mercoledì 31 agosto 2016

LABORATORI DI TEATRO E DI SCRITTURA

Due laboratori per me molto importanti. Con quello di teatro tento di formare un gruppo di ragazzi 10-12 al di fuori dei soliti schemi di giocoleria, comicità, travestimento. Un ensemble. Un gruppo che si confronta con un personaggio tragico, Medea. Che esplora il mondo sottomarino (o sotterraneo? non sono, tutti i personaggi, persone morte?) del personaggio. Che riscopre gli spazi e gli oggetti. Che si relaziona con il pubblico in modalità contrapposte. E tante altre cose, come le azioni psichiche al posto di quelle fisiche.
Con il laboratorio di scrittura intendo lavorare sulla visualizzazione e sull'analisi attiva delle emozioni e dei sentimenti. Dalla penna alla scena e viceversa. Scrivo e interpreto, improvviso e scrivo.



domenica 21 agosto 2016

Un racconto: PANMEGAS TETHNEKE




Mentre pascola le pecore, il dio Ermes osserva la ninfa Driope raccogliere ghiande sotto le querce. È mattino quando le si avvicina, è mezzodì quando la spinge ridendo nella grotta. Dopo l’amore, Driope si gonfia come un otre.
“Che cosa mi succede? Vuoi farmi morire?” domanda angosciata.
“Affido il tuo nome alla fama” le risponde Ermes accarezzandole il ventre. “Stai per partorire mio figlio.”
“Sarò madre di un dio?”
“Madre di Pan, figlio di Ermes dei dodici Olimpi, nipote di Zeus e di Maia.”
Nella grotta, dalla quale scorre via un ruscello, Driope spinge fuori di sé non un bambino roseo, ma una bestiola villosa che scalcia con zoccoli di capra. Inorridita, si rialza senza badare al sangue che le gocciola tra le gambe, lo sguardo fisso alla creatura dal pene eretto. Gli occhi del neonato la cercano, ma lei non si sente madre di un mostro con il muso barbuto sovrastato da due piccoli corni rossi. Si sente tradita, vorrebbe gridare la rabbia e il ribrezzo, ma vince l’impulso della fuga. In preda al panico, scossa dai tremiti, via, via dall’obbrobrio.
“L’ha voluto il Fato!” le grida dietro Ermes. Ne è addolorato, ma Pan deve fare a meno delle cure di una madre. Gli conviene maturare il più in fretta possibile, così patisce meno la mancanza delle carezze.
“Ma forse non sei nemmeno un tipo da moine. Non hai l’aria triste di chi è stato abbandonato. Tu basti a te stesso.”

Lo avvolge in una pelle di lepre.
“Un pastore ti vede bello. Una rupe anche. E così la foresta. Tu sei brutto per chi vede le cose a metà. Chi fissa lo sguardo su una sola pecora, non possiede la saggezza di chi scorge il gregge in ogni sua unità. Hai voce di frana e cascata, di tuono ed eco tra i picchi. Hai membra di olivo e di quercia. Zoccoli sul suolo come grandine. Peli come cardi e rovi. Ma negli occhi hai i fiori della siccità, i più belli. Quanta armonia nelle tue difformità! A chi loda l’incanto del crepuscolo e non sente lo strido del rapace, tu mostri una storia di preda schiantata. Balzi sul sentiero degli uomini e li atterrisci scomparendo tra i rovi, sul cammino della volpe. Quando tutti gridano confusione, tu suoni e canti e danzi. Pochi ti ascoltano. Non hai verità da rivelare, non sei seducente, non conosci storie edificanti, non hai ambizioni, non cerchi il consenso. Sei solo. Chi ti vede e ti ascolta rimane turbato. Infine qualcuno ti cerca. Non per amarti, ma perché gli hai messo l’inquietudine nel sangue. Vuole battere il piede con te sul suolo duro. Danzate con Pan! Non abbiate paura di chi vi guarda dritto negli occhi. Di chi non accumula ricchezze e onori. Di chi non ha confini da difendere. Danzate con Pan!”

Pan ascolta. Con un guizzo si libera della pelle di lepre e balza in piedi, saldo sulle gambe arcuate.
“Qualcuno mi amerà?”
“Io ti amo.”
“Verrai a vivere con me nelle grotte e nei boschi?”
“Io vivo sull’Olimpo.”
“Triste sapere fin d’ora che l’amore non esiste. Tenderò agguati alle ninfe. Forse qualcuna non mi guarderà con gli occhi, ma con il diletto degli altri sensi. Se fuggirà da me, coglierò da solo il mio piacere.”
Ermes è orgoglioso di un figlio tanto acuto e determinato. Conosce il mondo prima ancora di metterci piede. Come giudicherà l’Olimpo?
Gli dei sono impazienti di incontrare il figlio di Driope. La ninfa ha raccontato, sfogando la rabbia, quale brutto scherzo le abbia combinato Ermes. Le altre ninfe la consolano, ma le dee le proibiscono di diffamare colui che è comunque di stirpe divina, minacciando una severa punizione perché gli ha negato conforto e cure materne.
“Non è figlio mio” osa protestare Driope. “Io non partorisco mostri.”
“Vattene” la striglia Era. “Nessuno può generare un dio e poi insultarlo e abbandonarlo.”
Driope si morde il labbro per non replicare: Era è vendicativa.

Ermes sistema Pan in una cesta e vola sull’Olimpo.
La cerimonia è semplice. Zeus in trono posa lo sguardo sul neonato. Ascolta il nome che gli viene imposto e chiede a tutti gli dei di accoglierlo e di trattarlo con il dovuto rispetto. Gli uomini devono onorarlo con preghiere e sacrifici, riproducendone l’effigie nella pietra.
“Pan, mio figlio” annuncia Ermes con orgoglio. Strappa via la pelle di lepre, ma il cesto si rivela vuoto. Ermes, imbarazzato, sente su di sé gli sguardi perplessi. Zeus, sempre impaziente, volge l’imbarazzo in ilarità:
“Ti sei fatto un figlio invisibile, Ermes? Per farne il complice delle imprese furtive?”
Ermes non sa che replicare, ma una voce rauca lo toglie dall’impiccio.
“Eh, magari fossi invisibile! Qualche signora potrebbe credermi bello, così da sveltire gli approcci.”
Afrodite lancia uno strillo, sentendosi toccare le gambe. Solleva un poco la tunica e Pan appare a tutti, seduto sotto di lei, lo sguardo in su. Un brusio divertito e scandalizzato viene subito soffocato da un’occhiataccia di Zeus.
“Che cosa ci fai lì, mostriciattolo?”
“Potente Zeus, non fare la voce grossa con un cucciolo, e non insultarmi prima ancora di fare la mia conoscenza. Volevo che il mio primo sguardo sull’Olimpo non fosse riservato al tuo volto severo e minaccioso, ma a qualcosa che rimarrà per sempre nella mia memoria lasciva.”
“Impertinente!” esclama la dea soffocando una risata. Con il piede lo spinge lontano da sé.
“Mi scalci via” pigola Pan fingendosi addolorato “perché sono ancora troppo piccolo per accedere alla stanza dei segreti. Ma io crescerò, amabile, e se mi aspetti potremo generare una mandria di cornuti zampettanti che ti terranno allegra.”

