venerdì 23 ottobre 2015

RIGUARDO A UNA DRAMMATURGIA DELLE BACCANTI DA PROPORRE AI RAGAZZI

Hanno dai dieci ai tredici anni e sono in sedici. Otto maschi e otto femmine. Amano la lettura, sono bravi a scuola, dinamici, sportivi, espressivi, curiosi, disponibili e cordiali. Insieme, prepariamo la messa in scena delle Baccanti di Euripide. L’attività si svolge nell’Aula Teatro dell’I.C. Verjus di Oleggio ed è organizzata dal Comitato Genitori. Il programma ambizioso richiede un minimo di preparazione. Le prime tre lezioni sono dedicate alla conoscenza interpersonale: presentazioni individuali e qualche gioco. Una lezione si svolge nell’Aula Video. Una serie di diapositive veicola la conoscenza della tragedia greca: come è nata, come e perché veniva rappresentata nel Quinto secolo a. C. e quali sono i tre tragediografi principali. La discussione si allarga a Eracle, Atlantide… Visioniamo anche fotografie e brevi filmati di allestimenti moderni delle Baccanti scaricati da Youtube. La volta successiva fornisco una scheda con la presentazione critica di Euripide e della sua opera. Le Baccanti sono le ribelli. Le inseriamo in un panorama storico che va da loro alle Amazzoni, alle streghe del ‘600 fino alle femministe moderne. Le ragazze sono contente: amano interpretare le ribelli.

L’adattamento del testo prevede un intervento pesante. La trama va snellita, la sintassi semplificata, il lessico verificato, i cori e i monologhi lunghi ripartiti tra gli interpreti, i riferimenti mitologici e storici spiegati al pubblico… I personaggi sono i seguenti: Dioniso, Penteo, Cadmo, Tiresia, otto baccanti, quattro lettori con il compito di presentare, riassumere, spiegare, ricoprire ruoli secondari (soldato, pastore, messaggero). Se le baccanti eseguono coreografiche e suonano i cembali, ai lettori spettano il bongo o il darbuka.

L’opera è nel segno della visione e dell’ascolto. Analizziamo prima la visione, la più legata etimologicamente a theatron, il luogo dal quale si guardava. Nel prologo, Dioniso dapprima invita il pubblico a guardarlo (“Ho mutato l’aspetto divino in umano”), quindi guarda lui stesso verso il sepolcro della madre folgorata. Subito dopo, invita a guardare lontano con l’immaginazione, verso l’Asia da cui proviene (la straordinaria risorsa della tragedia greca che senza scenografie portava comunque agli spettatori scene di battaglie, massacri, viaggi, navigazioni, eserciti in marcia…). In seguito, per tre volte ripete il proprio intento: rivelarsi, cioè farsi vedere come dio. Non manca il riferimento all’ascolto, in questo caso di cose non vere: le sorelle di Semele la screditano insinuando che Dioniso è il frutto di una seduzione umana. Dioniso ci dice dunque che ci sono cose false e cose vere da guardare (lui uomo e lui dio) e cose false e cose vere da dire e ascoltare. Il Coro invita i tebani a tacere nell’attesa della rivelazione (“Ognuno si faccia da parte, non contamini la bocca con parole”) ricordando quando Dioniso se ne stava nascosto (non veduto) nella coscia di Zeus: cose false e cose vere da guardare e tra loro l’ombra, il nascondimento, la pausa teatrale. Poi il Coro scatena una tempesta sensoriale di suoni, ritmi, visioni, profumi, emozioni.

