martedì 29 aprile 2014

CAPPUCCETTO LUPO


In Piemonte sono presenti un centinaio di lupi in diversi branchi, minacciati dal bracconaggio, dagli avvelenamenti e dagli incidenti stradali. Ma tutta la natura è in pericolo. “Cappuccetto Lupo” è sensibilizzazione e invito a pensare e a fare di più in difesa dell’ambiente.

Il Comitato Genitori in collaborazione con L’Istituto Comprensivo “E. S. Verjus”, la Biblioteca Civica “E. Julitta”, il Museo Civico “C.G. Fanchini”, l’associazione Tecneke e il WWF Piemonte presentano “CAPPUCCETTO LUPO”, spettacolo teatrale scritto e diretto da Aquilino, con Maela Arzani (Maela), Lorenzo Bedale (Graffio), Andrea Boraso (Licos), Luca Caramori (Scuoio), Gianluca Dolcetti (Diserbo), Bruno Alonso Figueredo (Dentino), Giada Magnaghi (Anima), Amanda Picone (Cappuccetto Lupo), Nicolò Picone (Nicolò), Chiara Spitale (Vegeta). Gli interpreti hanno dai dieci agli undici anni.

Cappuccetto Rosso, diventata adulta, ha cambiato nome in Cappuccetto Lupo. Odia i lupi e coglie l’occasione di sterminarli appoggiando un progetto immobiliare che prevede la distruzione della foresta. Assolda due spietati mercenari, Scuoio e Diserbo, ma Anima (lo spirito degli animali) e Vegeta (lo spirito della vegetazione) aiutano i due figli di Cappuccetto Lupo a fermare la madre. Le forze della natura si uniscono a loro per scacciare Scuoio e Diserbo.

Rappresentazione presso il Teatro Civico di Oleggio venerdì 30 maggio alle ore 21.00 con ingresso libero. Sarà presente un rappresentante del WWF che introdurrà la serata.

Mostra del WWF Piemonte “Non gridare al lupo” in diciotto pannelli presso la Biblioteca Civica in Vicolo Chiesa 3, dall’1 al 31 maggio. Saranno esposte vecchie tagliole per lupi e copie di documenti dei secoli scorsi sulla presenza del lupo nel novarese. Visite negli orari di apertura della biblioteca: Lunedì: 9.00-13.00;  Martedì e Venerdì: 15.00-19.00;  Mercoledì e Giovedì: 15.00-18.00;  Sabato: 8.30-12.30.

Attività “Leggere il lupo” con le scuole elementari a cura dei volontari della Biblioteca: consultazione della raccolta di libri sul lupo; laboratori di lettura e di disegno.

INFO
Comitato Genitori:       genitori.verjus@gmail.com
                                   https://www.facebook.com/GenitoriVerjus

Biblioteca Civica:        0321 91343

SULLA TRAGEDIA GRECA

Un inno alla democrazia?



Ritengo metodologicamente corretto, per avviare un percorso di definizione della tragedia greca, prendere le mosse dalla prima tragedia completa a noi pervenuta, i “Persiani” di Eschilo. Essa raccoglie l’eredità degli autori precedenti (Tespi, Frinico, Pratina) e pone le basi per elaborazioni successive da parte dei futuri tragediografi; i quali avrebbero dato contributi sia nella continuità sia nella discontinuità. Qualcosa accomuna la prima di Eschilo all’ultima tragedia di Euripide, le “Baccanti”: il rapporto di Atene con l’Asia, un rapporto tra apollineo e dionisiaco, fra democrazia e dittatura, fra media virtus e sfrenatezza.
Nei Persiani è subito chiaro che tra Susa e Atene c’è un’enorme differenza di gestione del potere. In Persia il potere assoluto è nelle mani di uno solo, che si presenta al popolo non come suo servitore, ma come dio in terra, un faraone africano o un maharaja asiatico; in Grecia è in atto un processo che dal feudalesimo aristocratico porta alla democrazia, veicolata anche dal potere di uno solo, ma illuminato e non assoluto. La regina Atossa domanda chi sia il signore dei greci e il Coro risponde, con suo stupore, che “si gloriano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo sudditi”.
Il cambiamento (che Eschilo esprimerà nell’Orestiade, sacrificando però l’autonomia della donna), dalla giustizia sommaria della faida medievale all’aeropago, tribunale della polis, definisce il potere non come decisione del singolo o della famiglia, non come genos, ma come deliberazione fondata su leggi volute dalla comunità, come ethos.
Un processo che riguarda quindi la gestione del popolo nella giustizia, secondo le leggi che gli uomini elaborano in accordo con la volontà degli dei.
Serse ha peccato di hibris, di tracotanza, presumendo di potere contare solo sul proprio giudizio e non su quello divino espresso negli oracoli. La sua impresa è destinata al fallimento perché non ha ascoltato gli dei e ha ignorato la volontà del popolo.
Il Messaggero afferma: “I numi proteggono la città della dea Pallade. (…) Un genio vendicatore o un maligno demone apparso da chissà dove condusse all’estremo disastro.” Alla regina non resta che prendere atto della verità: “Le ostilità degli dei mi abbagliano gli occhi.”
Serse non deve quindi fare i conti con i propri strateghi o con le proprie decisioni errate, ma con il potere incentrato su una sola persona che si eleva al di sopra degli dei, e pretende di governare sul mondo intero e perfino sull’Olimpo. Le conseguenze sono disastrose per lui, ma foriere di nuove prospettive di libertà e democrazia per i popoli sottomessi (sempre che non incorrano in altre incrinature del patto tra uomini e dei, fondato sull’ascolto della volontà divina e sull’accettazione della condizione umana).
Recita il Coro: “Singhiozza, ora, o suolo d’Asia tutto deserto. (…) I popoli d’Asia non più obbediranno alle leggi persiane… né al suolo prostrati si lasceranno tiranneggiare: la potenza del re è dileguata. Né più la lingua dei sudditi è stretta in catene, e il popolo liberamente si sfrena a parlare ora ch’è sciolto il giogo dell’oppressione”.