Gli si avvicina Dioniso, estasiato.
“Meraviglia delle meraviglie” declama. “Vorrei per te recitare qui e subito versi sublimi, ma c’è più poesia nei tuoi cornini che nella testa presuntuosa di un poeta. Ermes, hai fatto un capolavoro.”
“Ricorda queste parole” lo ammonisce Pan, “quando di fronte a te avrai un caprone puzzolente e muscoloso.”
“Non vedo l’ora. Farai parte del mio corteo e con te i piccoli cornuti che avrai generato.”
“E con chi devo giacere, con una pecora?”
“Non è facile trovare una ninfa che ti soddisfi.”
“Una vale l’altra, ma l’una e l’altra si schifano del mio corpo stravagante.”
“Allora non ti rimane che la pecora.”
“Ho capito. Devo fare tutto da solo.”
“Non è adorabile?” domanda Dioniso facendo girare lo sguardo. Artemide sorride comprensiva, Demetra annuisce convinta, ma Afrodite si limita a una smorfia scettica, Era inarca un sopracciglio e Atena sillaba come un discepolo durante una lezione di geometria:
“Non mi sono chiari i suoi limiti. Quanto vi è in lui di bestiale, quanto di umano e quanto di divino?”
Dioniso non sa che rispondere e si rivolge a Ermes che però con lo sguardo invoca il soccorso di Zeus.
“Chiediamolo a lui” sibila Zeus.
Era si fa più attenta, sicura che il mezzocapretto s’ingarbugli in una risposta confusa e assurda.
Pan si mette a zampettare in tondo, le mani allacciate dietro la schiena, nella buffa caricatura di un filosofo ateniese.
Artemide emette una risatina limpida, che il cipiglio di Zeus soffoca.
“I cornetti mi ricordano una mezzaluna” bisbiglia svelta ad Apollo.

“Che io sia bestia” risponde infine Pan, rivolto a testa alta a Zeus, ma lanciando sguardi a tutti con secchi movimenti del capo “lo testimoniano le membra, la voce, l’odore, l’istinto. Sono uomo perché parlo e penso, ma non solo: incanto con le melodie e le danze. E se non fossi dio, come potrei trovarmi qui? Ma io non sono solo bestia, uomo e dio. Io sono anche e soprattutto qualcosa che nessun altro può essere: la fusione dei tre stati, che fa di me un essere straordinario e unico, sintesi di natura, umanità e divinità. Al signore degli dei e di tutte le cose io dico: sono orgoglioso di essere Pan e in Pan si mostra la gloria del cosmo contrapposto al caos, l’ordine universale che concilia gli opposti e stabilisce l’unità nell’armonia. Io ti riconosco, Zeus, ma tu mi devi onorare.”
L’espressione blasfema risuona in un silenzio attonito. Nessuno può dire a Zeus: tu devi. Nessuno può dirgli: mi devi onorare. Che fa, ora, il tonante? Incenerisce l’empio? Ermes fa un passo avanti per implorare perdono, ma il signore dell’Olimpo lo frena con un gesto.
“Io ti devo onorare?” domanda con voce controllata, senza ira.
“Non come umiliazione. Non oserei mai. Devi solo vedere in me l’espressione più completa e vera della vita. La sua manifestazione vivente. Ti piace l’espressione? Io sono la vita vivente. Chiunque, accettandomi, può trasformarsi in filosofo. Io propago non conoscenza, sempre incompleta e in conflitto, ma la sintonia con i cieli e gli abissi; e parlo della saggezza, la cui stabilità salva il mondo. Voglio essere una peste salutare, voglio contagiare gli uomini affinché cessino di essere tali e si sentano animali e divini. Voglio che la loro anima turbolenta diventi l’anima del mondo.”

Zeus riflette. Osserva divertito il cucciolo che zampetta come se danzasse, la cui voce aspra è incredibilmente ricca di fascino.
“L’uomo sottomette le bestie e teme gli dei. Come può identificarsi in te?” gli domanda.
“Non pretendo che si pianti due corna in testa. Gli chiedo solo di guardarsi intorno, sopra e sotto, non solo dentro se stesso. Gli propongo lo sguardo lontano del corpo-mente. Gli ricordo che la verità e la natura sono più semplici dei sillogismi e delle classificazioni. E più produttive dei fanatismi e dell’ansia di conquista. Dico al filosofo: canta! E al politico: danza! E al generale: passeggia! E al commerciante: fantastica! Da queste attività può nascere l’empatia per la vita in tutte le sue forme, conosciute e no, di carne e polvere, di pensiero e istinto, di commedia e tragedia. Poiché tutto, alla fine, è un dramma senza dolore.”
“L’uno ti dà la caccia e l’altro accende il fuoco sotto di te.”
“Le tue parole mi ricordano che ho un’altra qualità che nessuno di voi possiede.”
“Pan” sussurra Zeus, “non ti sembra di esagerare?”
“Io sono mortale, mio signore. Qualcuno di voi forse lo è?”
Lo stupore fa emettere un sibilo ad Ares.
“Tu sei mortale?” domanda Zeus. “Un dio mortale? Come puoi affermarlo? Tu sei un dio!”
“Sento la mortalità scorrere nel sangue e non c’è ambrosia che possa mutarne la sostanza.”
“È inaccettabile!” esclama Zeus. “Devo trovare il modo…”
“No. Io sono mortale. Muoio. Poi non so… poi non so che cosa succede. Non m’interessa. Ho un tempo e il tempo mi dice: fa’ ciò che devi e fallo in fretta.”
“Tu deliri. La morte toglie ogni gusto…”
“Alla vita? Ho una tale ansia di vita! Voglio inerpicarmi sui monti più alti, lanciare un grido più forte di quello dell’aquila, esplorare le grotte più profonde, gareggiare in corsa con i cavalli, bere latte dalle mammelle delle capre, danzare intorno ai falò, spaventare i viandanti, insidiare le ninfe, accoppiarmi con chiunque incontri sulla via, suonare malinconia alla luna, insegnare agli uomini come tosare le pecore, mostrare agli abitanti dei villaggi raccolti in cerchio le storie che incantano…”
“Ermes, tuo figlio è pazzo.”
Ermes, nascondendo il compiacimento, annuisce.

“Pazzo, sì” interviene Dioniso senza chiedere il permesso. “Ma non è di questa pazzia che ha bisogno il mondo degli umani? Hanno mostrato di sapersi difendere dagli assalti della natura bizzosa. Escogitano strategie che vanno a lode della loro ingegnosità. Mostrano di voler espandere l’intelligenza senza limiti, e questo è bene e non ci preoccupa, perché sempre incommensurabile sarà la distanza tra noi e loro. Ma non stanno tradendo la loro natura in parte animalesca? Assoggettano le belve e le inondazioni, ma perdono il senso di un mondo vivo da condividere. Un giorno vorranno conquistare le stelle, ma non è indispensabile che prima si mettano in sintonia con l’universo? Di questa follia parla Pan, e io lo capisco e lo sostengo. La follia di essere uno e tutto. Di armonizzare con l’esistente. Pan non sta recitando una parte, egli è la parte che recita e questo gli è possibile perché muore pur essendo un dio ed essendo un dio non può morire. Egli accoppia vita e morte.”
Per un tempo lungo, scolpito dall’immobilità dei presenti, nessuno dice niente. Tutti fissano Pan come se lo vedessero trasformato. Il piccolo mostro che vuole rivoluzionare il mondo.