L’apertura del primo episodio è riservata a un cieco, Tiresia. Le sue parole vertono sulla visione (“Chi sta sulla soglia?”), quelle successive di Cadmo sull’ascolto (“Ho sentito la tua voce”). La vista e l’udito si prendono poi per mano. Cadmo vede per tutti e due; e tutti e due ascoltano Penteo di ritorno da una missione. Non è stato testimone, ma immagina quello che potrebbe vedere sul monte Citerone e dà retta alle dicerie. Per aggiustare la realtà che egli suppone deteriorata ricorre all’imprigionamento e alla pena capitale. Vede Tiresia e il padre Cadmo, ma per loro ha solo parole di scherno. Finora, quindi, dà valore a una realtà ipotetica e dileggia quella oggettiva. Se ne accorge Tiresia, che lo accusa di far “correre troppo la lingua”. Impartisce una lezione a Penteo: invece di parlare a vanvera, si adegui ai riti di Dioniso; l’invasamento bacchico produce forza divinatoria e anche forza d’animo. Cadmo aggiunge un’altra voce al repertorio di visione e ascolto, la menzogna: gli suggerisce di fingere di credere. Abbiamo quindi cose false e vere, cose sincere e simulate, immaginazione e cecità, visione oggettiva e… l’allucinazione che tra poco Dioniso stesso inserisce nella trama. Il Coro interpella la Fede: “Ascolti le parole di Penteo?”. Esse non vanno perse. Proprio come oggi parole e immagini vengono eternate dalla rete, così allora venivano registrate dagli dei.
Quando i soldati gli portano Dioniso, Penteo lo guarda a lungo, lo esamina con attenzione. Il dialogo è serrato. Le parole risultano però meno potenti della visione. Zeus, per trasmettergli i riti, guardava Dioniso, dal quale era visto: non c’era bisogno di parole. Il pensiero si trasmette e si elabora attraverso gli occhi. Quando nasce, un neonato non ha nulla da ascoltare, se non suoni senza senso; ma ha tutto da vedere e sa già dare un significato alle visioni. Siamo ai primordi, quando il significante non è di etimologia complessa, ma si basa su sette note, su movimenti codificati, su immagini ripetute nella pietra e nella pittura. Suoni, musiche, ritmi, movimenti, forme… il linguaggio della natura. Penteo, con arroganza, pretende di modificarlo e depotenziarlo (ti taglio i riccioli, confisco il tirso, t’incarcero). Ma su di lui il dio esercita il proprio controllo: gli sta accanto invisibile, la visione negata; alla quale Penteo si adegua, ordinando che lo straniero venga incatenato al buio. Il Coro contrappone all’immagine giovanile e gioviale del dio quella bestiale di Penteo: nato da un drago, mostro dagli occhi selvaggi. Immagini ingannevoli: il giovane sorridente sarà il carnefice, il mostro sarà la vittima ignara.

