lunedì 10 agosto 2015

PINOCCHIO, OSSIA LA COMMEDIA TRAGICA DI UNA TRAGEDIA IN BURLA. Pinocchio tradotto in teatro.

Aquilino
PINOCCHIO, OSSIA LA COMMEDIA TRAGICA DI UNA TRAGEDIA IN BURLA.
Pinocchio tradotto in teatro.


“C’era una volta…”
L’incipit di Pinocchio non è un riferimento al mondo delle fiabe, ma a quello della narrazione. Se le città, non tutte, avevano le sale teatrali, Carlo Lorenzini bambino aveva le piazze e le osterie di Collodi dove giungevano i burattinai e i contastorie. L’incipit ci mostra quindi Lorenzini/Collodi che di fronte a una platea di bambini si appresta a raccontare le avventure del burattino. Ma, per il momento, non dispone nemmeno di un burattino compiuto, solo di un pezzo di legno di nessun pregio. Teatro povero, fondato più sull’immaginazione che sullo sfarzo della scenografia; e più sul ritmo e sull’immediatezza delle emozioni e dei sentimenti, facilmente riconoscibili. Un teatro che non nasce per i critici, ma per un pubblico popolare.
In questo teatro che parte dalla narrazione per farsi poi commedia, farsa, tragedia, balletto, cabaret… e infine dramma borghese, tutto avviene non secondo i crismi della letteratura in prosa, ma quelli della messa in scena, tra i cui requisiti c’è sempre la magia. Come capita il pezzo di legno nel laboratorio di Maestro Ciliegia? Magia, caso, fato. Come a suo tempo ha fatto la tragedia greca, solo il teatro può combinare felicemente l’incontro tra il mondo vegetale e quello umano, incontro che profuma di mito.
Il ciocco, infatti, parla. Se parla, si presuppone una precedente metamorfosi. Un bambino è stato trasformato in pianta? Si tratta del bambino che bisogna liberare dalla servitù floreale per farlo tornare umano? È questo il senso circolare del libro? Ma chi ha operato la metamorfosi? Gli dei? No, non se ne parla da nessuna parte. La Fata-Grande-Madre-Gea-Signora-degli-Animali? Se così, si è pentita e vuole estrarre il bambino dal legno. Lo farà, ma avremo un bambino-ciocco, altro legno da sbozzare con la buona educazione, il sacrificio dello studio e del lavoro. In conclusione, non è possibile uscire da questa circolarità asfissiante di essere una vocina imprigionata in una materia estranea e amorfa? Vocina di un ciocco che un Bianco, pagliaccio non amico dei bambini, che non fa ridere e anzi terrorizza, sbatte contro il muro e minaccia di buttare nel fuoco per farsi una pentola di fagioli?
I miti sono molto complicati. E crudeli.

Il dialogo tra il falegname e il ciocco è una clownerie che si sviluppa con l’ingresso di Geppetto-Polentina. A Maestro Ciliegia viene facile assegnare il ruolo di Bianco e a Geppetto quello di Augusto, ma è il Bianco che ha il naso rosso, forse perché Geppetto è già abbastanza caratterizzato dalla “polentina” che ha in testa. Dopo una partenza civile, il dialogo si fa serrato e poi insultante, nella più bella tradizione circense, con tanto di scambio di parrucche e botte da orbi. Il Bianco è nella tradizione: freddo e autoritario, diventa anche violento precorrendo i pagliacci novecenteschi dell’orrore, in stile King. L’Augusto non è certo un pagliaccio tutto cuore alla Charlot: il pezzo di legno gli serve per ricavarne uno schiavetto che lo mantenga lavorando... come teatrante di strada. Come può, dunque, Geppetto arrogarsi il diritto-dovere di educatore quando egli per primo prospetta per il burattino la vita di strada (purché se ne ricavi un guadagno)?