“E sia” parla infine Zeus. “Faccia quello che ama fare. Cantare, suonare, danzare… e insidiare le ninfe… e anche i pastorelli, immagino… e poi che altro?... ah, fare il selvaggio nei boschi… e prendersi sassate dagli umani… salvo poi ergersi in mezzo a loro come narratore di storie… e chissà quali storie!... tutto questo vuoi fare, bestia umana e divina? Fallo. Porta agli uomini altra follia, a me basterebbe quella che possiedono, ma se tu… se tu giudichi che la tua sia diversa… Attento, però. Come possono venerare un dio animalesco? Un dio mortale? Un dio immorale? Diranno che ti ha partorito il Tartaro, non il buon Ermes. In quanto a te, Ermes… eh, sì, dagli un occhio. Forniscigli le parole efficaci e accorte, quelle che più ammaliano. Fanne un messaggero di follia utile. Va’, Pan, diffondi il pensiero che accomuna uomini e bestie e piante e rocce, feconda il mondo con la tua arte. Dioniso ti divora con gli occhi. Va’ con lui in un corteo che porti di villaggio in villaggio la poesia e il canto, la commedia e la tragedia. Il senso delle cose, dici tu. Ebbene, sia. Va’ per l’aspro suolo dell’Arcadia a recitare la tua verità, e se nessuno vuole ascoltarla, ulula alla luna, e poi scatenati contro gli ottusi pastori e fatti inchiodare a una montagna. Così comanda Zeus.”

Quando Pan si ritrova davanti alla grotta in cui è stato partorito, scorge la propria ombra allungarsi sulla roccia, un’ombra possente come quella di un toro.
Spalle larghe, torace muscoloso, pelle coriacea, energia prorompente… ma l’immagine del ruscello è più ricca, gli mostra anche il cielo al di sopra di lui. Vedendolo riflesso, è come se lo vedesse per la prima volta; e le nubi gli appaiono vive come il falco che fa cerchi, e viva la brezza che le fa danzare lente, viva la luce che muta la loro forma, vivo il sole, tutto è vivo come lui è vivo, nel cielo riflesso. Intuisce che quello non è il cielo degli dei. Si spinge oltre, al di sopra dell’Olimpo, al di sopra perfino del Fato. Ci sono altri dei sopra gli dei? C’è un altro Fato? Pensa che il cosmo è dio e fato di se stesso e che nel suo ordine rientra tutto. Pan, tutto. Prende coscienza di non essere solo il dio pastore, ma il simbolo dell’unità dell’universo. Dice a se stesso: io sono Pan, sono la mia pelle e i miei pensieri, sono la mia ombra, sono l’orma nella polvere e il mio grido, sono il desiderio e il seme che feconda la ninfa, sono la ninfa e sono la sua fuga, sono la musica e la solitudine, sono il formaggio che mangio e sono le voci del villaggio, sono il sogno e il mistero, sono la luna e l’ululato, sono io e sono gli altri e sono roccia e quercia, perfino le stelle più lontane.
“Mi piaccio” mormora.
Si sposta sopra una roccia piatta e può scorgere le pendici del monte scivolare nella valle dove i giovani badano alle greggi. Chiude gli occhi e l’immaginazione gli mostra le radici del monte e la sua vetta a un palmo dalla stella del mattino.
“Mi piaccio” ripete a se stesso. “Mi piaccio, e mi faccio anche paura. In me c’è tutto quello che narra il mio aspetto, ma non solo. Ci sono forze che io stesso ignoro, pur essendo un dio.”
Si dondola, saltella. Gli zoccoli traggono suoni ritmati dalla roccia. Allarga le braccia e frusta l’aria come se avesse le ali. Dalla bocca sgorga un suono cupo e melodioso. Così danzando e cantando, scende nel fondovalle:
“Bello il danzatore, bello il suo volto…”

Un rumore lo fa voltare di scatto. A pochi passi da lui c’è un ragazzino. Il tremito lo fa apparire evanescente, immagine d’acqua. Dalle labbra dischiuse esce il silenzio dell’orrore, ma gli occhi spalancati manifestano la curiosità. Non ha mai visto un mostro. Sa che i mostri esistono, lo raccontano gli anziani e le madri. Ora ne vede uno, il più spaventoso di tutti.
Il primo impulso di Pan è la fuga. Il ragazzo non costituisce una minaccia, se ne rende conto. Ma è vivo, gli occhi puntati su di lui, le labbra aperte per gridare insulti e maledizioni… e se non scappa che cosa deve fare? Che cosa deve fare l’uomo capra per non soccombere allo sguardo atterrito di un ragazzo?
“Devo fare il dio” dice a se stesso.
“Attratto dall’acqua dei ruscelli,
si arrampica sulle rocce inaccessibili…”
Pan canta e danza. Non ha movenze di ballerina, ma di lupo in caccia, di albero scosso dal vento, di falco in volo.
Il ragazzo riprende a respirare. Vede il mostro fare cose strane, ma non è stato aggredito. Il mostro è orribile, ma fa cose che gli danno piacere. Ha voce rauca, forte, modulata. Si muove come nessuno sa muoversi.
Quando tornano silenzio e immobilità, i due si scambiano uno sguardo timoroso. L’equilibrio è fragile. Un sospiro basterebbe a evocare il caos.
“Il mio nome è Pan” mormora infine il dio.
Il ragazzo esita, dalla gola arida sembra impossibile che possano fiorire parole, ma poi sussurra, con voce secca:
“Io sono Tespi.”
“Sono felice che tu non sia scappato, Tespi.”
“Non mi fai del male?”
“No.”
“Chi sei?”
“Pan, figlio di Ermes.”
“Un dio. Non sei un mostro, sei un dio!”
La voce ora è squillante, il ragazzo pensa già alla fortuna avuta, di essersi imbattuto in un dio. Altri al villaggio raccontano di incontri simili, ma di solito non sono creduti e vengono dileggiati. Anche lui finirà come loro, quando racconterà…?
“Che cosa ci fai, qui?” domanda impertinente. “Non avevo mai sentito di un dio con il tuo nome.”
“Sono nato stamane in una grotta, non potevi conoscermi.”
“Figlio di Ermes?”
“E della ninfa Driope, ma lei non ha retto al mio aspetto e mi ha abbandonato.”
“Mi spiace.”
“Come vedi, so badare a me stesso.”
“Certo. Sei un dio. Non dovresti stare sull’Olimpo?”
“Ci sono andato per conoscere la famiglia, ma non desidero abitarci. Io sto bene qui. Ci sono grotte ovunque, e foreste, e animali… e ci sei tu. Non conosco gli uomini. Temo che mi scaccino.”
“Sei un dio! Puoi assumere l’aspetto che vuoi!”
“Mi piaccio così.”
Di colpo, Pan si accorge di quanto tempo ha dedicato al ragazzo. Troppo. Parlare lo affatica e lo annoia.
Con uno scatto si volta e corre a rifugiarsi nel bosco di sempreverdi. Il ragazzo ci rimane male. Un dio bizzarro e imprevedibile. Un dio vagabondo. Anche a lui piacerebbe fare il vagabondo. Anche lui sente la noia della quotidianità del villaggio, sempre le stesse cose. Tespi ama sognare.
A passo lento, se ne ritorna alla capanna.
“Dove sei stato?” gli domanda la madre, aspra.
E lui non risponde.
Rivede nella mente la danza e risente le parole e desidera che danza e parole raccontino una storia.