Nel terzo episodio, Dioniso produce immagini di qualcosa che non può essere visto in un teatro: il terremoto, il fulmine, il crollo della reggia, l’incendio… Ma alle immagini evocate corrisponde la realtà o è tutto un abbaglio? Entriamo nel regno dell’allucinazione. Penteo non è più in grado di distinguere tra realtà e fantasia. Davvero c’è un toro al posto di Dioniso? Davvero la reggia crolla? Davvero Dioniso è di carne e non uno spettro? Davvero le baccanti compiono miracoli? Insomma, a chi e a che cosa deve credere Penteo? Prima ancora di andare a spiare le baccanti, egli è già immerso nell’esaltazione bacchica e vede e sente ciò che il dio vuole che veda e che senta. Senza saperlo, è diventato suo discepolo. Ora può congiungersi al gruppo delle tebane baccanti sul monte Citerone, dalle quali non sarà però accettato. Ha inizio la sua fine e il prologo spetta al messaggero. Egli ha visto e sentito e viene a riferire ciò che fanno le baccanti. Le immagini sono precise, dettagliate, arcadiche e surreali, stupefacenti e prodigiose. “Vedendo queste cose ti saresti messo a pregare il dio che ora oltraggi”. Tutta questione di andare a vedere, dunque. Toccare con mano. Ma vedere che cosa? Penteo non si pone la questione della veridicità del racconto. Donne che fanno a pezzi i tori con le mani. Tebane, fino al giorno prima sedute al telaio, che rapiscono i bambini e devastano i villaggi. Penteo vuole credere. Vuole che le donne siano così, sanguinarie e indemoniate. In modo da poter dare loro la caccia. E Dioniso fa scattare la trappola: “Vuoi vedere le donne tutte insieme sul monte?” Acconsentendo, Penteo accetta uno stravolgimento tragico del mondo. Le donne sono demoni e lui le deve annientare. Per farlo, modifica la propria immagine. Non più un re, ma una donna, una baccante. Penteo, per dare la caccia alle streghe, si fa strega lui stesso. Ha ascoltato Dioniso, ha ascoltato il messaggero, ma non ha saputo distinguere tra parole vere e parole false, tra verità e menzogna. Ha voluto credere a ciò che gli fa piacere credere. È in disarmonia con la realtà. Tradisce il mondo, la verità. Non capisce nemmeno l’ambivalenza della dichiarazione di Dioniso: “Sono disposto a tutto, per te.” Certo, perfino a far sì che gli mozzino la testa. Penteo, travestito, è come il cieco Tiresia guidato da Cadmo; lui è guidato da Dioniso, dritto dritto verso la propria morte: “Passeremo per strade solitarie: ti guiderò io.” È già fuori del mondo, autoescluso dalla società, un’ombra nei vicoli.
Gli dice Dioniso, all’inizio del quarto episodio: “Dico a te, Penteo, che brami vedere ciò che non andrebbe visto e ti avvii verso cose che bisognerebbe evitare: esci dalla reggia, fatti guardare.” Penteo risponde: “Mi pare di vedere due soli, e Tebe dalle sette porte si è sdoppiata. E tu, che mi conduci, mi sembri un toro…”
Non si domanda se il proprio rapporto con la realtà sia rispondente al vero o non invece un’allucinazione (che, dal punto di vista della divinità, è il vero), ma si preoccupa solo della propria immagine: “Come ti sembro?” L’attenzione è sempre per le apparenze, non per le sostanze. L’uomo vive di illusioni e si scava la fossa da sé. Il Coro reclama l’esito come atto di giustizia: “Mostrati, Bacco: toro, serpente di molte teste, leone dall’alito di fuoco. Con volto sereno attorno al capo di chi caccia baccanti getta un laccio di morte. Cadrà, ucciso da una mandria di menadi.”

Di nuovo una rhesis, un discorso. Un servo racconta sulla falsariga del primo resoconto del messaggero. Il silenzio dei luoghi montani, l’idillio delle baccanti, la rottura dell’equilibrio con la visione. Non più l’apparizione di un dio che disintegra, incendia, distrugge; ma di un uomo che viene sbranato. Nel primo caso il dio si fa vedere, nel secondo l’uomo è visto. L’efficacia delle visioni che scatenano emozioni sarà ribadita nei secoli, a partire dagli spettacoli nelle arene alle tele di guerra e di martirio, dal cinema horror alla televisione di violenza metropolitana. Dioniso, dio della maschera, ha invertito il rapporto nel sacrificio, come spiega il Coro: “Gridiamo la rovina di Penteo, un toro lo conduceva verso la morte”. La Corifea aggiunge: “Ora vedo Agave, la madre di Penteo, che si dirige alla reggia. Ha gli occhi stravolti.” L’accoglie Cadmo. Cambiato. Non più il re nostalgico della giovinezza che danzava nel tìaso, ma il vecchio che è andato a recuperare il nipote fatto a pezzi piangendone la perdita. Quanto sono diverse ora le sue parole! Non motteggia più, come faceva con Tiresia, dileguatosi. Agave lo esorta a guardare il trofeo in cui pone la propria gloria, ma Cadmo… “Non si può neppure guardare questo assassinio compiuto da mani sventurate.” Che cosa può fare? Distogliere lo sguardo per sempre? No, cercare uno sguardo che assicuri la verità. Allontanarlo dal particolare e dirigerlo verso l’universale, per una visione ampia che restituisca il significato alle cose. “Rivolgi lo sguardo in alto verso il cielo” dice ad Agave. E lei: “Mi pare di tornare in senno”. Indicando l’involto che stringe tra le braccia, le dice ancora: “Osservalo bene.” Ampliare la visione, e renderla acuta. “Ah, che vedo?” esclama Agave. “Guardalo. Capirai meglio”. Agave ora è in grado di cogliere la realtà per come è davvero, ma guardare in faccia la realtà non è fonte di gioia e serenità. “Vedo un dolore immenso”. La tragedia ha portato verso la consapevolezza, ma la consapevolezza è dolore. Un dolore tanto grande che induce gli uomini a credere negli dei e a piegarsi di fronte a loro. Dice Cadmo: “Se c’è qualcuno che guarda gli dei con superbia, osservi questa morte e impari a credere in loro.”