Ci spostiamo nella casa di Geppetto e l’autore ci fornisce le didascalie. Non è una casa borghese, ma un rompicapo dada che prende luce da un sottoscala, con un trompe l’oeil nella migliore tradizione del realismo. Una sedia, un letto, un tavolino, tutto di poco pregio. Dove porta la scala? Da nessuna parte. Appartiene a un altro appartamento? No, la casetta di Geppetto sorge solitaria ai margini del paese. Forse  è una casa incompiuta. Il monolocale funge da laboratorio di falegnameria. Potrebbe anche essere la sede fredda e spoglia di una piccola compagnia di mimo nella quale Geppetto si esibisce per un pubblico assente. Ha tra le mani un pezzo di legno con cui interagisce come se fosse il pupazzo di un ventriloquo ancora privo di parola, ma capace di combinargli brutti scherzi. Il gustoso e sofferto monologo trova conclusione in un gioco d’ombre dietro il fondale neutro che ci porta per la prima volta sulla strada. La strada è il regno di una legge prepotente e incapace di dare la giusta valutazione dei fatti; e di una folla di perdigiorno maldicenti altrettanto ottusi per quanto concerne la comprensione della realtà che si mostra ai loro occhi ciechi. La strada, insomma, è prevaricazione e calunnia. Una trappola.
Segue una scena drammatica. Pinocchio, che sapeva solo ridere, ora sa recitare, probabilmente per esigenze di copione, dato che non ci si vuole accontentare di una pantomima. La sua prima performance è un thriller. La tensione è subito creata da una colonna sonora da incubo: cri-cri-cri…  Il grillo l’accentua con il moralismo, la saccenteria, l’invadenza. Il pubblico, a ogni sua provocazione, pensa: taci, se no finisce male. Infatti, il breve confronto finisce male, con un grillicidio in diretta, senza la mediazione del fuori scena e della rhesys come avrebbe fatto Euripide. Spiaccicato sulla parete: cri-cri-cri (smorzato, con l’eco). Buio. In questo buio inquinato per esigenze di pubblico dalla luce criptica del sottoscala che a sua volta prende luce… da dove? da una crepa nel muro?... in questo buio si muove un burattino loquace che ama monologare per raccontare la fame primitiva che lo sconvolge. Un esercizio di stile. L’interprete passa in rassegna: pentimento, buoni propositi, scoramento, sfinimento, euforia, indecisione, stupore, rabbia, disperazione… e di nuovo senso di colpa e pentimento.
Ci vuole un grande attore, per fare tutto questo. Oppure un burattino.

Secondo atto del thriller. Una ventata che è come la zampata di un orso strappa via il fondale neutro e tuoni e fulmini mostrano una scena desolata: “Pareva il paese dei morti”. Un morto c’è, il Grillo. Un altro è prossimo a diventarlo: Pinocchio, malato di fame terminale. Siamo in un dramma elisabettiano? Impossibile, con un protagonista come Pinocchio. Egli è il servo sciocco della commedia plautina che dopo essersi preso una secchiata d’acqua in testa si brucia i piedi sullo scaldino: bello ridere delle disgrazie altrui! Le farse presuppongono scherzi e vittime e le vittime non hanno nessuna voglia di ridere. Tanto più che quando è stato assegnato il nome di farsa a questi intermezzi il protagonista era un diavolo precursore di Arlecchino, e siamo nel tredicesimo secolo.

Dopo tanto trambusto, ci vuole una scena da commedia sentimentale. Il ritorno di Geppetto è tutto nell’esclamazione: “Pinocchiuccio mio!” e nell’abbraccio paterno, il primo. La prigione ha fatto bene al vecchietto. Cede al burattino le tre pere (il benservito degli istituti penitenziari?) che però sfrutta per una lezioncina sull’essere troppo sofistici e delicati di palato. Quindi: buoni sentimenti, forte senso della famiglia, moralismo. Sì, ci troviamo in un teatro di fine Ottocento. Tenuto d’occhio dal parroco: ogni forma d’arte dev’essere educativa. Il quadretto si completa con ulteriore generosità da parte di papà Geppetto: restaura i piedi di Pinocchio (dopo averlo lasciato implorare a lungo) e gli procura un Abbecedario svendendo l’unica casacca che dovrebbe difenderlo dal gelo dell’inverno. Chi ama, soffre. Infatti, finora i sacrifici che Geppetto predica a Pinocchio li fa solo lui: Pinocchio incassa e fa finta di niente. Forse questo teatro vittoriano non è così educativo come vuol far credere. S’insegna tanto, ma s’impara poco. E l’Abbecedario non sarà il Giannettino del Lorenzetti che ebbe fortuna, ma dispiacque ai governativi perché… non si può insegnare divertendo!