Pan si sente stanco. Non perché ha danzato. Parlare, pensare, fare domande, rispondere, capire, decidere, stare attento… attività spossanti. Le parole non hanno gusto se non sono accompagnate dai gesti, dai movimenti, dagli sguardi obliqui, dalle annusate, dai salti, dal ritmo, dalla melodia, dalla simmetria, dall’intonazione come picchiettare di pioggia o stormire di fronde o frusciare vellutato di passi felini.
Si stende sul muschio. Chiude gli occhi per concentrarsi sui rumori del bosco.
Poi li riapre per perdersi nel gioco d’ombre tra i rami.
Poi li richiude per dare un senso al ritmo dei passi leggeri.
Si rialza con un movimento fluido. Si apposta dietro un pino mugo. Vede passare una ninfa. La tunica le danza sulla pelle come acqua; più che camminare, vola sul tappeto d’aghi; ma dove va?
La segue. Dimentica ogni prudenza e allunga una mano per trarre a sé il sogno.
La ninfa si chiama Siringa ed è diretta alla radura dove le sue compagne l’aspettano. Si gira di scatto, scorge il mostro, lancia un grido e si mette a correre. La veste s’impiglia sui rovi, si lacera. Nuda, Siringa è una rivelazione che stordisce.
“Fermati!” grida Pan. “Non voglio farti del male! Voglio solo amarti!”
La ninfa sente un’eco distorta, come il ruggito dell’orso, o l’eco di un tuono che porta la tempesta. Fugge sempre più disperata.
Pan si ritrova sulla riva di uno stagno. Una rana si tuffa. Che silenzio! La brezza di un’anima desolata piega i giunchi. Un brivido lamentoso, un suono lungo, una melodia. Le canne della riva cantano malinconia, quasi angoscia. Pan ascolta. Poi vede. La rana annaspa in superficie, un attimo di terrore negli occhi liquidi: una serpe la ingoia. Anche la ninfa è stata divorata dal nulla.
“Sogno reale, perché mi sfuggi?”
“Tra noi non può esserci amore” bisbiglia la ninfa in un gorgo d’acqua.
Pan spezza alcune canne e lega insieme sette sezioni, un flauto a sette soffi. Sette sospiri. Poi se ne va lento.
Vuole raccontare a se stesso il dolore di un amore intravisto, sfiorato e perso. Ma non lì. In un luogo chiuso. Non vuole suonare per il capriolo o la poiana. Solo per sé. Vuole suonare la disperazione e risvegliare l’eccitazione, vuole fare l’amore con l’immagine della ninfa dal piede leggero.
Suona e canta e danza, Pan, nella grotta preclusa agli uomini.

Pan, Satiro, Sileno, Priapo, Fauno, Silvano… dio dai molti volti, dio di flora e di fauna, di rocce solitarie e grotte profonde che sono l’atrio dell’inferno. Suona, Pan, suona le voci del bosco e del cosmo! Nel passo leggero di una ninfa hai spiato l’armonia degli astri. Suona il loro vorticare in un cielo folle!
C’è un mistero di fronte al quale anche l’Olimpo tace. Che potere ha la tua divinità? La ninfa scompare e la rana viene divorata. Questo è il mondo. Rincorrersi per divorarsi. Solo qui c’è la pace. Nella solitudine di una voce che è tutte le voci.
Pan balza sulla soglia della caverna e ride.
Questo è il mondo! Vita e morte intrecciate. Questo è il mondo e io l’ho visto! Il mondo danza e poi si abbatte stremato sotto gli artigli. Questo è il mondo! Non una sua parte, tutto. Sono qui, adesso, e con me ci sono i giorni trascorsi e quelli a venire. Sono solo, ma intorno a me c’è vita ovunque posi lo sguardo. La sento in fremiti e gridi. Sono già morto, eppure sono vivo. Sono talmente vivo che devo per forza morire. Ho tutto, sono tutto. Ciò che non sono è la cronaca di un attimo, la riduzione al dettaglio, il protagonismo del minimo. Io sono tutto. La mia anima è quella del mondo. Percorro la storia avanti e indietro, dalle origini fino al termine posto all’inizio di un’altra storia. Vedo dall’alto migrazioni e battaglie, costruzioni di città e genocidi, invenzioni e religioni, confini e disperazioni, preghiere e maledizioni.
Questo è il mondo!

Ecco la luna. La voglio. Imparo a saltare sempre più alto. La mano la tocca, lei freme e la marea sale. Mi stacco il cuore dal petto e lo lancio lassù. Ora il mio cuore è con lei. Ha il mio cuore, non può evitare di avere anche le mani e lo sguardo, i baci e il sesso. Ecco, giaccio con lei. L’universo risuona dei nostri gemiti d’amore. Sia questa la voce autentica del cosmo: l’amore impossibile.
Un clamore lontano. Tamburi, canti, urla sguaiate, strilli, nenie, inni, orazioni, lamenti, e i versi orribili degli animali squartati a mani nude dalle menadi. Affondano le bocche nelle carni per ingoiare il dio, per nutrirsi della sua potenza.
Il corteo striscia nella valle come una serpe ebbra di sole. Pan ascolta. Osserva. Intorno a satiri e a donne camuffate da bestie si affollano gli umani desiderosi di perdere il senno. Dioniso, mascherato, se ne sta sul carro ornato di fiori e di edera. Pan ascolta. Spia da dietro la roccia.
Io non posso accodarmi a chi cerca l’amore dove non si trova, negandosi la consapevolezza del dolore. Io non perdo il controllo. Gioisco, mi scateno della danza, spavento e mi spavento, ma non perdo il controllo se non per l’attimo necessario a riconquistarlo.
Io non voglio avere due facce come Dioniso. Ho la mia, e mi piace. Non voglio che la gente mi segua e mi circondi spiandomi come ora faccio io. Sto bene nella grotta. E sui sentieri solitari. Dove incontro l’incauto cui manca il respiro, non la folla che inneggia e vomita parole insensate.
Io suono, io canto, io danzo. Ma non con loro.

Pan suona un ritmo indiavolato. Le note vanno lontano. Al villaggio, gli uomini alzano la testa e non capiscono. Da dove viene? Che cosa significa? Tespi traccia un cerchio dentro il quale isolarsi, nel quale ascoltare e poi ripetere la verità del mondo, la vera faccia dell’esistenza.
Pan grida:
“Panmegas tethneke!”
L’aquila fa eco, sopra le guglie, tra le rupi. Lo aspetta per strappargli il cuore, e Pan dovrà ricostruirlo con fatica. Non domandate all’aquila perché lo faccia. Non lo sa. Nel suo animo c’è un comando che viene da lontano, e lei lo esegue.
Il suo grido è il grido di dolore di Zeus, che non tutto sa e non tutto governa.
Altrove, un silenzio arcano.


giovedì 4 agosto 2016

LA MEDEA: allestimento

Alcune considerazioni relative alla messa in scena di “La Medea” come conclusione del corso di teatro con ragazzi dai 10 ai 12 anni dell’I.C. Verjus di Oleggio, prevista per aprile 2017.

Di solito, il luogo deputato per la rappresentazione è il teatro civico da quasi quattrocento posti, con un ampio palcoscenico attrezzato. Probabilmente ci andremo anche quest’anno, ma l’intento è di un prodotto proponibile in qualunque spazio e situazione. Risulta pertanto utile l’abolizione della disposizione unidirezionale dell’attore che si ritrova il pubblico davanti nella classica scatola teatrale a tre pareti. La rappresentazione supporta il pubblico in qualunque dislocazione: frontale, laterale, circolare.
La scelta scaturisce dalla rescissione parziale del rapporto attore-pubblico. L’interpretazione avviene infatti su due livelli: un gruppo si relaziona con il pubblico in modo diretto e coinvolgente; l’altro lo ignora del tutto, in una performance a proprio uso e consumo.
I personaggi sono: tre mediatori, Medea, Giasone, Nutrice, Creonte, Glauce, Mermero e Fereto (i figli di Medea), Coro dei cittadini. I mediatori hanno il compito, come già nelle Baccanti dell’anno scorso, di facilitare la comprensione, stimolando soprattutto un rapporto critico non offuscato dall’empatia e dalla partecipazione emotiva. Essi hanno quindi una funzione epica e il rapporto con il pubblico è quasi da avanspettacolo. Proprio per questo essi si trovano all’esterno della scena vera e propria. Assistono alla rappresentazione come cloni degli spettatori e non possono interferire con gli attori veri e propri. Sono, in effetti, tre spettatori fatti accomodare sul palcoscenico. A differenza dello spettatore in platea, sono attivi e propositivi, esprimono in diretta giudizi e perplessità, fanno spettacolo pur rimanendone fuori.
Sono un esempio di cultura, motivazione, curiosità, rapporto positivo con l’immaginario. Essi sono vivi e ritraggono lo spettatore ideale, quello che ha motivazioni e interessi, che rispetta i tempi e l’eticità, che sceglie in modo personale e oculato, che ha cultura e idee personali, che sa apprezzare e gratificare.