In questo primo ambito, la tragedia greca parla al popolo di libertà e democrazia, di giustizia e rispetto degli dei. Dal 534, anno in cui Pisistrato inaugura le Grandi Dionisie, un altro spazio di discussione pubblica è a disposizione degli ateniesi, oltre all’agorà: quello del teatro. Uno spazio di presentazione, riflessione e problematizzazione di grandi temi sociali e politici. Il progresso è condiviso e sollecitato dal popolo, non è nelle mani di uno o di pochi.
La rappresentazione dei Persiani, opera vincitrice delle Dionisie, è del 472. Pochi anni dopo, tra il 458 e il 456, giunge all’apice il conflitto tra l’ideologia conservatrice di Cimone, fautore di un governo aristocratico, e la spinta democratica di Pericle.
Gli dei governano ancora Atene, ma dopo l’esaltazione per la sconfitta della Persia, si profilano i tempi incerti del conflitto con Sparta. Atene sarà coinvolta per un lungo periodo nelle guerre del Peloponneso. La devozione agli dei non è sufficiente per assicurare pace e benessere. La democrazia scricchiola, Atene non è più il centro del mondo, il breve periodo della tragedia ha fine. Democrazia e libertà sono solo un sogno? No, ma rivelano una labilità che costringe l’uomo a una fatica incessante per tutelarle.
Ho citato, all’inizio, le “Baccanti” come termine di confronto con i “Persiani”. Anche nell’opera di Euripide troviamo il confronto tra un re greco, Penteo, e il potente “inviato” di un dio straniero, Dioniso, dagli usi e costumi diversi. Anch’egli è un conquistatore come Serse: “E poi, una volta rimesse in ordine le cose qui, mi dirigerò verso un’altra terra.” Penteo riconosce in  lui il meteco, lo straniero; ma più che diffidenza e repulsa prova curiosità e addirittura ne subisce il fascino ambiguo: “Hai i capelli sciolti, provano che non frequenti palestre, ti scendono lungo le guance, accendono i desideri. Hai la pelle bianca e vuoi averla bianca, stai all’ombra, eviti i raggi del sole: dai la caccia ad Afrodite, con la tua bellezza.”
Si profila uno scontro tra una divinità dalle origini misteriose (tutto ciò che era ambiguo, misterioso, eccessivo era orientale) e la stabilità politica, sociale e religiosa della Grecia. Uno scontro tra Asia ed Europa, come nei Persiani. A Penteo la vittoria pare semplice e immediata: imprigiona lo straniero e si mette in caccia delle donne di Tebe impazzite, divenute Baccanti. Ma Euripide opera un ribaltamento: non è l’Asia a peccare di hibris, ma la Grecia, dato che Penteo si oppone ai riti di un dio. Lo sconfitto sarà quindi lui. L’Asia, con i suoi misteri e le sue esuberanze, ha partita vinta sull’Europa razionale e civile. Ma è davvero così? Euripide rimescola sempre le carte. Che cosa rimane, alla fine? Non la gioia del trionfo, ma il lutto per un orribile massacro, la profanazione del rapporto sacro tra madre e figlio, la desolazione delle donne rinsavite, l’angoscia perché il rapporto dell’uomo con gli dei non è per niente chiaro e fecondo, ma può portare distruzione e dolore.

Non c’è un piano provvidenziale, dichiara Euripide. C’è solo un mondo assurdo contro il quale l’umanità tenta di opporsi confidando nelle leggi e nel progresso, ma invano. La democrazia può finire come le donne di Tebe: in un branco selvaggio che pratica lo sparagmos e smembra animali vivi, che divora carne cruda, che distrugge i villaggi, che rapisce i bambini, che uccide. Istituite da un tiranno, Pisistrato, nelle Grandi Dionisie le tragedie non risultano certo un’operazione governativa di demagogia. Esse non rafforzano il potere del momento, ma ne mettono sempre in discussione le fondamenta e le modalità operative. In molti personaggi erano ravvisabili i potenti, operazione che per noi risulta difficile o impossibile. Attraverso vicende mitiche, il tragediografo rifletteva e faceva riflettere sui valori fondamentali e sull’operato dei politici. La tragedia greca non rifletteva quindi una cultura di Stato, al contrario. Essa spesso indispettì politici, religiosi e anche il popolo, quando risultava innovativa fino all’eresia o all’eversione.
Eschilo


Un processo di umanizzazione?

