sabato 26 febbraio 2011

PASSEGGIATA



Passeggiata a Sologno per la Badia di Dulzago, un gheppio osserva la mia ombra/anima, cielo di metallo brinato sui mattoni roventi, cielo rapace e terra illusione.

venerdì 25 febbraio 2011

CANICANI: le immagini


A Lorenzo Ceva Valla e Mario Garofalo: centinaia di foto, un documentario.

Si aggirano per la sala, sembrano annusare la luce, sono il gatto e la volpe dell’immagine. Qual è il gatto e qual è la volpe non ci è dato di sapere. Tra loro giocano forse a scambiarsi i ruoli: oggi circuisco io l’ombra, tu strusciati addosso alla luce, inteneriscila, fanne una risata cristallina.

Se ne stanno nell’ombra, proprio loro che poi la modellano attorno alla luce come se fosse creta; e ne fanno statue che parlano con lampi negli occhi. Dall’ombra, osservano gli altri muoversi nella luce.

Li spiano come se celassero segreti, li spiano nei loro dettagli più intimi, li spiano nella forma che assumono e nella piega dell’animo, li spiano senza stupore e senza malizia, innamorati della danza dei corpi nello spazio, e delle espressioni che si pitturano sui volti.

La volpe sguscia via tra l’uno e l’altro e nessuno si accorge della sua esplorazione lesta e guardinga: un guizzo, è già sull’altra inquadratura.

Il gatto si conquista le simpatie: qua, micio, fammi un primo piano! E ancora: accarezzami con il teleobiettivo, gattino! E un’altra: il profilo giusto, mio mao, fammi bella!

Il gatto e la volpe sembrano ombre nell’ombra, nessuno fa mai caso a loro, se non quando loro stessi lo vogliono: allora tutti gli si affollano intorno a fare smancerie e assumere pose.

Altrimenti, dal trono della discrezione, affondano le lenti nella carne e nello spirito, colgono l’attimo prima che svanisca per sempre e fanno sberleffi al tempo. Ciò che era una briciola d’oblio diviene l’immagine eterna: nella sua fissità c’è la suggestione della danza e della parola.

E se le immagini sono invece in movimento ecco che la vita ci viene incontro con un abito nuovo, pulito e ordinato. Quello che, nel tempo, era caos e altalena di pieni e vuoti, ora è un fluire elegante ed espressivo.

Tutti applaudono.

Il gatto e la volpe si rifugiano nel silenzio dell’ombra: da lì la luce è più potente.

mercoledì 23 febbraio 2011

CANICANI recensione

Lupus Agnus: Canicani

articolo di Gian Paolo Galasi

Il mese di febbraio ha visto in scena al Binario 7 di Monza la compagnia Lupus Agnus, che ha presentato la Trilogia della famiglia, composta da Mamma Mammazza, prodotto nel 2008 dal Piccolo Teatro di Milano e incentrato sulle perversioni dei legami familiari; Verginella, presentato al Teatro Filodrammatici di Milano nel 2009 e inerente il tema della pedofilia, e, in prima nazionale questo weekend, Canicani, legato alla tematica del mercato degli organi e di qui all’antropofagia.

I testi di LupusAgnus sono scritti da Aquilino, con alle spalle altre esperienze di scrittura (non solo per la scena) e di teatro; la compagnia nasce invece da un nucleo di attori formatisi alla scuola del Piccolo, presenti e attivissimi nei palchi milanesi e che con questa nuova opera, rappresentata tre volte in due giorni e della durata di due ore, inaugurano un work in progress che è anche un progetto di laboratorio sul testo e sulla sua messa in scena. Alla fine della rappresentazione il pubblico è stato invitato a partecipare attivamente con commenti, impressioni, critiche, che hanno già prodotto degli aggiustamenti tra uno spettacolo e l’altro.

Un lavoro e un impegno notevole, date le tematiche affrontate e la messa in scena. Al traffico di organi in Italia sono stati dedicati pochissimi testi, nel 2009 esisteva solo un libro nella nostra lingua sull’argomento (ma ci sono anche indagini in corso, e dunque il segreto istruttorio). L’umanità rappresentata in questo musical caricaturale e grottesco ricorda quella di Address Unknown di Kim KiDuk, ma non siamo nella Corea appena conquistata dall’esercito statunitense e non si uccidono cani. Eppure il clima umano è quello dei sopravvissuti a una devastazione, che non può essere solo interiore o forse sì, del resto dentro ogni orco c’è un bambino divorato: i carnefici hanno già imparato la lezione della sociologia, dunque, difficile non trovare alibi in un mondo qualunque che ha già fatto della parola quel che si fa dietro quella tenda di plastica, ovvero sesso tra fratello e sorella e traffico di organi.