L’Abbecedario è il mezzo per entrare nel Gran Teatro dei Burattini, che è poi la vera casa di Pinocchio, pur essendosene dimenticato. Qui facciamo la conoscenza di colui che è stato spesso identificato con l’Orco, ma non è per niente Orco, è l’imprenditore di quei tempi senza né sindacati né leggi sul lavoro: Mangiafuoco. Ma quanto fuoco c’è in questo libro! Per vedere quanto, seguite Manganelli nel suo “Pinocchio: un libro parallelo”; vi fa esplorare altri colori, oltre al rosso, come il bianco e il nero. Il teatro dei burattini. Ricordo ancora l’emozione quando, in età di scuola elementare, ho assistito allo spettacolo di una delle ultime grandi compagnie girovaghe. In realtà, si trattava di marionette, come sembrano anche queste di Collodi. E l’impressione che fossero vive era fortissima. Infatti, queste sono vive. Tanto vive e sfrontate da tenere testa al pubblico e da deciderne i tempi: mettetevi in pausa, c’è Pinocchio!
Come in tutte le rappresentazioni di marionette, se non c’è la guerra c’è un malvagio assassino, e se manca quello ci sono comunque indigenze e malefici. Dopo la festa, la spavalderia dei burattini si spegne con l’arrivo di Mangiafuoco. La sua è un’impresa redditizia e lui sa bene come farla funzionare: risparmiando sulla forza lavoro. Gli operai hanno così poca importanza (trova ovunque dei morti di fame disposti a sfacchinare per una miseria) che può usarli come combustibile. Siamo in un romanzo di Dickens messo in scena da un regista coraggioso che sfida i tempi, parlando di sfruttamento e di infelicità delle classi subordinate e subornate, le cui vite sono comprate per pochi spiccioli. Nella drammaturgia, non manca la nota eroica, ma qui non c’è un arruffapopoli, ma un burattino che si sacrifica per l’amico. Insomma, non si esce dal patetico. Tanto da portare alla commozione l’insensibile Mangiafuoco che diventa una mammoletta, a dargli credito. E non fa, quindi, anche l’elemosina che gli sistema la coscienza? Così può continuare a sfruttare i burattini e a buttarli nel fuoco per arrostire il montone, cibo da ricchi. Addirittura un bacio! Come fanno i politici e i papi, i genitori distratti e gli amici traditori. Tutto, purché Pinocchio se ne vada: certe idee di libertà e di eroismo sono come un virus letale per gli affari.
Insomma, Ibsen c’è e non c’è, ma si affaccia.

La partecipazione straordinaria del Gatto e della Volpe ci riporta a quell’idea di teatro panteista che aveva stimolato Aristofane e altri a mettere in scena uccelli, vespe, rane, cavalli… I confini tra vegetale-animale-umano si fanno labili e si può passare da uno stato all’altro in nome della Vita con l’iniziale maiuscola. Qui abbiamo un gatto, animale domestico, animale del dentro; e una volpe, animale selvatico, del fuori. Una coppia bene assortita per il comune progetto di abbindolare gli uomini. Sono ambedue infidi, ostinati, crudeli. Sono i classici predoni di strada. Un bel pezzo di teatro d’intreccio, una novella boccaccesca portata all’estremo, in cui le figure negative non sono solo imbroglioni, ma esseri malvagi che non meritano pietà; e infatti li aspetta un futuro di desolata solitudine e miseria.
La drammaturgia prevede tre atti, in un crescendo emozionante che alla fine, però, lascia l’amaro in bocca. Ma come? Il signor Collodi, dopo tanta passione espressa per il suo burattino, lo abbandona appeso al ramo di una quercia, morto? Ma che finale è? Stiamo a vedere. Il primo atto si svolge per strada, fucina di tutti gli incontri e di tutte le avventure, calderone fumante della vita nei suoi sapori più genuini. Un incontro che svela le reciproche esigenze: dalla parte di Pinocchio il desiderio di avere tanti soldi per risarcire Geppetto e per avviare un’esistenza di bagordi senza la scuola e il lavoro; dalla parte dei due delinquenti non solo questo, ma anche il gusto di dimostrare quanto sono furbi loro e quanto stupidi gli altri: c’è un odio, in loro, nato da chissà quali traversie nel passato, o da chissà quali rivalse (forse odiano la propria condizione di animali e sognano di diventare uomini come Mangiafuoco).
L’impresa continua, nell’atto secondo, all’interno di una locanda-trappola, dove s’intuisce che il Gatto e la Volpe non sarebbero tali senza la complicità di tanta brava gente che, sempre per soldi, li protegge e li asseconda. Se la strada è pericolosa, non lo è da meno un luogo pubblico come la locanda. Insomma, si è al sicuro solo a casa propria! Ed ecco l’atto terzo di questo dramma brechtiano. Pinocchio, catturato dagli assassini, muore impiccato. Quali le colpe? Essersi fatto ingannare, aver dato credito a persone civili come il locandiere, essersi illuso che una casa contenga sempre gente per bene pronta ad accogliere (e invece la casina nel bosco è una casa di morti o di bambine che si fingono morte); e infine non avere dato retta al Grillo che ritorna dall’aldilà per dargli il giusto consiglio (la caparbietà dell’educatore!). Attento, Pinocchio, direbbe Brecht, hai ragione a dire: “Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno dei consigli.” Ma se non provvedi tu stesso a sostituirti con la tua testa, riflettendo sull’esperienza, ai condizionamenti altrui, che ti rimane? L’incapacità di valutare che cosa per te sia bene o male.
E qui Collodi-Lorenzini vuole mettere la parola fine. Un invito a una presa di coscienza ancora poco chiara: guardate come finiscono i ragazzi di strada che nessuno aiuta, e questa sarebbe una società civile? Perché abbandoniamo i giovani alle grinfie dei criminali? L’azione educativa è fallita! E così via.