Da Eschilo a Euripide è facile riscontrare come le vicende umane siano regolate dapprima dagli dei, poi da eroi eccezionali, infine siano di totale pertinenza degli uomini comuni che dagli dei devono aspettarsi, più che soccorso, ostacoli e malevolenze. “Chi con tutto il cuore canta epinici a Zeus, otterrà la sapienza perfetta. È lui che avvia i mortali sul cammino della saggezza.” Così scrive Eschilo nell’Agamennone. E nel finale della trilogia, nelle Eumenidi: “Siate felici, felici nel florido possesso della ricchezza. Chi sta sotto le ali di Pallade il Padre lo rispetta.”
Dagli dei, dice Eschilo, viene la sapienza per governare con giustizia e anche per assicurare al popolo il benessere. Solo assecondando gli dei Atene può essere esempio di florida pace. Zeus (è quasi un monoteismo) è sempre presente per guidare l’uomo e per assicurarsi che non superi i propri limiti, non pecchi di hibris e si assoggetti ad ananke, la necessità.
Un piano salvifico che risulta più nascosto e meno comprensibile a Sofocle.
Nell’Aiace fa dire ad Atena: “Ero io! Col suo cervello malato, ossessionato, io lo frustavo, l’affondavo nella trappola cupa.” La dea è dentro Aiace e lo manovra con il solo scopo di farlo impazzire, di farlo vergognare di se stesso al punto da spingerlo al suicidio. Aiace ha ignorato il potere degli dei, quando ha affermato: “Faccio a meno di loro. Credo in me stesso.” Il peccato di tracotanza c’è, ma la pena divina è proporzionata alla spacconata? Gli dei sono troppo crudeli, infieriscono sugli uomini senza pietà. Sofocle fa dire a Odisseo: “Noi esseri umani che siamo? Spettri, impalpabile ombra.”
Il rapporto tra gli uomini e gli dei è necessario, ma incomprensibile. Gli dei sono distanti dall’uomo e all’uomo non resta che accettare il dolore inspiegabile provocato dai loro interventi. Dalla fede certa di Eschilo a un germoglio di agnosticismo che ancora non si sviluppa. Trovando difficile raccordarsi all’Olimpo, Sofocle si concentra sugli uomini, approfondendone le motivazioni e le aspirazioni. A differenza di Eschilo, che badava più all’evolversi della vicenda verso un finale significativo che al personaggio, Sofocle sviluppa la psicologia dei suoi protagonisti, solitari e impotenti, abbandonati dagli uomini e dagli dei nonostante un passato eroico (Eracle) o la dedizione assoluta a un ideale di giustizia (Antigone).
Ma il ruolo di “umanista” spetta a Euripide.

Se Sofocle ha fondato la religiosità delle tragedie soprattutto sugli oracoli, Euripide svaluta gli indovini come Calcante facendo dire ad Achille: “Che razza d’uomo è un indovino, che enuncia poche verità e molte menzogne, se gli va bene, e, se non gli va bene, non se ne cura?” La comunicazione tra gli uomini e gli dei è interrotta e quando c’è può risultare falsa.
“Vedo ciò che fanno gli dei. Innalzano ciò che non vale nulla e abbattono ciò che ha fortuna” dice Ecuba. Oreste, nell’Ifigenia in Tauride, chiarisce il pensiero: “Impera il disordine in cielo e in terra”. L’Olimpo è quindi specchio deformante dell’umanità e anche gli dei si ritrovano in un caos (soprattutto razionale, poiché è con la filosofia di Anassagora, il cui nous mette ordine nell’universo; e di Socrate, l’indagatore sofistico, che Euripide definisce il proprio approccio). Per sondare le profondità della psiche e per comprendere il comportamento umano non c’è bisogno degli dei, utilizzati come deus ex machina per una soluzione veloce del plot. La scrittura, alta in Eschilo, si abbassa a livello dell’uomo, uomo non più eroe, ma fattore di identificazione per il pubblico. Uomo riconoscibile nei suoi tratti di vita quotidiana, uomo ateniese di tutti i giorni che proprio per questo turba di più gli spettatori, tanto da negare a Euripide l’empio le vittorie alle Dionisie. Non è meglio evadere dalla realtà con la fede negli dei soprannaturali che vedere sulla scena il marito adultero, la madre figlicida, la moglie gelosa fino all’omicidio, la follia del fanatismo religioso, le viltà dei potenti? E le donne che la vincono sugli uomini e che dovrebbero avere in Atene una dignità civile ben diversa?
“Qualcuno sostiene ancora che gli dei vivono nel cielo? No, lassù non vive nessuno, proprio nessuno; a meno che non si sia sciocchi e si voglia prestare fede alle leggende del tempo antico”. Queste incredibili parole sono pronunciate da Bellerofonte in un frammento dell’opera perduta di Euripide. Forse, più che perduta, è stata bandita (in U.Albini, Euripide o dell’invenzione, Garzanti 2000, pag. 145).