Ma Agave è di avviso diverso. Le sue ultime parole sono di abbandono di una fede che l’ha tradita, prima illudendola e poi trasformandola nell’assassina del proprio figlio. Se ne va lontano, si mette in viaggio (con il viaggio di propagazione della fede di Dioniso comincia la tragedia, con il viaggio di un’atea stroncata dal dolore e dal senso di colpa finisce) alla ricerca di non sa che cosa, certo della maniera di ritrovare la pace e l’armonia con il mondo. Basta con le visioni soprannaturali, basta con le allucinazioni e le illusioni. Agave si nega alla vista. “Andrò là dove il Citerone maledetto non possa vedermi, né io possa vedere il Citerone, dove non esista nemmeno la memoria del tirso. Di ciò si occupino altre baccanti”.
Ed Euripide se n’era già andato in Macedonia.


Come impostare la messa in scena su “guardare e ascoltare”? Non mi riferisco all’ambito visivo dello spettacolo (scenografia e costumi), ma alla preparazione dell’attore. Intendo stimolare la sensibilità riguardo a cose vere e cose false, indurre a riflettere su interprete-personaggio, Io e maschera. Rendere il teatro metafora del mondo nelle sue irrazionalità e incongruenze. Mostrare quanto è difficile disegnare il confine tra la verità e la menzogna. Quanto le nostre fantasie ci influenzino. E come spesso la realtà ci sfugga di mano. Gli interpreti devono concentrarsi sulla visione di ciò che è finto per presentarlo come vero a un pubblico reale che va però messo in ombra, calato nella pausa, oggetto del nascondimento di cui all’inizio. Guardare sé stessi per guardare gli altri, ma guardarli davvero, non con la distrazione cui siamo avvezzi; idem per l’ascolto. I ragazzi devono inserirsi in un ritmo bacchico dominante, in cui ogni declamazione e ogni movimento sono finalizzati alla realizzazione di un tìaso, un gruppo coeso nelle modalità espressive e nelle finalità. Li invito a leggere l’originale di Euripide, per valutare quanta distanza vi sia tra esso e la riduzione. Allargo la ribellione delle baccanti ai maschi, perché motivi per cui ribellarsi si trovano sempre. Non parlo di sommossa e rivoluzione, ma di ribellione della mente che, come Agave, affronta un viaggio doloroso, lasciandosi alle spalle le false convinzioni del passato per cercare nuove strade. 

sabato 10 ottobre 2015

LE BACCANTI DI EURIPIDE TRA IL POTERE RELIGIOSO E QUELLO POLITICO

Aquilino
LE BACCANTI TRA IL POTERE RELIGIOSO E QUELLO POLITICO
Citazioni dalla traduzione di Giulio Guidorizzi

Se Dioniso non fosse un dio, ma il sacerdote che l'ha inventato, come risulterebbe la sinossi delle "Baccanti" di Euripide? Il punto di vista ateo fa di Penteo la vittima di una guerra santa, combattuta per la supremazia del potere religioso su quello politico.

Scrive Caterina Barone (https://identitlterit.wordpress.com/ 16 febbraio 2011): “Nelle Baccanti si fronteggiano due mondi: quello dell’irrazionale, dello spirito che si sposa armonicamente con la fisicità e che si pone in sintonia e comunione con la natura e con il dio; e quello della ragione che propugna il proprio ideale di governo, di controllo, di rispetto delle norme a salvaguardia dell’ordine costituito. Da qui si articolano una serie di polarità: libertà e tirannide; tolleranza e intransigenza; istintività e calcolo; relativismo e dogmatismo. Ma nello svolgimento della trama gli opposti si mescolano e si contaminano, perché se Penteo è irresistibilmente attratto dall’universo dionisiaco al quale cerca di opporsi e si apre ad esso travestendosi da baccante per salire sul Citerone e spiare i riti delle Menadi, Dioniso da parte sua rivela un’indole da tiranno, spietato e crudele oltre ogni misura”.
Gli opposti si mescolano e si contaminano, ma non sua sponte, bensì per una strategia finalizzata a imporre la supremazia del potere religioso su quello politico. Penteo è vittima designata, come colui che osa l’impossibile e precipita nel baratro che lui stesso ha scavato, pretendendo di potere fare a meno della divinità.