Annamaria Rossano è una Juliette Lewis (quella di Natural Born Killers) cresciuta e finalmente normale, affamata di successo da tronista e di smalto per le unghie. Oppure pensate agli abitanti di Las Hurdes, ingozzati di hamburger e di televisione: i mostri sono tra noi, non hanno desideri e per questo cantano che “il mondo è guardare, il mondo è emozione”, e sanno che se la felicità non è di questo mondo, il godimento invece lo è e bisogna assicurarselo. Ad ogni costo. La rabbia della fame: la vita annoia, e mentre si sogna di essere famosi è possibile comunque attizzare la fama e il potere mentre i figli debbono obbedire per evitare il bastone, mostrare rispetto perché se i genitori non sono diventati qualcuno è impossibile sfuggire al destino comune, al “tu hai tutto e io non ho niente” che placa le coscienze, i figli come cani alla catena, la morte che dovrebbe essere un momento di riposo, lirico, perché da qualche parte è stato scritto che il dolore va espresso, e comunque si tratta pur sempre di una lacuna da colmare.

Sarà una maternità inaspettata a dare a uno dei personaggi (quella che nel bene o nel male aveva rapporti, per quanto obbligati, col mondo esterno: in fondo è il sapere cosa c’è “là fuori”, fossero anche clienti, la salvezza) la forza per ricacciare nel buco nero le forze del ‘male’, e per ritrovare, nell’altro in sé, una voce soggettiva.

Pur nell’assenza di un mondo simbolico. In scena solo oggetti di uso comune, la poltrona, il televisore, reggiseni nuovi a rappresentare il feticismo del ménage familiare, le catene cui sono legati i figli, e tanta plastica: quella che contiene la “refurtiva”, il telo dietro si compiono i misfatti, quello adibito a coprire. Nulla in scena lascia adito a una ambiguità, a un possibile nuovo uso, a una scelta. Non è possibile prevedere, qualora lo spettacolo arrivasse fisicamente dalle vostre parti, a quali e quanti cambiamenti sarà soggetto. La forza della compagnia è anche la capacità di assimilare gli spunti forniti dal pubblico, come altre compagnie affini forse per spirito, tra cui i palermitani Sutta Scupa, nemmeno tanto più “vecchi”. E’ bello vedere che qualcosa si muove e vive nel teatro contemporaneo. Non siete soli.

http://www.flaneri.com

Lupus Agnus – Canicani

drammaturgia Aquilino
regia Stefano De luca
con Enrico Ballandrini, Tommaso Banfi, Matteo Barbe', Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano, Fabio Zulli
Teatro Binario 7 – Monza
19-20 febbraio 2011 prima nazionale

lunedì 21 febbraio 2011

CANICANI recensione

Può piacere o non piacere, ma ti entra nella testa, ti pesa sul cuore. Se non ti è piaciuto, non puoi ignorarlo anche se ne scacci il pensiero come una mosca che ti molesta con un ronzio incessante, esasperante; se ti è piaciuto, o meglio, se l’hai apprezzato, senti la necessità di analizzare le situazioni, non per avere una visione più chiara della rappresentazione, ma per cercare una via d’uscita da quell’orrore sconfinato che ti assale con violenza. Il desiderio di vendetta è come un urlo che implode in te facendo scempio del tuo cuore; vorresti schiacciare come insetti schifosi questi genitori snaturati e immondi, quello zio pervertito, libidinoso, quel ristoratore cinico, astuto, ributtante, ma questa violenza è tenuta al guinzaglio dalle vittime e si stempera nel tenero rapporto tra Canciòn e Canbett, e Canfil, che, nonostante la sua rabbia, manifesta il suo disperato bisogno d’amore accettando di prendere la mano di Canciòn, ormai in fin di vita, con una titubanza e una apprensione commoventi.


Una scena mi ha particolarmente colpita: quella in cui Canciòn morente chiede aiuto al padre. Sarebbe stato facile accentuarne i toni drammatici, data la situazione; invece ho apprezzato molto la misura con cui viene fatta: c’è stanca rassegnazione per lo scontato rifiuto, ma io vi ho “letto” anche come un’offerta di redenzione all’abominevole padre, come un’ultima speranza prima di morire.
Il bambino che deve nascere esce dal ruolo di “frutto di un incesto” per diventare la forza trainante verso una vita degna di chiamarsi tale.