Ma lettori e casa editrice esigono una continuazione e Collodi ci presenta la seconda parte intitolata “Le avventure di Pinocchio” (la prima era “Storia di un burattino”).
Incomincia con un colpo di scena della bambina dai capelli turchini, che decide di non essere più morta e di aiutare il burattino. Adesso è una Fata a tutti gli effetti, infatti comanda che è un piacere. Il Can-barbone e la carrozza non ci fanno pensare a Molière? Siamo nel Seicento e la Fata è una dama con tanto di neo e borotalco sulla parrucca, trucco pesante e profumi asfissianti, vestiti ingombranti e capricci a non finire: lei è comunque un’aristocratica.
Tutto quello che segue è una gradevole commedia di Molière, con tanto di medici senza scienza, medicine amare non testate, sceneggiate funebri e atteggiamenti da misantropo che chiede solo una cosa: di essere lasciato in pace con la sua libertà stradaiola.
Molière non basta, tuttavia, per interpretare le scene successive nel paese di Acchiappacitrulli. Ci vogliono autori novecenteschi come Beckett e Ionesco per mettere in scena i dialoghi con il Gatto e la Volpe, il Pappagallo, il giudice Gorilla e il signor serpente.
E alla parte più dura dell’arte recente, quella in bianco e nero, del teatro dell’assurdo, espressionista e dadaista, futurista e verista, quella che sfocia nel teatro dell’oppresso e di liberazione, nella performance di strada del Living e nella narrazione civile e di denuncia. 
Messo alla catena da un altro dei tanti padroni presenti nel romanzo, Pinocchio vive un altro dilemma brechtiano: fedeltà a lui da cui dipende il proprio destino o ai nemici che attaccano il padrone nel suo punto debole, la proprietà? Come tante vittime, Pinocchio sceglie la  via del collaborazionismo e viene premiato con la libertà.

