altri. Poi si lavora con idee di spazio e movimento che devono essere concretizzate. C’è un continuo confronto tra il sogno e la realtà di oggetti che al confronto risultano vili e inadeguati. Infine, la battaglia con la parola. Il testo non è mai un teatro, ma una porta su mille possibili teatri. La sua messa in scena è faticosa perché deve fare i conti con le esegesi, gli interpreti, le risorse. Tutto per una sera, una soltanto. Irripetibile, come lo è l’esistenza. 

Giornata grigia. Ma il sole torna, certo che torna.

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