La tragedia si sarebbe potuta aprire con il ritorno di Penteo a Tebe, e invece è Dioniso a sostenere il prologo, proclamando fin da subito la superiorità della propria sfera divina su quella umana. Egli ci informa che ha mutato l’aspetto divino in umano, e quindi si presenta più come sacerdote che come dio. Così voglio interpretarlo, con una lettura atea della tragedia che escluda la possibilità che un dio si faccia vivo a Tebe. Di conseguenza, egli è davvero figlio di Semele e di chissà chi, come hanno sostenuto le sorelle, Agave compresa, madre di Penteo. Il suo ritorno a Tebe nelle vesti di sacerdote di Dioniso è causa di un doppio imbarazzo: egli è il figlio illegittimo che testimonia il peccato compiuto dalla madre e che potrebbe rivendicare il trono contro Penteo (Memorie drammaturgiche e esiti spettacolari, saggi di M. Sella e F. Macrì in “Studi e materiali per le Baccanti di Euripide” a cura di A. Beltrametti); ed è l’alfiere di un culto orientaleggiante che Penteo intende vietare in nome della tradizione. Possiamo paragonare Dioniso a un missionario che dal potere civile si vede preclusa la strada delle conversioni, al quale si contrappone con due tipi di armi: la suggestione e la violenza.
D’altronde la sua stessa origine è violenta. Dioniso indica agli spettatori “il sepolcro della madre folgorata e le macerie fumanti della casa”, distrutta da un incendio che afferma provocato da Zeus-fulminatore apparso in tutta la propria potenza all’amante, esaudendone il desiderio di vederlo (Le Baccanti o l’ossessione della visione di I. Rizzini, in “Studi e materiali…” cit.). Nelle vesti di predicatore ha visitato l’Asia con successo e ora vuole imporre il culto in Grecia. Per vendicarsi delle sorelle che hanno negato l’origine divina, induce le donne di Tebe a lasciare i ginecei “percosse dal pungolo della follia”. Indossata la nebride e portando il tirso, dimorano sul monte Citerone “sotto verdi abeti, tra nude rocce”. Più che una condizione idillica, un ritorno alla bestialità, per quanto indorata da canti e danze.

Dioniso ce l’ha a morte con il re Penteo: “Mi fa guerra, mi allontana dai sacrifici e non si ricorda di me nelle preghiere”. La laicità di Penteo è non solo offensiva, ma debilitante: come può prosperare il rappresentante del dio senza ricevere i doni, privato del dominio sull’umanità fragile e implorante? Deciso a riconquistare il potere, lancia una dichiarazione di guerra: “Mi unirò alle menadi e guiderò il loro esercito”.
Ma chi sono le donne che compongono il tìaso? Sono straniere, vengono dal monte Tmolo in Lidia; conoscono i misteri divini; sono possedute; adorano la Gran Madre Cibele; danzano al suono di tamburelli, timpani, flauti e cembali; mangiano carne cruda; agitano il tirso come un’arma. Un ateniese contemporaneo di Euripide direbbe: barbare. Niente a che vedere con le signore della polis dagli istinti imbrigliati. Abbiamo, quindi, due tiasi: uno mitico, delle donne di Lidia; e uno storico delle tebane. D’altronde, tutto si fa doppio.
Dopo le donne, il fascino barbaro miete le prime vittime tra gli uomini. Euripide mette in scena due miti: Tiresia e Cadmo. Il primo è vissuto sia da maschio sia da femmina, vive da sette generazioni ed è cieco, ma vede nel futuro. Discende dagli Sparti, i guerrieri nati dai denti del drago ucciso da Cadmo, fondatore di Tebe. Nella tragedia non viene disegnata la loro aura mitica: abbiamo di fronte due anziani malmessi che con il baccheggiare si sentono di nuovo giovani. Quello che cammina a stento prende per mano il cieco e insieme si dirigono verso il Citerone, ma incappano in Penteo di ritorno da una missione. Missione per Dioniso, missione per Penteo. Ma il primo viene da lontano, dai confini della mente; l’altro viaggia entro il regno.