Vincenza Colombo


NOI SIAMO LUPUSAGNUS


Ai tavoli della “Compagnia dell’Agnello” si erano già accomodati l’elfa arciera Canbett con gli hobbit esploratori Cancion e Canfil. Il locandiere Burgo servì loro birra chiara e scura. Nessuno parlava. Erano tutti in attesa di qualcuno e di qualcosa. In un angolo, Marcos accompagnava con la viella il bardo Aquilio che cantava imprese eroiche ancora da compiere.

La porta fu spalancata e sull’abbaglio si stagliò l’orco Tatù, villoso e ingrugnito, con la sua ninfa Chicce, radiosa. “Birra, Burgo!” urlò l’orco spaccando un tavolo con un pugno. Lo schianto fu seguito dal fracasso della porta divelta dai cardini e scaraventata sopra la quercia millenaria. Il troll Lo entrò allargando il vano con le spalle nude, muscoli di pietra. “Mi distruggi la locanda!” gemette Burgo; ma il troll lo zittì con un ringhio. Dalla breccia nel muro volò dentro sulle vibranti ali di libellula la messaggera Julia, più veloce di uno sguardo. “Eccolo!” annunciò.

Il camino emise uno sbuffo di fumo arcobaleno in cui si formò la figura del mago Stephano. Levò alto il braccio sinistro per fare alzare tutti in piedi, poi levando il destro fece crollare una parete e sul prato antistante apparvero gli abitanti del borgo, assiepati per assistere ai prodigi.

“Staniamo il lupo!” comandò il mago.

“Ma voi chi siete?” domandarono in coro gli spettatori.

In quel momento, calò un’ombra gigantesca e tutti rabbrividirono. Tra loro e la locanda si posò un drago. Ci stava in arcione la regina Martosta, seguita dalle amazzoni Carlott e Lindola sopra candidi cavalli alati.

“Noi siamo Lupusagnus” rispose il drago. Poi soffiò fiamme in cielo per incidere il nome sulle nubi.

CANICANI recensione

La Trilogia della Famiglia si chiude con un pugno allo stomaco


Buona la prima! Non perfetta, sia chiaro: Canicani, ultimo atto che chiude la Trilogia della Famiglia, ha bisogno di una sforbiciata qua e là, di un po' di rodaggio e della limatura di qualche eccessiva volgarità verbale (come peraltro ammesso dallo stesso autore, Aquilino, al termine della rappresentazione). Ieri sera al teatro Binario 7 di Monza è andata in scena la prima assoluta dello spettacolo, a cui seguiranno la pomeridiana e la serale di oggi. Il pubblico in sala ha applaudito con calore ed è parso aver gradito la resa scenica di questo testo particolarmente intenso che Stefano De Luca ha affidato a un affiatato gruppetto di giovani attori. Due ore e poco più di pugni sferrati con violenza direttamente allo stomaco, senza concedere respiro agli spettatori. Fuor di metafora: Canicani è una discesa per tutti i gironi infernali, senza purtroppo l'ausilio e il conforto di una guida benevola. Solo i più ottimisti (o ingenui) possono sperare di intravedere una luce in fondo al tunnel e di trovare le energie per risalire al purgatorio di una vita "normale". Beh, normale.... Il ménage familiare che vediamo rappresentato sulla scena assomiglia fin troppo a quello che la cronaca (spesso quella nera) e le indagini demoscopiche raccontano di noi.

Il pater familias è padrone assoluto nel chiuso delle quattro mura, ma a sua volta è schiavo passivo della televisione. Incollato, anzi invischiato alla poltrona, non trova la forza, né sente più il bisogno di sollevarsene. La moglie-madre è invece vittima dello stereotipo della "bionda senza cervello", interessata unicamente a sfondare nel mondo dello spettacolo, ad apparire sotto i riflettori. Annamaria Rossano dimostra una fortissima presenza scenica, "occupando" e dominando il palco con le sue mosse, i sorrisi da svampita e l'energia della disperazione che muove la protagonista che interpreta. Da cabaret i duetti con il fratello Lo, interpretato da un effervescente Tommaso Banfi. Tra moglie e marito si recita una tragicommedia che vira al grottesco.