Sofocle

Educazione popolare e consenso?

Pisistrato, dunque, offre visibilità ai tragediografi nelle Grandi Dionisie. A loro sono riservati gli ultimi tre giorni, dopo le gare dei ditirambi e delle commedie. Tutta la popolazione è spinta a partecipare. I ricchi detengono la coregia, pagano per tutti; fare parte dei declamatori di ditirambi o degli interpreti o del coro è un onore. Verso il luogo delle rappresentazioni muove un lungo corteo alla cui testa ci sono gli orfani di guerra mantenuti dalla città, le vergini, i bambini… e davanti a tutti le autorità civili e religiose. Inni e sacrifici inaugurano le Dionisie, che sono un’offerta agli dei. La città sceglie e paga l’autore. Può l’autore non corrispondere a tante attenzioni? Certo. Fa il suo dovere, rivitalizzando il mondo dei miti che costituisce le fondamenta di Atene e che già comincia a scricchiolare. La sacralità del mito è infranta dallo stesso trattamento che gli riservano i tragediografi. Ognuno ne fornisce versioni personali ed è proprio questo che fa spettacolo e desta la curiosità del pubblico: in scena c’è Elena, ma come sarà questa Elena? Già il passato offre una varietà sconfinata di varianti legate a tempi e luoghi diversi. Ma questa libertà d’autore è libertà espressiva, non c’è dubbio. Tanto che sia Eschilo sia Euripide sono accusati di empietà. Euripide, soprattutto, desta sospetti di non allineamento alle politiche civiche; è anche amico di Socrate; frequenta filosofi con idee eretiche; collabora con giovani musicisti rivoluzionari. L’utilizzo del mito, tuttavia, non è dissacrante in senso spregiativo. Esso viene rispettato per la sua potenza di indagine, conoscenza e comunicazione. Già nel V secolo esso rischiava di essere imprigionato in strutture narrative fini a se stesse, una serie di favole senza più incidenza sulla realtà. I tragediografi lo riutilizzano per fare luce sull’animo umano e sulla storia.

Le Dionisie erano un collante sociale, non c’è dubbio. La polis si raccoglieva intorno alla propria storia e celebrava se stessa. Ma non si può parlare di teatro di regime. I tre artisti più che un consenso hanno prodotto un dissenso; ma si tratta di quel dissenso fecondo e democratico che consente alle idee di circolare e che stimola la produzione di idee sempre nuove. Non per niente Atene  è stata per lungo tempo all’avanguardia nel campo del pensiero, della scienza, della politica e dell’arte. Non per niente tutto questo è ancora vitale e offre continui stimoli a pensatori e artisti.
L’educazione popolare si è realizzata non nell’esaltazione della verità di regime, ma nell’osare critiche nei riguardi del regime stesso, del mondo ormai anacronistico degli aristocratici, di una religione messa sempre più in crisi dalla filosofia, dell’emarginazione femminile, della presunta infallibilità della giustizia…
I tragediografi hanno avviato un processo irrefrenabile, quello della rivisitazione del mondo attraverso l’arte. Hanno sviluppato il ditirambo dedicato agli dei e l’hanno trasformato nel teatro fatto per gli uomini.
Euripide

Teatro tragico o teatro totale?

La tragedia greca è purtroppo diventata elemento di studio nei licei e occasione di rappresentazione spettacolare e turistica, relegata in un ambito elitario quando invece è nata per essere comunicazione universale, rivolta a tutti. Molti di coloro che la mettono in scena lo fanno con la cautela e il timore di chi ha a che fare con oggetti di culto. Oppure si rifanno a un’antichità stereotipata, senza scorgerne la vitalità sempre attuale.
Trattare la tragedia da tragedia può essere sviante.
Nelle tragedie del quinto secolo ritroviamo il mondo epico dell’Iliade, ma scopriamo anche i meccanismi della commedia. Ci sono le danze rituali, ma anche le sperimentazioni delle prime forme di teatro-danza. C’è la recitazione mimetica, quella che facilita la catarsi; ma gli attori in più cantano, in forme sia monodiche sia corali. Se in Eschilo la dimensione interpretativa è ancora ieratica (ma “spettacolare”), da Sofocle in poi il teatro dà fondo a tutte le proprie risorse: fondali e scenografie, colpi di scena e macchine, innovazioni interpretative e registiche.
Abbiamo di fronte un teatro totale che può riservare ancora sorprese in fase di messa in scena, purché si consenta alle opere dei tre tragediografi di rivivere secondo le potenzialità inespresse, che non avranno mai fine. Se il teatro è nato dal ditirambo, e prima ancora dalla danza cantata, è lì che bisogna tornare. Alla musica, seguendo l’intuizione di Nietzsche. Ma non alla melodia suggestiva o al tappeto di sottofondo o alla composizione che entra in competizione con la drammaturgia. Musica che non accompagni la parola, ma con la quale si unisca in uno scambio reciproco di espressività, musica che sia una traslitterazione del movimento, musica insomma come fusione di parola e movimento.
Anche la tragedia greca deve sottostare ad ananke, la necessità: è destino che essa continui a vivere.   