Non possiamo dire altrettanto con i personaggi della tragedia.
Sono figure mitiche, non inseribili nei libri di storia, quindi personaggi fin dall’inizio, non di una tragedia d’autore, ma di un racconto popolare anonimo. Non soggetti alle regole spietate della vita umana, essi dovrebbero essere eterni, ma niente è eterno: anche i miti muoiono. D’altronde, essendo sublimazioni incarnate, in quanto figure mitiche hanno assunto il tempo narrativo come scansione delle proprie imprese. Sottoposti anche loro al tempo, possiamo considerarli morti.
Tutti i personaggi di tutti i generi letterari non sono altro che morti che ritornano, ai quali ognuno può fare indossare l’abito che preferisce. Come i morti di Kantor, denotano memoria labile, confusione mentale, tendenza alla ripetitività, incostanza e imprevedibilità. Essi, cioè, possono cambiare a ogni resurrezione. Un personaggio muore non appena nasce, e manifesta però una vitalità disumana che lo rende disponibile a ritorni infiniti, ogni volta per una vita illusoria breve. Si forma, così, dalla sommatoria delle vite innescate dai nuovi rifacitori letterari e drammaturgici, un superpersonaggio di illogica e irrazionale complessione, che tracima da ogni parte, ma dotato di una forza di coesione che gli impedisce di implodere.
Questa Medea, nelle intenzioni, presenta uno di questi superpersonaggi, sintesi di secoli di rielaborazioni scelte e rivedute dall’autore.
Anche questo superpersonaggio, tuttavia, nasce morto, pronto a risorgere per diventare “un’altra Medea ancora”.

Tutto quanto si predica sull’arte immortale e sui personaggi eterni è pura retorica. La storia fa un massacro di grandi personaggi e di ammirevoli autori, ai quali l’attributo  di genio non è stato conferito in quanto le loro opere sono scomparse negli incendi, nelle distruzioni o nella cattiva volontà degli uomini, spesso ciechi e insensibili, oltre che crudeli. Le opere che sopravvivono non hanno di diritto una durata eterna, se la aggiudicano solo grazie al caso. I personaggi, comunque, hanno vita più breve. A volte l’opera in cui è avvenuta la loro gestazione sopravvive in angusti dimenticatoi, come è successo per le pergamene della civiltà greca e romana, rimanendo in coma per secoli, fino a quando uomini amanti della cultura danno loro nuova vita con le traduzioni, il recupero filologico, i commenti. I personaggi, nel frattempo, sono usciti dall’opera originaria, sono scomparsi e riapparsi in altre opere, come è successo appunto per la Medea euripidea rinata in lingua latina con Ovidio, Seneca, Ennio, Draconzio.
Quando diciamo “Medea” che cosa diciamo? Nulla. Nulla più di un episodio di cronaca nera. Non esiste una Medea, esistono infinite Medee che mai raggiungono lo scopo di unificarsi in un superpersonaggio stabile e definitivo, al di là degli stereotipi che illudono sulla sua unicità.
Il personaggio Medea è vivo in forma letteraria nel testo prosastico o drammatico, ma deve morire e rinascere sul palcoscenico, per diventare personaggio teatrale.
Ebbene, di che forma di vita parliamo? Esiste forse una donna Medea, maga di discendenza divina, madre e assassina? Ha un corpo, Medea? Ha una personalità? Ha il corpo dell’attrice che la interpreta, ma non la sua personalità. Medea non ha una personalità, non è una persona. A lei si nega la vita, perché non può contenerla; in questo senso è morta. Giunge dal mondo dove tutte le cose e tutte le parole finiscono, il mondo della morte che mai nessuna cultura ha descritto come mondo del nulla assoluto. Vi sono brecce tra una dimensione e l’altra provocate dai ricordi, dalle testimonianze ancora fruibili, dalle eredità morali e di pensiero, dalle credenze religiose e dalle iniziative artistiche.
Attraverso una di queste brecce la scena evoca il personaggio Medea, che è uno spirito sconosciuto, privo di lineamenti, ancora muto, incapace di agire sul reale, misterioso e informe. L’azione congiunta del testo, dell’interprete e delle arti visive e sonore coordinate dal regista rivestono di significati la forma nuda, donando al personaggio un’altra vita. Ma non è una vita umana, è una vita onirica e subliminale.

Da una parte abbiamo quindi i tre mediatori che sprizzano vitalità da ogni poro, dall’altra il gruppo di morti che rivive di vita propria per presentare un’altra Medea non al pubblico presente, ma a se stesso. I mediatori mediano tra la rappresentazione e il pubblico; gli attori mediano tra i personaggi testuali e quelli drammatici; solo con l’interpretazione il personaggio rivela a se stesso di essere un’altra volta in qualche modo vivo.
Ripugna, quindi, agli interpreti tutto ciò che è troppo vivo: colori, musiche, coreografie… Tutto prende efficacia solo se non si oppone con violenza all’idea di morte dalla quale sorge la drammaturgia, ma si armonizza con il silenzio interiore dei personaggi che devono recuperare la memoria, la motilità, la prontezza di pensiero e di eloquio. Tutto questo richiede un richiamo forte di energia. Da uno stato di passività devono passare in fretta a una situazione di simulazione della vita nel mondo reale e materiale.
L’attore evoca il personaggio, ma non lo domina; ne viene intriso, perfino invaso; sviluppa per esso sentimenti che possono stridere con la sua storia. Invece di pietà può sentire disprezzo, invece di empatia odio. Tuttavia, non tradisce la propria disponibilità e fa di tutto per facilitare la presa di vita del personaggio di pertinenza. Deve farsi da parte, lasciare esprimere l’entità che si manifesta attraverso il suo corpo e il suo animo. Il personaggio è invasivo e prepotente, si appropria dell’energia vitale con tanta più facilità quanto meno gli si oppone l’interprete.

Vivi e morti stanno in mondi separati.
I vivi abitano la realtà, i morti i sogni e le illusioni. I vivi coabitano con le cose, i morti con le parole inespresse. Per segnalare questa differenza in termini visivi, sul palcoscenico viene steso un grande telo bianco, il nuovo pavimento dei morti, quasi una nuvola. Esso non solo delimita il “cimitero”, ossia l’area esclusiva riservata agli attori, ma consente di ricavare con facilità un sotto, un “tartaro  o erebo”: è sufficiente sollevarlo e tirarselo sulla testa per scomparire nel mondo degli inferi. Gli interpreti non escono mai dall’ampia macchia bianca, dato che al di là non esiste nient’altro che il nulla. Viene quindi escluso ogni progetto di scenografia: niente all’esterno può collegarsi allo spazio chiuso, delimitato e impraticabile. Una bolla d’aria, un acquario, un cerchio magico, un varco spazio-temporale. Tutto ciò che vi accade è vero, reale, significativo. Tutto ciò che accade all’esterno è menzognero, illusorio, insensato.
Lo spazio a disposizione, circolare o vagamente poligonale, richiama l’idea di un vortice che trascina tutti verso il centro.
Al centro c’è Medea.
Sopra una struttura lignea rivestita, come un paludamento, o sopra una scaletta nuda, magari collegata mediante un’asse a un’altra, ella può sedersi e fare alcuni passi, drizzarsi sopra gli altri. Alla sua destra il re Creonte su un’alta sedia bianca da ufficio, la figlia accovacciata ai suoi piedi; e accanto a loro Giasone, che misura inquieto lo spazio ristretto, dando l’idea di non avere un proprio angolo in cui placarsi; ambizioso di tutto e padrone di niente.
Alla sinistra di Medea il Coro dei cittadini e davanti a lei i due figli: un poco scompaiono sotto la struttura un poco sotto il telo bianco; a badare a loro c’è la Nutrice.
Di lato, sul proscenio, i tre mediatori, la cui libertà di movimento è illimitata, purché non calpestino il telo bianco; essi si spostano anche in mezzo al pubblico.