Ma quando entrano in scena i figli, i Canicani, lo spettacolo s'inabissa nei toni più cupi della tragedia dark, in cui gli interventi del macellaio dal sorriso clownesco non servono ad alleggerire l'atmosfera quanto piuttosto ad aggiungere lo sfregio del sarcasmo alla ferita della carne. La canzone del Ristorante del Niente è l'esasperazione angosciante de La casa di Sergio Endrigo (Era una casa molto carina / senza soffitto, senza cucina; / non si poteva entrarci dentro / perché non c'era il pavimento...): i "cuccioli" hanno certamente fame di cibo, ma sono soprattutto bisognosi di affetto. E invece riceveranno soltanto minacce, soprusi e violenze.

Un discorso a parte merita il dibattito sollecitato al pubblico dal regista a fine rappresentazione. Confesso di nutrire qualche dubbio sulla reale utilità di iniziative di questo tipo, considerando il teatro un rito, dunque un qualcosa che si mostra, non che si "dimostra". In particolare mi ha colpito la ferma convinzione, da parte dell'autore Salvadore, del ruolo pedagogico e formativo del teatro e più in particolare di spettacoli incentrati su temi così problematici come quelli affrontati in Canicani. Anche in questo caso non posso che manifestare i miei dubbi.

Ho trovato molto pertinente, e del tutto condivisibile, l'osservazione - domanda di uno spettatore che ha chiesto se vi sia la possibilità di creare un teatro "positivo e propositivo", che indichi in pratica una possibile strada di redenzione, senza "limitarsi" a denunciare i motivi e i modi della caduta. Dopo averci riflettuto, mi viene da rispondere che andrebbe ribaltata la celebre massima con cui Tolstoj dà avvio ad Anna Karenina: "Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Il teatro può raccontare il dolore, la sofferenza e la morte perché sono esperienze che accomunano tutti gli uomini, mentre la felicità e la gioia sono "indicibili" perché troppo personali e dunque non teatrali.
Saul Stucchi

CANICANI
drammaturgia Aquilino
regia Stefano De luca
con Enrico Ballardini,Tommaso Banfi, Matteo Barbè, Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano e Fabio Zulli
Produzione LUPUSAGNUS