venerdì 25 aprile 2014

GENEALOGIA DEL TEATRO

Presso i greci, l’identità e il valore di una persona dipendevano dal genere e dalle origini. Donne e bambini erano svalutati (“La vita di un uomo vale più dell’esistenza di mille donne” afferma Ifigenia ad Aulide scegliendo di sacrificarsi per consentire agli uomini di partire per la guerra; e a Tauride dichiara: “In una casa, se scompare il maschio se ne avverte la mancanza; una donna conta poco.” In Medea però il coro dice: “Il giudizio comune sulle donne muterà; verrà esaltata la mia vita, onorato il nostro sesso. Finirà lo strepito delle voci infamanti”) e gli uomini si presentavano più come figlio di che come autore di. La discendenza e la provenienza venivano prima delle imprese e degli onori accumulati.
Clitennestra, in “Ifigenia in Aulide”, domanda ad Agamennone: “Mi è noto l’uomo al quale hai concesso Ifigenia: ma vorrei conoscerne la stirpe e la patria.”
Penteo dice a Dioniso, nelle “Baccanti”: “Comincia col dirmi da chi discendi.”
Il Coro chiede a Edipo, in “Edipo a Colono”: “Di che sangue sei, viaggiatore, di che padre?”

Quando si consulta una storia del teatro, si rimane un poco delusi dalle informazioni relative alle sue origini. Il teatro viene fatto nascere, in modo a volte confuso e misterioso, dal culto tributato a Dioniso. Si cita il ditirambo, il canto danzato in suo onore. Si riportano passi di Aristotele e di pochi altri. Sorgono domande. Come e dove era nato il ditirambo? Chi era Dioniso? Per quale motivo è stato considerato il dio del teatro? Se ricostruiamo la sua genealogia, ci avviciniamo anche alla genealogia del teatro? Nello spirito dell’antropologia teatrale di Barba, mi metto alla ricerca delle radici di Dioniso, con l’augurio che l’identità storica del teatro si faccia meno sfocata.
I primi studiosi della misteriosa divinità negano la non grecità di Dioniso, come fa Walter Otto nei cenni preliminari del suo “Dioniso” per “… dimostrare quanto antica fosse la consuetudine dei Greci con la religione dionisiaca e quanto poco persuasive le tesi della sua immigrazione dalla Tracia o dalla Frigia.”
E James Frazer ne “Il ramo d’oro” scrive, a proposito delle origini di Dioniso: “Non dobbiamo pensare che questi popoli occidentali (che abitavano le coste e le isole dell’Egeo) avessero preso in prestito dall’antica civiltà orientale la concezione di un dio morto e risorto (…). Più probabilmente, le analogie riscontrabili sotto questo aspetto fra le religioni orientali e quelle occidentali sono semplicemente ciò che noi, sia pure erroneamente, chiamiamo coincidenze fortuite, effetto di cause simili che agiscono su menti umane, ugualmente simili, in paesi diversi e sotto diversi cieli.”
Robert Graves, ne “I miti greci”, fa viaggiare Dioniso secondo quello che è l’itinerario, come vedremo più avanti, delle sue origini: Tracia, Lidia, Grigia, Egitto, India… “Il filo conduttore della mistica storia di Dioniso è il diffondersi del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale. Il vino non fu inventato dai Greci; pare che fosse dapprima importato in giare da Creta.”
Il terzo capitolo del “Dioniso” di Karl Kerenyi è intitolato “Il nucleo cretese del mito di Dioniso”. Ritroviamo a Creta gli elemti tipici del culto dionisiaco: miele, uva, edera, maschera, capra, toro, falloforia, serpente, morte e resurrezione del fanciullo, danza… E sacrificio, sparagmòs, l’indistruttibilità della vita nella distruzione stessa. Il culto è legato alla zoè contrapposta alla bios; la vita infinita contrapposta alla vita finita; il tempo dell’anima, come scrive Plotino, durante il quale la zoè  passa da un bios all’altro, all’infinito. Il ciclo di vita e morte, per cui Dioniso è rappresentato insieme ad Arianna, dea ctonia, dea del Labirinto, dell’emergere dal caos alla forma della danza, dalla mancanza di orientamento all’uscita nella luce. Lo Zagreo cretese è Zeus-Dioniso, il precursore di entrambi gli dei greci.
Da Creta già Erodoto ci aveva portato in Egitto, facendo rilevare la somiglianza del mito e del rito di Osiride con quello di Dioniso. Osiride, dio degli inferi e della fertilità, anche lui ucciso e smembrato e poi risorto, anche lui strettamente legato all’elemento femminile.

