Ieri
sono stato all’Attico delle Arti di Novara per una collaborazione. Al termine
corridoio sul quale si aprono le aule per i corsi di musica, danza e canto, si
estende sulla destra un salone largo otto metri e lungo una decina. Addossati
alle pareti sul fondo pannelli neri telati alti due metri e mezzo, a metà circa
della lunghezza un carrello di luci al soffitto, sui lati pile di sedie nere.
Un ampio rettangolo a tre dimensioni nello splendore del vuoto, come l’alba di
un nuovo giorno non ancora reso caotico dalle azioni umane. Il contrario di una
creazione biblica: non dal caos all’ordinamento dell’universo, ma dall’ordine
della mancanza di vita verso il caos del noto e del convenzionale, per
ricercare un ordine pregno di vita. Quello era un teatro. Più che il pomposo
grande teatro di città con il velluto rosso e la poltrona imbottita. Un teatro
libero. L’ordine provvisorio da riportare al caos per far rinascere l’universo.
Non ci sono poltrone avvitate al pavimento, né distanze chilometriche tra
attori e spettatori, né impianti faraonici di scenografia e illuminazione, né
schiere di tecnici, né budget milionari, né supporti politici e mediatici, né
serate di gala per pubblico selezionato…
Nel
teatro tutto è semplice e immediato, e tutto è da fare.
Osservo
la sezione di rettangolo adibita a palcoscenico, priva perfino di pedana. La si
può comunque sistemare, ce ne sono nel locale adiacente. Un rettangolo minore inscritto
nel rettangolo maggiore. Una pagina bianca sulla quale scrivere con il movimento,
la voce, la luce.
Immagino
di spostare i pannelli a libro. Ogni spostamento crea relazioni diverse tra i
pannelli e lo spazio vuoto, determinando varchi, corridoi e aree di diversa
dimensione. L’aggiunta di un trabattello mascherato sul fronte e di cubi e
pedane offre la risorsa della verticalità praticabile. Drappi sui pannelli
aggiungono il valore metaforico dei colori, mentre i vuoti riempiti con strisce
di cellofan aprono porte sul vedo-non vedo, sull’indistinto, sul lontano-nel
vicino.
La
seduzione è operata dall’intersecarsi degli spazi in una tridimensionalità
vitalizzata dall’attore, che non ha bisogno di fondali realistici e arredi, ma
solo di itinerari e forme solide per le interazioni fisiche. Voce e gesti
creano illusioni e danno forma immaginativa alla realtà sottintesa dal testo.
La
luce soccorre a modificare lo spazio che altrimenti rimarrebbe paralizzato
nella forma iniziale. Variazioni di angolazione e di intensità, oltre che di
colori, modellano le dimensioni e suggeriscono ora spazi aperti ora angusti,
facendo assumere agli oggetti espressioni mutevoli.
L’attore
non instaura un rapporto di sfruttamento passivo con ciò che ha intorno a sé
(pannelli, spazi, oggetti, luci), ma considera ogni elemento scenico come un
partner con il quale interagire alla pari. Egli si accosta a una sedia, la saluta
e pensa: che cosa posso fare con te? che cosa possiamo fare insieme? Movimenti,
gesti e voce entrano in sintonia con le materie della scena e fanno qualcosa
con loro, rendendo partecipe del rapporto la musica. Ecco, c’è tutto. Un attore
adattabile, uno spazio duttile, un oggetto divergente, una musica ispirata dal/dedicata
al “fare”.
Sinonimi
di fattivo: attivo, costruttivo,
determinante, efficace, efficiente, concludente, conclusivo, alacre, operativo,
sbrigativo, produttivo, fruttifero, positivo, utile, decisivo, risolutivo,
valido, energico, funzionale, funzionante, proficuo, redditizio, benefico,
spicciativo.
E i
suoi contrari: controproducente, dannoso, improduttivo, inane, comodo,
disimpegnato, fiacco, impotente, inadatto, inefficiente, morto, ozioso,
passivo, quieto, controindicato, deleterio, negativo, nocivo, abulico, apatico,
astenico, flemmatico, lento, svogliato, inefficace, inutile, sterile, vano,
disfatto, enervato, esausto, fiaccato, inerte, molle, moscio, sfinito,
spossato, stremato, svigorito, ammosciato, spompato, accademico, fine a se
stesso, salottiero, debole, ignavo, indifferente.
In
questo teatro, i contrari di fattivo
indicano: la scenografia estetica e non funzionale, l’arredo di scena
realistico, la recitazione del dire e non del fare, l’interpretazione narcisistica
da applauso, un rapporto con il pubblico clientelare…
A
volte penso che Stanislavskij abbia operato una vera e propria rivoluzione, ma
che anche questa, come tutte le rivoluzioni, sia poi degenerata in un
formalismo unidirezionale responsabile di attori dalla bravura straordinaria,
ma irritanti. La scuola americana dell’Actors Studio rifornisce lo schermo di
interpreti maniacali, tanto bravi e tanto chiusi nel proprio egocentrismo da
rendere conflittuale il rapporto con il pubblico. L’attore viene amato/odiato
perché ciò che fa è diretto più alla soddisfazione dello specchio che alla
comunicazione con sé e con il mondo.
Nel
teatro fattivo il pubblico prende
posto nei due terzi del rettangolo che non sono scena, ma che possono essere
invasi dalla scena in una dilatazione dello spazio fantastico eccezionale e
momentanea. Esiste lo spazio del pubblico, ma non il pubblico in sé, dato che
per l’attore si riduce a uno spettro seduto di fronte, privo di lineamenti. Lo
spettro è sia lo sconosciuto sia la proiezione dell’attore, che recita a se
stesso una storia.
Questo
è il vero rapporto tra attore e pubblico nel teatro fattivo. Un rapporto non necessario, poiché l’attore è sacerdote e
vittima, fedele e dio. Prima che a un pubblico di carne, egli recita a un
pubblico ideale. Questo non significa un pubblico perfetto. È il pubblico
indefinibile della comunicazione in sé, non legata a un destinatario e a un ricevente,
e nemmeno anonima come il target della comunicazione di massa, ma costituita
dallo sdoppiamento dell’attore, che è sempre interprete e fruitore della scena,
ossia attore e pubblico.