Possiamo definirle siparietti, le successive scene, brevi intermezzi che introducono un nuovo genere, il musical. Pinocchio perde Geppetto e ritrova la Fata, questa bambina-sorellina-signora-mamma (e non moglie) che i critici ora riferiscono al mondo delle fiabe ora a quello del mito; e non manca chi le mette l’aureola e la consacra addirittura Madonna. Resta comunque una donna bugiarda, incoerente, cinica, insensibile, prepotente, antipatica. Altro che fatina! D’altronde, i tanto lodati capelli turchini, sono un pugno nell’occhio da signora attempata esibizionista o insicura che non ha un buon rapporto con il proprio corpo. La Strega dell’Est?
Tutto sa sempre di flash back: qualcuno rimprovera Pinocchio e gli indica la retta via; Pinocchio si accalora in promesse e giuramenti e per un breve periodo fa il santarellino. Poi di nuovo il disastro. Siamo in un clima di ritorni, ripetizioni e ridondanze: ritorno a casa della Fata e promesse; un secondo Mangiafuoco ancora più mostruoso, il pescatore; il cane Alidoro… e stavolta, invece dei burattini affettuosi, una masnada di compagni di scuola con i quali fare una rissa epica. Essa offre all’autore, autore anche di manuali scolastici, i primi dell’Italia Unita, la possibilità di scaraventare in mare i libri noiosi in uso all’epoca, che infatti perfino i pesci disdegnano.
Insomma, tra cento digressioni e qualche mostro in più, degno dei musical di Broadway (ricordate la Piccola bottega degli orrori?), Pinocchio approda nel Paese dei Balocchi.
Un’altra simmetria. Tre atti per raccontare una storia simile a quella del Gatto e della Volpe.
Atto primo: sogni di una vita di baldoria. Atto secondo: la dura realtà delle tragedie consumate nell’indifferenza generale. Atto terzo: la morte triste del protagonista, là impiccato e qui affogato.
La parte centrale è la più interessante e offre molteplici piani di lettura. Pinocchio si trasforma in un asino e lavora nel circo. Davvero è solo colpa sua? Quando un uomo si trasforma in asino, iena, squalo, belva, serpente, maiale, faina… è davvero solo colpa sua? In quale punto della propria vita, con un atteggiamento diverso, avrebbe potuto evitare la metamorfosi? Ma, quello che è più importante: chi è responsabile dello sfruttamento di Pinocchio-ciuchino? L’odioso e disumano (certo un alieno, gli uomini non si comportano così; eh, no, signora: non serve fare ricorso agli alieni, sul pianeta c’è tutto un catalogo di uomini perfino peggiori) Omino di Burro (uscito da un incubo)? Il direttore del circo? E gli spettatori? Ridono del somaro e addirittura pagano per assistere alle sue sofferenze.
Questa seconda messa in scena di uno schema drammaturgico fatto di illusione masochista, disinganno, punizione, trova il proprio ambito sul palcoscenico attrezzato di tutto ciò che la moderna tecnologia può offrire. Grande palcoscenico, grande orchestra, validi cantanti, stuoli di ballerini, acrobazie e coreografie entusiasmanti, effetti speciali strabilianti e applausi scroscianti. 
Pinocchio prepara la propria apoteosi, che sarà modesta e avverrà tutta in un monolocale male arredato, riscaldato solo da una pittura sul muro di nessun valore artistico.

La sua resurrezione (vegetali e animali, animali e umani, vita e morte… macedonia cosmica) ci porta finalmente al finale. In un ventre di pesce che può essere una tana tra le radici della grande quercia o l’utero di chissà quale femmina, magari nemmeno umana, perché di donne non è che ce ne siano tante, in questo libro; e la Fata non è tipo da affrontare una gravidanza: lei educa, non alleva; e tantomeno partorisce.
L’incontro tra Pinocchio e questo nuovo Geppetto che si è arreso e fa solo il vecchietto e non più il nonno gendarme è rivelatore di un’altra definitiva metamorfosi già avvenuta nel burattino. A guardarlo, è come prima. Ma, come gli dirà a breve la Fata (si sta già dedicando a un altro progetto e per non perdere tempo gli appare solo in sogno: “In grazie del tuo buon cuore…”), il suo buon cuore, buono perché ora è in sintonia con i desiderata dei vecchietti, dei carabinieri, dei pappagalli, dei grilli e delle fate, fa sì che egli non sia più il burattino combina guai, ma “un ragazzino perbene”.

Che teatro è, questo? Quello che la vince sempre. Rassicurante, assomiglia tanto alle produzioni cinematografiche di storie lacrimose edificanti che poi si scopre hanno per finanziatori fabbricanti d’armi, pescecani (quelli veri) della Borsa, miliardari avidi, estremisti nazionalisti, fanatici religiosi… Il finale di Pinocchio ci rassicura su tanta produzione di Letteratura per ragazzi: diciamo loro che bisogna essere cittadini rispettosi delle leggi (tutte!) e religiosi e caritatevoli (non significa solidali) e patriottici; diciamo che il mondo è bello e che se qualcosa non va lo aggiustiamo subito; e che tutti hanno una possibilità di essere felici e di arricchire; e che chi muove critiche è un sociopatico.
La scena in cui Pinocchio osserva il burattino “appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le gambe ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo” e dice solo “com’ero buffo”, e nient’altro, lo seppellisce così, come una cosa buffa… è tra le più amare e avvilenti della letteratura.
Ma peggio ancora quando nella stalla ritrova Lucignolo. Prova dispiacere, forse; infatti, “presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso” (a uso e consumo degli spettatori che amano commuoversi). E rimproverato dall’ortolano spiega: era un mio amico… ma poi precisa: un mio compagno di scuola…  e ci manca: uno che conoscevo così così. Ecco, Lucignolo è subito dimenticato. Come un brutto incidente, una caduta nell’eresia che è meglio lasciarsi alle spalle. Ora Pinocchio deve lavorare e lavorare, studiare e studiare, rinunciare per il momento a… un vestito nuovo? La sua prima spesa importante è per un vestito? Allora è proprio vero, è diventato umano. E poi deve salvare la Fata (ma è giusto salvare le fate che possono autosalvarsi con i propri poteri?) e accudire un vecchio per il quale costruisce un carrettino, così subisce un’altra metamorfosi, quella in badante che spinge la sedia a rotelle. Ma quella Fata! Come le madri che si fingono malate e distrutte da mille disgrazie per imprigionare nella propria mente i figli, ai quali risulta impossibile la libertà dei burattini.
Il libro, in pratica, finisce con un necrologio.
E il teatro? Il teatro, per fortuna, non finisce mai.