Quali elementi pseudo teatrali ci si presentano, in questa fase, prima che venissero elaborati la tragedia e il dramma satiresco?
Anzitutto la danza, eseguita dapprima in forma circolare e poi sempre più elaborata con schieramenti frontali, a spirale, incrociati, e con esibizioni a coppie e singole. Ma oltre alla danza si attuavano già piccole performance drammatiche in vari ambiti cultuali. Durante le processioni, con scherzi e provocazioni verbali, di genere salace. Durante i misteri, e i primi furono gli Eleusini, di provenienza cretese. Gli officianti si mascheravano per impersonare la divinità e ne recitavano la vita e le imprese. In Egitto era lo stesso faraone a praticare l’Osirizzazione per esempio nel Dramma di Abido, recitando vita e morte del dio. La drammatizzazione  era consentita solo a lui, nessun altro poteva interpretare sulla scena. Questo uso politico-religioso del teatro ne impedì la nascita e l’evoluzione, dimostrando come tutte le forme di assolutismo siano sterili.
Quando si afferma che gli “attori” recitavano vita e imprese degli dei, non dobbiamo dimenticare la motivazione di ogni teogonia, strutturata sul bisogno di comprendere e di condividere la realtà, di ordinarla secondo schemi sia razionali sia emotivi, e di scandagliare l’uomo mettendolo in relazione con l’universo.
I riti espressi con danza, canti e racconti drammatizzati sono sia espressione sia analisi e come tali necessitano di interpreti e poi di spettatori. Il teatro nasce quando l’officiante si svincola dal significato religioso (è quello che avviene nell’evoluzione della tragedia da Eschilo a Euripide) e rende significativa la performance sul piano umanistico, concentrandosi sulle cronache terrene, sulle dinamiche psichiche e sulle relazioni dell’uomo con il mondo.
Ma torniamo a Dioniso, il cui viaggio all’indietro nel tempo non si ferma alla civiltà minoica, ma procede fino al neolitico, spostandosi da un continente all’altro.

In “Siva e Dioniso”, con sottotitolo “La religione della natura e dell’eros”, Alain Daniélou ci accompagna nell’esplorazione delle prime divinità indiane, che tanta affinità hanno con Dioniso. La presentazione in copertina dice: “Separando l’uomo dalla natura e dfal divino, l’Occidente ha perduto la propria tradizione. Daniélou scopre nelle credenze e nei rituali dell’Occidente una stretta affinità con lo Shivaismo e mostra come molti elementi della perduta tradizione occidentale possano essere facilmente spiegati con l’aiuto dei testi e dei riti preservati in India.”
Nel 5000 a.C. lo shivaismo si diffonde in tutta l’area mediterranea fino al Portogallo. Shiva è un dio complesso e contradditorio come lo è Dioniso. Inevitabile, quando si intende rappresentare la vita nella sua realtà oggettiva, contessuta con la morte, aspirazione di pace in una realtà di violenza incessante, ritmo di germogliazione-appassimento, luce e buio, sopra e sotto. E prima di Shiva? Rudra, il dio della natura selvaggia, detto l’Urlatore. Siamo tra il neolitico e l’età del rame. Dall’animismo si passa alle divinità legate alla natura: Pasupati, il signore degli animali; e Parvati, la signora delle montagne; a Creta si chiamano Zagreo e Cibele. Una società matriarcale, casa e terre appartengono alle donne, l’eredità avviene tra madre e figlia; l’uomo è il fecondatore che s’interessa alla guerra e al gioco, o alle elaborazioni filosofiche.
Chi , dunque, Shiva? È il vagabondo nudo che danza il mondo, colui che insidia le donne, il portatore di vita e di distruzione, l’asociale, l’anarchico che si fa gioco dei potenti, colui che compie i miracoli…
Ecco come è presentato nei Veda:
“Il capo dei brahmani si rivolse al re delle montagne. Ho sentito dire che vuoi dare in sposa a Siva tua figlia, tenera come un fiore di loto, divinamente bella, in sommo grado perfetta. Ma questo Siva non ha dimora, non ha conoscenti. È malfatto, è privo di meriti. Vive nei luoghi di cremazione. Sembra un incantatore di serpenti. È soltanto uno yogi che vive nudo. Le sue membra sono deformi. I suoi unici ornamenti sono dei serpenti. Ignoriamo il nome della sua famiglia, la sua casta, le sue origini. È un ragazzo che si comporta male, senza un mestiere. Ha il corpo cosparso di cenere. È irascibile e senza giudizio. Nessuno ne conosce l’età. I suoi capelli irsuti sono in disordine. È il compagno di tutti i buoni a nulla. Non è che un medicante che segue una cattiva inclinazione e si oppone sistematicamente ai comandamenti dei Veda” (A. Danielou, Siva e Dioniso, Ubaldini,  pag. 76).