Non vi sono colori se non il bianco, il nero e il grigio. Il giorno e la notte in tutte le loro sfumature. Anche l’incarnato viene spento dal trucco; ma sul pallore dei visi risaltano le labbra rosse, segno della vita provvisoria di cui godono i personaggi.
Musiche in tono, rallentate e lontane, quasi un’eco. Coreografie congruenti, anche se ancora non so come riuscirò a fare lavorare i ragazzi su un’idea che contrasta con il modo comune di pensare: esprimere violenza e aggressività senza ricorrere a urla e movimenti convulsi.
Non so nemmeno se riuscirò a trasmettere il senso di questa messa in scena che non ha assolutamente niente a che fare con il mondo cinematografico degli zombi. Spiegazioni e comprensione si svolgono sul piano delle emozioni e soprattutto sulla difficoltà di esprimerle… senza troppo esprimerle.
Affronteremo un training (molto semplificato) sull’interpretazione attoriale secondo il sistema di Stanislavskij e secondo invece la teorizzazione epica di Brecht, psicologismo contro straniamento. Commenterò dei video di Kantor e presenterò la gamma delle emozioni relative alla partitura della messa in scena. Fornirò un prospetto di emozioni e sentimenti (avrò il supporto di una psicologa che in quattro lezioni guiderà i ragazzi al riconoscimento) e ne attribuiremo una scelta motivata a ogni personaggio in una data situazione.

Come avviene l’approccio al personaggio da parte degli interpreti? 
Il metodo di Stanislavskij è tutto sulle spalle dell’interprete. Suo è il lavoro di documentazione, di approfondimento delle motivazioni e delle circostanze, di ricognizione nel proprio intimo per cogliere punti di contatto nel presente e nel passato. L’attore plasma se stesso per aderire a quella che suppone essere la verità del personaggio, vissuto come potenzialmente vivo. Con una ricostruzione lenta e faticosa, egli diventa il personaggio. Ma per quanto siano consolidati i cambiamenti, supportati dalle tecniche espressive e dal make-up, egli rimane comunque ciò che era, una persona esistente che si presenta al pubblico come qualcuno che in realtà non esiste. Il pubblico ne valuta e ne apprezza la verosimiglianza e applaude però non il personaggio, ma l’interprete, lodandone la magica professionalità che lo rende un altro; allo stesso tempo, il pubblico venera il personaggio confondendo realtà e fiction, faticando a porre limiti precisi tra la persona reale e quella frutto di invenzione e interpretazione.
Dal primo naturalismo ai serial contemporanei, l’adesione totale dell’attore al personaggio si è tanto specializzata che cinema e televisione hanno rubato la scena al teatro, fornendo le migliori prove di immedesimazione, supportate dall’ambientazione e dagli effetti speciali.
L’attenzione del pubblico sull’attore è storia vecchia, risale all’età ellenistica, quando le prime corporazioni impongono nuovi gusti, modificano arbitrariamente i testi, generano il divismo a scapito dell’opera in sé.
In questa Medea l’attore non conta più del personaggio.
Anzi, l’attore deve morire.

Se vuole recuperare il personaggio dal limbo in cui si trova, se vuole sintonizzarsi, deve usare la sua stessa frequenza, e spegnere il bailamme di interferenze causato dall’energia in eccesso della vita quotidiana. L’ostacolo maggiore non è rappresentato dal disturbo esterno, ma da quello interiore. Insicurezza, ambizione, presunzione, inadeguatezza, superficialità, distrazione… tutto ciò che riporta l’attenzione sull’Io dell’interprete è causa di disturbo.
L’attore non sa ancora come si presenta il personaggio che deve interpretare, il primo passo è solo di mostrarsi accogliente, di fargli spazio nell’Ego personale, di concedergli libertà di espressione, senza giudizi morali, senza alcuna prevenzione. Il personaggio è quello che è, non risponde alle leggi civili, né tantomeno ai precetti religiosi.
Da solo, l’attore fatica a ospitare in sé un personaggio che per sua stessa natura è portato alla comunicazione e richiede quindi, anche nel caso di un monologo, referenti reali o virtuali con i quali intessere le dinamiche del dramma. Alla costruzione del personaggio sulla scena contribuiscono quindi i partner, ma non solo; anche la struttura spaziale, gli schemi di movimento, le sonorizzazioni, gli oggetti. Un personaggio non può nascere a tavolino, deve nascere sulla scena, e l’evocazione non è immediata, ma lenta, con un ritmo discontinuo, affidato sia al raziocinio sia all’intuizione, finanche al caso e al sogno.
L’esito finale non è di avere dato vita a una persona tanto credibile da poterle aggiudicare un’identità umana; ma di avere sulla scena un interprete che veicola le parole di un’entità misteriosa, a metà strada tra il mondo dei vivi e quello dei morti, che racconta una storia fuori del tempo anche se è datata, armonizzata con le altre entità che la circondano in uno spazio che non ha relazioni con lo spazio circostante, in un rapporto con il pubblico esistente ma negato.

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LA MEDEA: allestimento

Alcune considerazioni relative alla messa in scena di “La Medea” come conclusione del corso di teatro con ragazzi dai 10 ai 12 anni dell’I.C. Verjus di Oleggio, prevista per aprile 2017.

Di solito, il luogo deputato per la rappresentazione è il teatro civico da quasi quattrocento posti, con un ampio palcoscenico attrezzato. Probabilmente ci andremo anche quest’anno, ma l’intento è di un prodotto proponibile in qualunque spazio e situazione. Risulta pertanto utile l’abolizione della disposizione unidirezionale dell’attore che si ritrova il pubblico davanti nella classica scatola teatrale a tre pareti. La rappresentazione supporta il pubblico in qualunque dislocazione: frontale, laterale, circolare.
La scelta scaturisce dalla rescissione parziale del rapporto attore-pubblico. L’interpretazione avviene infatti su due livelli: un gruppo si relaziona con il pubblico in modo diretto e coinvolgente; l’altro lo ignora del tutto, in una performance a proprio uso e consumo.
I personaggi sono: tre mediatori, Medea, Giasone, Nutrice, Creonte, Glauce, Mermero e Fereto (i figli di Medea), Coro dei cittadini. I mediatori hanno il compito, come già nelle Baccanti dell’anno scorso, di facilitare la comprensione, stimolando soprattutto un rapporto critico non offuscato dall’empatia e dalla partecipazione emotiva. Essi hanno quindi una funzione epica e il rapporto con il pubblico è quasi da avanspettacolo. Proprio per questo essi si trovano all’esterno della scena vera e propria. Assistono alla rappresentazione come cloni degli spettatori e non possono interferire con gli attori veri e propri. Sono, in effetti, tre spettatori fatti accomodare sul palcoscenico. A differenza dello spettatore in platea, sono attivi e propositivi, esprimono in diretta giudizi e perplessità, fanno spettacolo pur rimanendone fuori.
Sono un esempio di cultura, motivazione, curiosità, rapporto positivo con l’immaginario. Essi sono vivi e ritraggono lo spettatore ideale, quello che ha motivazioni e interessi, che rispetta i tempi e l’eticità, che sceglie in modo personale e oculato, che ha cultura e idee personali, che sa apprezzare e gratificare.