venerdì 7 agosto 2015

L’ACIVILTÀ CANZONETTARA

I format musicali per la scoperta dei nuovi cresi delle sette note sono numerosi. Essi mostrano non solo gli atteggiamenti dei concorrenti e delle giurie, ma anche quelli dei familiari in trepidazione, che affidano al genio di casa la responsabilità di toglierli dall’anonimato e di renderli ricchi oltremisura.
Oltre alla musica, non trascuriamo la danza. Piccole Fracci nostrane e piccoli Nureyev d’oltremare che “danzano dall’età di tre anni e ora la danza è tutta la sua vita” dicono le madri degli impuberi che non hanno ancora terminato la scuola elementare.

C’è una frenesia, uno sballo bacchico, intorno a questi audaci adepti di Tersicore e… ehi, non c’è una musa della canzonetta! Possiamo cedere Calliope, che dall’epica passa così alla rima baciata. Dicevo: uno sballo che investe i vip dai giudizi ora cinici e spietati ora bonari e addirittura amorevoli (a discrezione degli sceneggiatori); e i concorrenti che non pensano ad altro che a “migliorare sempre più me stesso perché io sono qui per vincere”; e le famiglie (“Gli abbiamo dedicato il nostro tempo libero, vogliamo che sia felice”); e il pubblico, che piange, ride, urla, sospira, batte le mani fino a spellarsele, dice idiozie; e i tecnici che se sbagliato un effetto speciale si suicidano, chi non è all’altezza fuori; e gli sponsor che di tutto fanno un mercato, anche dei sentimenti, delle convinzioni religiose, delle disabilità, degli scandali, dell’imbecillità.
Dioniso regna sovrano. Ma dubito che sia lui. Questo è solo un demone incontrollabile, figlio della Coca-Cola, che si prende gioco del mondo.