Shiva ci presenta il mondo così com’è, non come si vorrebbe che fosse; e il divino come coesistenza degli opposti. Gli elementi che lo contraddistinguono? Toro, fallo (linga), ariete, serpente, danza estatica, labirinto, sacrifici di animali, cortei chiassosi…
Insomma, in questo andare indietro nel tempo abbiamo incontrato radici sempre più profonde del dionisismo, dal Medio Oriente a Creta all’Egitto fino all’India prima del 5000 a.C.
Riscontriamo che Dioniso eredita i seguenti elementi: la connessione con la natura e il riferimento a montagne, boschi, grotte; l’uomo-animale (minotauro, satiro che in prima istanza era uomo-cavallo); il fallo portato in corteo (falloforia); la mania, la follia estatica espressa nella danza con la quale si esprime l’”entusiasmo”, il dio in me; il sacrificio dell’animale, lo smembramento-sparagmos (di tutti e tre gli dei) e il pasto di carne cruda; il ciclo vita-morte; il disprezzo per le leggo sociali; mithos superiore a logos; feste (Grandi Dionisie); musica, danza, canto… declamazione (ditirambo).
Ma tutto questo che cosa c’entra con il teatro?
Orienta, suggerisce, ispira, motiva, finalizza, riordina.
In modo anche ingenuo, ecco alcune suggestioni.

ANIMISMO. In ogni dio c’è dell’animale, in ogni animale c’è dell’umanità, in ogni uomo c’è il divino. Se sostituiamo gli oggetti di scena agli animali e l’arte, la technè, agli dei, inseriamo l’attore in un universo gerarchizzato fondato sull’interdipendenza. Teatro: eliminiamo l’antropocentrismo e restituiamo dignità e importanza fondamentale agli elementi “secondari” rispetto all’attore e al regista: oggetti di scena, scenografia, musica, coreografia, danza…
MASCHERA. Dicevano gli indù: come nella foresta non devi nominare la tigre, così nella vita non devi nominare dio. L’uomo non deve nominarlo e non può vederlo. Chi lo vede, rimane fulminato. Il dio deve essere mascherato e lo si fa con gli epiteti. La maschera vela la potenza divina e consente all’uomo di praticare la devozione. La maschera rappresenta il dio: maschera di Dioniso su colonna con mantello. La maschera trasforma il dio in qualcosa di accessibile e trasforma un oggetto in dio. La maschera trasforma. La maschera nasconde, spaventa e mette in comunicazione con la divinità. L’uomo che indossa la maschera si trasforma. La maschera consente all’uomo di uscire da se stesso e di diventare altro. Due tipi di maschera: una materiale, da indossare; l’altra virtuale, solo mentale e fisica. I bambini e gli anziani non hanno difficoltà a “mascherarsi”, dato che nel primo caso sono in esplorazione del mondo e vogliono uscire da sé, nel secondo caso l’anziano vuole uscire da sé in quanto sé sgradito, alla ricerca di una nuova giovinezza. L’adolescente è concentrato invece su di sé e stenta ad assumere altre identità, dato che la propria è fragile. L’adulto teme che l’uscita da sé metta in crisi il ruolo sociale. Teatro: il nostro attore deve limare l’ego in favore di un sé non a uso e consumo degli spettatori, ma del proprio io che allarga così la visuale e si mette in comunicazione con il mondo dell’immaginazione e con la realtà universale.
DANZA ESTATICA. Indù, egizi, cretesi e greci stabilivano un contatto con gli dei utilizzando una musica ipnotica (flauti, cembali, percussioni) e una danza che portasse all’estenuazione fisica e psichica (mania). Abbiamo l’esempio delle tarantate. Il divino era inteso come realtà in contrasto e opposizione con il mondo sociale, impregnata del mondo animale e vegetale, di sesso e sensualità. Lo scopo di danze, musiche, bevande inebrianti e sostanze allucinogene era di squarciare il velo della realtà sociale e accedere al mondo del mito e del divino. Teatro: si elimina ogni rapporto “reale” con il pubblico, che è visto lontano, spettrale, e ci si concentra sull’azione scenica, ribaltando la realtà. Non è reale la platea, ma il palcoscenico, e questo non significa certo naturalismo o verismo. Significare accettare per vera l’immaginazione. Il mithos è di nuovo superiore al logos.
TRASMIGRAZIONE. L’anima è un’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri e rinasce in corpi diversi. Teatro: l’attore non interpreta nel senso di immedesimarsi psicologicamente in un altro individuo, costringendosi a fare anzitutto lo psicologo. Egli si apre all’anima del personaggio e si dichiara disponibile ad accoglierla. Per farlo, deve considerare il personaggio come “persona” teatrale, non reale. Una specie di dio che non può essere nominato e guardato nella sua essenza. Il rapporto avviene per epiteti e mediante l’accesso alla diversa realtà in cui vivono gli dei, e quindi i personaggi del dramma. Solo inserendosi nel dovuto modo nell’ecosistema scenico, solo accettando la propria interrelazione con gli elementi del teatro l’attore può accedere al “santuario” degli dei, dei personaggi.
MISTERI. L’iniziazione ai misteri, consistente nella conoscenza e nell’esperienza del contatto con il divino, cambiava la vita e assicurava l’immortalità dell’anima. Lo scopo era di avvicinare la divinità all’uomo, in modo che i confini fossero sempre più labili e che l’uomo potesse aspirare a farsi simile a dio. Vedi i semidei e gli eroi con le assunzioni in cielo. Teatro: l’uomo che si trasforma in attore subisce un’iniziazione per diventare personaggio, ossia il dio della scena. Sulla scena non ci sono quindi più uomini, nemmeno attori. Essi hanno subito una metamorfosi in personaggi-dei.
RITI. La processione prepara il cambiamento. Sia che ci si rechi al luogo all’aperto deputato al sacrificio o al santuario o al tempio dell’iniziazione ai misteri, essa appare come un trasferimento-metamorfosi da uno stato iniziale basso a uno finale alto. Teatro: gli attori accedono al palcoscenico portando alcuni oggetti di scena, allestiscono la scena come luogo di rito-sacrificio e compiono atti benaugurali (per esempio, spargono petali o accendono incenso).
RITI DI PASSAGGIO. Il rito di passaggio, di solito dall’età infantile a quella adulta, serve a mostrare la differenza tra il caos e l’ordine sociale. L’iniziando viene spaventato, espulso dalla società, costretto a prove dure, tormentato, istruito. E infine viene riaccettato come rinato. Durante la fase di sospensione dei ruoli sociali egli è anche libero di folleggiare o compiere atti vandalici. Alla fine, comunque, la sua scelta sarà per la sicurezza, la protezione e l’ordine sociali. Teatro: la drammaturgia non porta a termine il rito. Essa si ferma nell’area mediana, quella in apnea, dato che il suo compito non è di esaltare la società, ma di diventarne lo specchio critico.
CICLO VITA-MORTE. Tutto è ciclico. L’avvicendarsi del giorno e della notte, delle stagioni, della fortuna e della sfortuna, del benessere e del malessere, della gioia e della’infelicità, della vita e della morte. In sintesi, un avvicendarsi di buio e luce, di silenzio e suoni, di immobilità e movimenti. Teatro: la vita sulla scena si manifesta con cicli incessanti di luminosità, movimento, suono. Ciò che termina dà inizio ad altro e mai ci può essere un’impressione di “vuoto”.
NARRATORI. L’aedo era pervaso di entusiasmo, aveva il dio in sé. Per stabilire un rapporto con il dio ci si avvaleva della musica e della danza. Teatro: la parola quotidiana non è degna del dio-personaggio. Essa va quindi “santificata” con la musica e con il movimento.
PROTAGONISMO. Nei Tantra il numero uno non ha significato in natura. Dallo zero si passa al due, ossia alla relazione. Non esiste un protagonista assoluto che non dipenda dagli altri. Teatro: no al grande attore, no al teatro di regia, no alla ricerca del successo personale, no alla dipendenza dal pubblico e dalla critica. Il teatro è ECOSCENICO. Teatro come SCENISMO, sinergia, confluenza, relazioni, sistema vivente, organismo.  