Non possiamo dire altrettanto con i personaggi della tragedia.
Sono figure mitiche, non inseribili nei libri di storia, quindi personaggi fin dall’inizio, non di una tragedia d’autore, ma di un racconto popolare anonimo. Non soggetti alle regole spietate della vita umana, essi dovrebbero essere eterni, ma niente è eterno: anche i miti muoiono. D’altronde, essendo sublimazioni incarnate, in quanto figure mitiche hanno assunto il tempo narrativo come scansione delle proprie imprese. Sottoposti anche loro al tempo, possiamo considerarli morti.
Tutti i personaggi di tutti i generi letterari non sono altro che morti che ritornano, ai quali ognuno può fare indossare l’abito che preferisce. Come i morti di Kantor, denotano memoria labile, confusione mentale, tendenza alla ripetitività, incostanza e imprevedibilità. Essi, cioè, possono cambiare a ogni resurrezione. Un personaggio muore non appena nasce, e manifesta però una vitalità disumana che lo rende disponibile a ritorni infiniti, ogni volta per una vita illusoria breve. Si forma, così, dalla sommatoria delle vite innescate dai nuovi rifacitori letterari e drammaturgici, un superpersonaggio di illogica e irrazionale complessione, che tracima da ogni parte, ma dotato di una forza di coesione che gli impedisce di implodere.
Questa Medea, nelle intenzioni, presenta uno di questi superpersonaggi, sintesi di secoli di rielaborazioni scelte e rivedute dall’autore.
Anche questo superpersonaggio, tuttavia, nasce morto, pronto a risorgere per diventare “un’altra Medea ancora”.

Tutto quanto si predica sull’arte immortale e sui personaggi eterni è pura retorica. La storia fa un massacro di grandi personaggi e di ammirevoli autori, ai quali l’attributo  di genio non è stato conferito in quanto le loro opere sono scomparse negli incendi, nelle distruzioni o nella cattiva volontà degli uomini, spesso ciechi e insensibili, oltre che crudeli. Le opere che sopravvivono non hanno di diritto una durata eterna, se la aggiudicano solo grazie al caso. I personaggi, comunque, hanno vita più breve. A volte l’opera in cui è avvenuta la loro gestazione sopravvive in angusti dimenticatoi, come è successo per le pergamene della civiltà greca e romana, rimanendo in coma per secoli, fino a quando uomini amanti della cultura danno loro nuova vita con le traduzioni, il recupero filologico, i commenti. I personaggi, nel frattempo, sono usciti dall’opera originaria, sono scomparsi e riapparsi in altre opere, come è successo appunto per la Medea euripidea rinata in lingua latina con Ovidio, Seneca, Ennio, Draconzio.
Quando diciamo “Medea” che cosa diciamo? Nulla. Nulla più di un episodio di cronaca nera. Non esiste una Medea, esistono infinite Medee che mai raggiungono lo scopo di unificarsi in un superpersonaggio stabile e definitivo, al di là degli stereotipi che illudono sulla sua unicità.
Il personaggio Medea è vivo in forma letteraria nel testo prosastico o drammatico, ma deve morire e rinascere sul palcoscenico, per diventare personaggio teatrale.
Ebbene, di che forma di vita parliamo? Esiste forse una donna Medea, maga di discendenza divina, madre e assassina? Ha un corpo, Medea? Ha una personalità? Ha il corpo dell’attrice che la interpreta, ma non la sua personalità. Medea non ha una personalità, non è una persona. A lei si nega la vita, perché non può contenerla; in questo senso è morta. Giunge dal mondo dove tutte le cose e tutte le parole finiscono, il mondo della morte che mai nessuna cultura ha descritto come mondo del nulla assoluto. Vi sono brecce tra una dimensione e l’altra provocate dai ricordi, dalle testimonianze ancora fruibili, dalle eredità morali e di pensiero, dalle credenze religiose e dalle iniziative artistiche.
Attraverso una di queste brecce la scena evoca il personaggio Medea, che è uno spirito sconosciuto, privo di lineamenti, ancora muto, incapace di agire sul reale, misterioso e informe. L’azione congiunta del testo, dell’interprete e delle arti visive e sonore coordinate dal regista rivestono di significati la forma nuda, donando al personaggio un’altra vita. Ma non è una vita umana, è una vita onirica e subliminale.

Da una parte abbiamo quindi i tre mediatori che sprizzano vitalità da ogni poro, dall’altra il gruppo di morti che rivive di vita propria per presentare un’altra Medea non al pubblico presente, ma a se stesso. I mediatori mediano tra la rappresentazione e il pubblico; gli attori mediano tra i personaggi testuali e quelli drammatici; solo con l’interpretazione il personaggio rivela a se stesso di essere un’altra volta in qualche modo vivo.
Ripugna, quindi, agli interpreti tutto ciò che è troppo vivo: colori, musiche, coreografie… Tutto prende efficacia solo se non si oppone con violenza all’idea di morte dalla quale sorge la drammaturgia, ma si armonizza con il silenzio interiore dei personaggi che devono recuperare la memoria, la motilità, la prontezza di pensiero e di eloquio. Tutto questo richiede un richiamo forte di energia. Da uno stato di passività devono passare in fretta a una situazione di simulazione della vita nel mondo reale e materiale.
L’attore evoca il personaggio, ma non lo domina; ne viene intriso, perfino invaso; sviluppa per esso sentimenti che possono stridere con la sua storia. Invece di pietà può sentire disprezzo, invece di empatia odio. Tuttavia, non tradisce la propria disponibilità e fa di tutto per facilitare la presa di vita del personaggio di pertinenza. Deve farsi da parte, lasciare esprimere l’entità che si manifesta attraverso il suo corpo e il suo animo. Il personaggio è invasivo e prepotente, si appropria dell’energia vitale con tanta più facilità quanto meno gli si oppone l’interprete.

Vivi e morti stanno in mondi separati.
I vivi abitano la realtà, i morti i sogni e le illusioni. I vivi coabitano con le cose, i morti con le parole inespresse. Per segnalare questa differenza in termini visivi, sul palcoscenico viene steso un grande telo bianco, il nuovo pavimento dei morti, quasi una nuvola. Esso non solo delimita il “cimitero”, ossia l’area esclusiva riservata agli attori, ma consente di ricavare con facilità un sotto, un “tartaro  o erebo”: è sufficiente sollevarlo e tirarselo sulla testa per scomparire nel mondo degli inferi. Gli interpreti non escono mai dall’ampia macchia bianca, dato che al di là non esiste nient’altro che il nulla. Viene quindi escluso ogni progetto di scenografia: niente all’esterno può collegarsi allo spazio chiuso, delimitato e impraticabile. Una bolla d’aria, un acquario, un cerchio magico, un varco spazio-temporale. Tutto ciò che vi accade è vero, reale, significativo. Tutto ciò che accade all’esterno è menzognero, illusorio, insensato.
Lo spazio a disposizione, circolare o vagamente poligonale, richiama l’idea di un vortice che trascina tutti verso il centro.
Al centro c’è Medea.
Sopra una struttura lignea rivestita, come un paludamento, o sopra una scaletta nuda, magari collegata mediante un’asse a un’altra, ella può sedersi e fare alcuni passi, drizzarsi sopra gli altri. Alla sua destra il re Creonte su un’alta sedia bianca da ufficio, la figlia accovacciata ai suoi piedi; e accanto a loro Giasone, che misura inquieto lo spazio ristretto, dando l’idea di non avere un proprio angolo in cui placarsi; ambizioso di tutto e padrone di niente.
Alla sinistra di Medea il Coro dei cittadini e davanti a lei i due figli: un poco scompaiono sotto la struttura un poco sotto il telo bianco; a badare a loro c’è la Nutrice.
Di lato, sul proscenio, i tre mediatori, la cui libertà di movimento è illimitata, purché non calpestino il telo bianco; essi si spostano anche in mezzo al pubblico.