domenica 20 febbraio 2011

CANICANI recensione

La mattanza della famiglia contemporanea tra violenza e sogni di successo

Creato il 20 febbraio 2011 da Valed
Un padre violento e ottuso che non si alza mai dalla poltrona e che ha un vocabolario limitato a insulti e improperi. Una madre con smanie di protagonismo e ambizioni di successo. Entrambi soggiogati e vittime dell'immaginario televisivo che inghiotte la realtà in un grande vuoto. Uno zio in arrivo dagli anni Settanta per il look, dalla cronaca contemporanea per l'incesto (con la sorella): viscido e succube del dio danaro. Un ristoratore-macellaio mellifluo e orribile, che dalla famigliola si rifornisce di organi e carne da servire ai clienti come prelibatezze. Poi ci sono loro, i canicani, i figli vittime della violenza domestica, della violenza della società. Allevati come carne da macello, pronti a essere sostituiti da nuovi bambini. Uno spaccia, l'altra si prostituisce, al terzo levano gli organi perché è l'unico ad averli sani, ma muore; sta per essere sostituito da un feto figlio di un incesto, frutto della violenza del padre sulla figlia. Nel finale sospeso da riscatto e rassegnazione sarà proprio la voce del bambino in grembo alla ragazza a sconfiggere la violenza degli adulti e a lasciare aperta la speranza di un futuro di integrazione e normalità.Tematiche sconvolgenti, quelle scritte dal drammaturgo Aquilino e messe in scena dal regista Stefano De Luca, che con la sua compagnia Lupusagnus ha realizzato una trilogia della famiglia intorno ai temi della violenza domestica: Mamma mammazza racconta di una madre che uccide il figlio, Verginella di un abuso, Canicani è l'ultimo capitolo.Temi così forti da richiedere un distacco brechtiano e catartico dalla materia. Motivo per cui il regista ha operato una scelta stilistica spiazzante: rappresentare il testo in forma di musical. Operazione pienamente riuscita: il distacco è funzionale, l'atmosfera surreale e i personaggi grotteschi aiutano a prendere coscienza che la violenza che viene rappresentata in scena ha un'attinenza alla realtà e al contemporaneo molto più stretta di quanto si sarebbe potuto percepire attraverso il coinvolgimento emotivo.Lode agli attori, tutti bravissimi, alcuni travolgenti: Annamaria Rossano (che dà una voce perfetta e una presenza scenica carismatica alla madre) e Tommaso Banfi (lo zio, originale e vagamente pulp). La formazione accademica si vede, e fa la differenza.Il contrasto tra materia tragica e forma comica perde di efficacia nel finale: il lirismo delle figure dei canicani non si incastra bene con le figure grottesche degli adulti. Inoltre l'intervento della voce del feto è sembrata personalmente una passo di troppo in direzione del surreale.Qualche ridondanza nel testo e nella resa del personaggio del padre non tolgono valore al lavoro di De Luca, coraggioso indagatore dell'orrore domestico. Indagine condotta con serietà, senza compiacimenti né retorica, ma soprattutto con tanta sincerità e impegno nell'assumere il compito che ogni teatrante dovrebbe avere come ideale: comunicare al pubblico, scuotendo le coscienze e proponendo delle chiavi di lettura del presente, dando degli strumenti che aiutino a comprendere meglio il mondo in cui viviamo. Non voglia di provocare, ma profondità dei contenuti.La passione nelle parole usate da De Luca durante l'incontro a fine spettacolo ci hanno trasmesso la passione per un mestiere, l'affermazione della dignità del ruolo del teatro (essere un mezzo di redenzione dagli orrori della società), il rispetto per il pubblico; e per una volta abbiamo sentito la parola che più manca nel mondo teatrale: dialogo, in questo caso tra artisti e pubblico. Il pubblico ha risposto con partecipazione a questa richiesta di confronto durante il dibattito (preceduto dalla distribuzione di un questionario che presentava anche delle domande a risposta aperta) nessuno ha lasciato la sala, ma tutti hanno compilato il questionario e hanno seguito la discussione. Che, peraltro, non è stata affatto banale ma anzi accesa e costruttiva. Dobbiamo dire che questa sera il pubblico di provincia ha dato una lezione a quello milanese: partecipe e pronto a farsi provocare e a interrogarsi, mentre il pubblico milanese si sta annoiando in un atteggiamento di sufficienza, di estraneità, di chiusura. Difficilmente si riesce a sorprendere lo spettatore metropolitano, sempre più simile a un medico che esegue un'autopsia: si abitua a tutto, considera la materia che ha di fronte come oggetto di analisi clinica.A fine spettacolo ci siamo trattenuti un'ora a parlarne tra amici e addetti ai lavori: anche questa una rarità e comunque sempre segno che c'è sostanza su cui lavorare!
visto al Teatro Binario 7 di Monza il 19.II.2011
Compagnia LupusAgnusCANICANIdi Aquilinoregia Stefano De Lucacon Marta Comerio, Tommaso Banfi, Annamaria Rossano

mercoledì 16 febbraio 2011

CANICANI SPOT



Spot promozionale dello spettacolo Canicani di Aquilino, regia Stefano
De Luca, realizzato da Mario Garofalo.

lunedì 14 febbraio 2011

LA SAGGEZZA DEI MITI


Luc Ferry, "La saggezza dei miti", Garzanti 2010.

Calipso chiede a Ulisse di rimanere per sempre con lei. In cambio gli offre l'immortalità e la giovinezza eterna. Ulisse rifiuta. Da pagg. 14 e 15:

"Lo scopo dell'esistenza umana non è, come penseranno poi i cristiani, ottenere con ogni mezzo, anche i più morali e i più difficili da accettare, la salvezza eterna, giungere all'immortalità, perché una vita da mortale realizzata è di gran lunga superiore a una vita da immortale fallita! In altri termini, Ulisse è convinto che la vita "delocalizzata", lontano da casa, senza armonia, fuori dal proprio luogo naturale, ai margini del mondo, sia peggiore della morte stessa.
Di riflesso, indirettamente, viene così abbozzata la definizione della vita buona, dell'esistenza realizzata e si comincia a intravedere la dimensione filosofica della mitologia: alla stregua di Ulisse, occorre preferire una condizione da mortale conforme all'ordine cosmico, piuttosto che una vita da immortale in preda a ciò che i greci definiscono hybris, la dismisura, che ci allontana dalla riconciliazione con il mondo. Dobbiamo vivere lucidamente, accettare la morte, in accordo con ciò che siamo veramente e con ciò che si trova al di fuori di noi, in armonia con i nostri familiari e con l'universo. (...)
E' una lezione di vita che rompe con il discorso religioso dei monoteismi passati e futuri, un messaggio che la filosofia dovrà soltanto, per così dire, tradurre in ragione per elaborare a modo suo dottrine della salvezza senza Dio, della vita buona per noi semplici mortali."