Per tentare una sintesi:
-           rapporto animistico con la natura; rapporto espressivo con l’ambiente scenico secondo un ciclo di vita-morte
-           uscire da sé verso il dio: aedo, profeta, danza estatica; contro il principium individuationis
-           la maschera virtuale per stabilire la comunicazione con il dio; enthusiasmos, il dio in me; e il dio è musica, movimento, ritmo
-           no allo psicologismo riduttivo
-           l’attore media tra il personaggio, la società e gli archetipi espressi nei miti (“fare anima” di Hillman)
-           l’immedesimazione nel personaggio non è un passaggio da un individuo all’altro, ma una dilatazione dell’individuo nell’anima mundi
-           il teatro racconta la realtà così com’è (Shiva-Dioniso), non come si vorrebbe che fosse, e lo fa con l’immaginazione: mithos contro logos
-           il teatro opera in un luogo circoscritto o in un percorso; esso è di genere tragico o comico; solo il teatro comico prevede una reale interazione con il pubblico
-           esso parte dalla musica, si esprime in una danza cantata e recitata; la parola quotidiana va sacralizzata con la musica e il movimento, anche se solo interiori
-           esso dissente dall’ordinamento sociale, al quale contrappone un’armonia più alta
-           la rappresentazione è un rito di iniziazione-passaggio incompleto, fissata nella fase intermedia di anarchia
Ulteriore sintesi:
-           l’uscita da se stessi per mettersi in comunicazione con gli dei
-           la prevalenza del mithos sul logos
-           la precedenza della musica e della danza sulla parola
-           la prevalenza del dionisiaco sull’apollineo
-           l’attivazione della scena come ecosistema