Non vi sono colori se non il bianco, il nero e il grigio. Il giorno e la notte in tutte le loro sfumature. Anche l’incarnato viene spento dal trucco; ma sul pallore dei visi risaltano le labbra rosse, segno della vita provvisoria di cui godono i personaggi.
Musiche in tono, rallentate e lontane, quasi un’eco. Coreografie congruenti, anche se ancora non so come riuscirò a fare lavorare i ragazzi su un’idea che contrasta con il modo comune di pensare: esprimere violenza e aggressività senza ricorrere a urla e movimenti convulsi.
Non so nemmeno se riuscirò a trasmettere il senso di questa messa in scena che non ha assolutamente niente a che fare con il mondo cinematografico degli zombi. Spiegazioni e comprensione si svolgono sul piano delle emozioni e soprattutto sulla difficoltà di esprimerle… senza troppo esprimerle.
Affronteremo un training (molto semplificato) sull’interpretazione attoriale secondo il sistema di Stanislavskij e secondo invece la teorizzazione epica di Brecht, psicologismo contro straniamento. Commenterò dei video di Kantor e presenterò la gamma delle emozioni relative alla partitura della messa in scena. Fornirò un prospetto di emozioni e sentimenti (avrò il supporto di una psicologa che in quattro lezioni guiderà i ragazzi al riconoscimento) e ne attribuiremo una scelta motivata a ogni personaggio in una data situazione.

Come avviene l’approccio al personaggio da parte degli interpreti? 
Il metodo di Stanislavskij è tutto sulle spalle dell’interprete. Suo è il lavoro di documentazione, di approfondimento delle motivazioni e delle circostanze, di ricognizione nel proprio intimo per cogliere punti di contatto nel presente e nel passato. L’attore plasma se stesso per aderire a quella che suppone essere la verità del personaggio, vissuto come potenzialmente vivo. Con una ricostruzione lenta e faticosa, egli diventa il personaggio. Ma per quanto siano consolidati i cambiamenti, supportati dalle tecniche espressive e dal make-up, egli rimane comunque ciò che era, una persona esistente che si presenta al pubblico come qualcuno che in realtà non esiste. Il pubblico ne valuta e ne apprezza la verosimiglianza e applaude però non il personaggio, ma l’interprete, lodandone la magica professionalità che lo rende un altro; allo stesso tempo, il pubblico venera il personaggio confondendo realtà e fiction, faticando a porre limiti precisi tra la persona reale e quella frutto di invenzione e interpretazione.
Dal primo naturalismo ai serial contemporanei, l’adesione totale dell’attore al personaggio si è tanto specializzata che cinema e televisione hanno rubato la scena al teatro, fornendo le migliori prove di immedesimazione, supportate dall’ambientazione e dagli effetti speciali.
L’attenzione del pubblico sull’attore è storia vecchia, risale all’età ellenistica, quando le prime corporazioni impongono nuovi gusti, modificano arbitrariamente i testi, generano il divismo a scapito dell’opera in sé.
In questa Medea l’attore non conta più del personaggio.
Anzi, l’attore deve morire.

Se vuole recuperare il personaggio dal limbo in cui si trova, se vuole sintonizzarsi, deve usare la sua stessa frequenza, e spegnere il bailamme di interferenze causato dall’energia in eccesso della vita quotidiana. L’ostacolo maggiore non è rappresentato dal disturbo esterno, ma da quello interiore. Insicurezza, ambizione, presunzione, inadeguatezza, superficialità, distrazione… tutto ciò che riporta l’attenzione sull’Io dell’interprete è causa di disturbo.
L’attore non sa ancora come si presenta il personaggio che deve interpretare, il primo passo è solo di mostrarsi accogliente, di fargli spazio nell’Ego personale, di concedergli libertà di espressione, senza giudizi morali, senza alcuna prevenzione. Il personaggio è quello che è, non risponde alle leggi civili, né tantomeno ai precetti religiosi.
Da solo, l’attore fatica a ospitare in sé un personaggio che per sua stessa natura è portato alla comunicazione e richiede quindi, anche nel caso di un monologo, referenti reali o virtuali con i quali intessere le dinamiche del dramma. Alla costruzione del personaggio sulla scena contribuiscono quindi i partner, ma non solo; anche la struttura spaziale, gli schemi di movimento, le sonorizzazioni, gli oggetti. Un personaggio non può nascere a tavolino, deve nascere sulla scena, e l’evocazione non è immediata, ma lenta, con un ritmo discontinuo, affidato sia al raziocinio sia all’intuizione, finanche al caso e al sogno.
L’esito finale non è di avere dato vita a una persona tanto credibile da poterle aggiudicare un’identità umana; ma di avere sulla scena un interprete che veicola le parole di un’entità misteriosa, a metà strada tra il mondo dei vivi e quello dei morti, che racconta una storia fuori del tempo anche se è datata, armonizzata con le altre entità che la circondano in uno spazio che non ha relazioni con lo spazio circostante, in un rapporto con il pubblico esistente ma negato.

Ho scritto che il personaggio non nasce a tavolino, ma è un’imprecisione.
Fornisco a ogni interprete il time-lapse del relativo personaggio, ossia tutte le battute in successione, la porzione di drammaturgia in ordine cronologico. Contrasta con l’intreccio, dato che la fabula è stata ribaltata ed esposta in senso inverso; ma ora non stiamo svolgendo un’indagine, bensì una ricognizione del singolo personaggio presente in tutta la sua espressività testuale.
Leggiamo, identifichiamo le situazioni, attribuiamo emozioni e sentimenti, commentiamo.
Non andiamo alla ricerca della storia esterna del personaggio, se non per documentarci su riferimenti testuali che ci colgono impreparati. Il personaggio è tutto lì, vive nelle proprie parole, prende corpo e animo da ciò che dice, è presente in toto nei dialoghi che in questa fase sono monchi, dato che sono state estrapolate solo le sue battute.
Si tratta quindi di un personaggio interamente intratestuale.
La fabula che lo riguarda, le reazioni nelle date circostanze, le aspettative e gli atteggiamenti… tutto viene ricavato dal testo.
Dal testo non si scappa, anche quando di proposito si invoca l’autonomia del teatro e lo si esorcizza con la performance, l’azione fisica, l’happening… Qualunque cosa si metta in scena essa si fa testo nella ricezione da parte del pubblico. Che se ne ricavi un testo confuso e illogico, frammentato e incomprensibile, astruso e inenarrabile non importa. In ogni caso lo spettatore tenterà di ricavare un “testo”, una storia, un accadimento, dalle emozioni e dalle impressioni ricevute.

Ma di questo si tratterà più diffusamente in seguito.

CHI FOSSE INTERESSATO AL TESTO PUÒ FARNE RICHIESTA A   quila@libero.it