Spesso questi giovani che cercano il successo hanno abilità straordinarie, coltivate con anni e anni di sacrifici. Ma appunto perché fanno tutto per il successo le loro abilità divorziano dalla passione originaria e veleggiano verso avventure simili a quelle dei primi navigatori: qualcuno sbarca a Manhattan, altri s’inabissano.
Quello delle canzonette è un mondo d’emozioni. Ma emozioni scollegate dal contesto. Anche quando i testi affrontano tematiche importanti quali la giustizia sociale, l'emarginazione, l'ecologia... L'emozione è decontestualizzata e quindi innocua, e di conseguenza promossa a pieni voti dal potere.
Cantare insieme, cantare d’amore, cantare di sensazioni immediate, facili da provare senza danno per la salute, cantare con il cellulare sbandierato, cantare per le telecamere, cantare per le lacrime che non esprimono dolore, ma partecipazione. Ecco, sì, ci si sente insieme. Insieme a chi? A tutti e a nessuno. Cantare, infine, per condividere la fama. “Ce l’ha fatta” si dice. Tutto risolto, è un dio in terra. Eh, il divismo. Storia vecchia. La stagione magica della tragedia greca è durata poco più di un secolo, e poi gli attori dilettanti sono diventati subito divi. Con tutte le pretese, le arroganze e le schizofrenie del caso.
Il governo, un tempo, provvedeva a potenziare l’attività fisica nella scuola per fabbricare soldatini pronti a obbedire ciecamente e a farsi ammazzare in difesa della patria (e dei privilegi degli oligarchi). Oggi all’attività fisica si aggiunge quella musicale, con l’intento di diffondere le canzonette come un virus benefico. I nuovi poeti sono i cantautori, la grande musica è quella scombinata delle discoteche. In tutti i paesi furoreggiano i corsi di canto, strumento e danza, preludio a un ingaggio televisivo e all’isola dei famosi che una volta si chiamava paese della cuccagna. I cantanti di grido vengono proposti come ambasciatori di pace, filosofi, intellettuali, tuttologhi, santi (medesimo meccanismo per i protagonisti degli avvilenti film hollywoodiani). Nel testo di una canzone sembra celarsi il destino ultimo del mondo e non c’è ambito sociale la cui colonna sonora non sia l’hit del momento. Mass media, politica, cultura, storia, letteratura, arte… tutto si sta piegando alle esigenze dei divi del concerto e si piega talmente da spezzarsi la schiena.
Non parlo di inciviltà, ci siamo già dentro (come si può parlare ancora di civiltà quando si organizzano guerre di conquista mascherate da “dio lo vuole!”, quando si distruggono le foreste, s’inquinano gli oceani e l’atmosfera, si affama il mondo, si abbandonano a un destino di patimenti e morte la maggior parte degli abitanti di un pianeta devastato?). Ma di aciviltà: porsi al di fuori di ogni processo di miglioramento, dedicarsi solo al proprio benessere, ignorare ciò che non va in nome di un’esaltazione folle della perfezione del proprio cortile, coltivare sentimenti di odio, rifiutarsi alla cultura.
Le emozioni. Facili, immediate, gratificanti, inutili, controproducenti, stupide. Sembra che il fine ultimo dell’esistenza sia procurarsi questi stati d’animo fasulli, nati dal niente, sui quali si fonda la potenza economica dello star system, dei social network, della politica furbastra.
Tutti alla ricerca del momento emozionante, per sentirsi vivi.
Ma la vita è altro, e la vita la si può sentire davvero solo se la si ascolta in tutta la sua ricchezza fonetica e semiotica. La vita non sussurra solo lacrimucce sciocche, ma strepita e minaccia e ulula e strilla e farfuglia e farnetica e tace e parla senza dire. Così è la vita.
Comodo, per il potere, dare sempre più spazio alla canzonetta (strettamente d’autore) a scapito per esempio della scrittura. Questi ragazzi cantano, digitano, suonano, ballano… ma non fateli scrivere. E nemmeno leggere, per favore. Chi scrive e chi legge pensa. Non fateli pensare, per carità. Chi pensa prima o poi si accorge di quanto siano delinquenti e ignoranti quelli che tengono le redini del mondo. A scapito, sempre per esempio, del teatro. Il teatro? Ma sì, pur che non vada al di là delle emozioni dei piccoli eventi (ora tutto è evento), quelli d’amore; e  di casi personali che possono anche toccare la storia e la politica, ma sempre in piccolo; una cronaca, insomma, come c’è sui giornali e alla tivù, che non fa male a nessuno, gli scandali si dimenticano in fretta; ma non date al teatro quello che è eresia pura, il tono epico. Non torniamo ai miti, siamo matti? Quelli ci scardinano il sistema. Non fategli guardare il mondo dall’alto e da lontano! Tenetelo dentro la fognatura di questo nostro angolino arredato dall’architetto che ci va bene così com’è; e se proprio rompono dategli i concorsi prestigiosi, le sale prestigiose, le prime prestigiose, mandateci il presidente della repubblica, con la benedizione del papa. E se non gli basta lasciategli pure i miti, ma la tragedia greca mettiamola in scena con i tempi lunghi e la staticità che la rendono noiosa e inefficace: la gente vuole emozioni, mica discorsi tragici!
E soprattutto convertitelo in musical, il teatro. Il musical fa bene alla depressione; e adesso tutti in formazione che facciamo un flash mob.
Ehi, tu, accendi la videocamera! Questo è un evento, lo mettiamo su Youtube.



giovedì 6 agosto 2015

UNA POESIA DI BRECHT

TEBE DALLE SETTE PORTE



Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì ?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò ? In quali case, 
di Lima lucente d’ oro, abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’ archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide,
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’ India
da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse quando la flotta 
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
oltre a lui l’ ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’ uomo.
Chi ne pagò le spese ?

Quante vicende,
tante domande.

Bertold Brecht