Il dialogo è posticipato, dato che anche Penteo ha diritto a un prologo con il quale esporre la situazione dal proprio punto di vista. Della sua assenza, racconta, si è approfittato un demone di nome Dioniso per invasare le donne e farle fuggire tutte sul monte, nei boschi. Monti e boschi sono l’altro regno, quello delle belve, dei mostri, dei banditi. Là si ubriacano e fanno orge con i passanti. Lui le farà mettere in catene. E farà tagliare la testa allo “straniero, un mago pratico di incantesimi: ha riccioli biondi tutti profumati e negli occhi azzurro cupo spira il fascino di Afrodite”. Anche da parte della polis, dunque, si mette in campo un esercito per quella che in apparenza è una guerra santa. Per Dioniso, contro gli atei; per Penteo, contro un falso dio straniero. Sia l’uno sia l’altro pretendono la gestione del divino: Stato contro Chiesa. Penteo, infatti, è esplicito. Quando scorge i due anziani, viene preso da ilarità e disgusto e rinfaccia a Tiresia di volere introdurre una nuova divinità per estorcere soldi ai fedeli: la religione è un affare.

Il suo cinismo scandalizza il coro che gli rimprovera di insultare sia gli dei sia il mito impersonato da Cadmo. Tiresia lo accusa di non avere buonsenso. Gli impartisce una lezione di teologia, rifondando la gerarchia olimpica secondo i due principi del secco e dell’umido: Demetra nutre gli uomini con i cereali e Dioniso li libera dai dolori con l’oblio del vino. Gioca poi con le parole alla moda dei sofisti per spiegare la nascita prodigiosa del dio, capace di infondere il potere divinatorio e di sconfiggere gli eserciti. Questa immagine ci fa pensare a Geova, signore delle profezie e degli eserciti. Gli dà poi dei consigli: non confidare nel tuo potere (laico) e nella tua sapienza (laica), ma accetta il dio, lasciati possedere da lui. Ossia, cedigli ogni potere e ogni sapienza. Conclude dicendogli che è un pazzo furioso, dato che non si sottomette alla divinità.
Cadmo rincara la dose e gli dice che è uscito di senno. Ma le sue parole hanno una sfumatura diversa. Eh, l’ambiguità del mito, sembra suggerirci Euripide. Questo Cadmo che ora, per pura convenienza, va ad adorare Dioniso, non è quello che aveva spinto le figlie a dubitare del parto soprannaturale della sorella Semele? Ecco che bisbiglia a Penteo: “Anche se questo dio non esiste, riconoscilo ugualmente, menti per tuo vantaggio, proclama la sua esistenza perché si dica che Semele è madre di un dio e ne consegua un grande onore a noi e a tutto il casato”. Incredibile quanto è antica la strategia di compromesso tra Stato e Chiesa: facciamo finta di crederci, per il bene comune e soprattutto nostro.

Cadmo tenta di incoronare il figlio con l’edera, ma Penteo si ritrae gridando: “Non toccarmi! Non contagiarmi con la tua follia”. Infuriato, manda i soldati a devastare l’abitazione-tempio di Tiresia e a catturare lo straniero effeminato affinché venga lapidato. Un’empietà dietro l’altra. Tiresia gli scaglia contro un anatema e una minaccia (si augura che il dio non se la prenda con la città), dandogli del selvaggio pazzo.
Il Coro, allontanatisi i due vecchi, approfondisce la loro indignazione: “Bocche senza freni / stoltezza senza leggi / finiscono nella sventura. / (Tenere) il cuore e la mente / lontani da uomini tronfi. / Io voglio accettare / ciò che la gente semplice crede.”
Ossia, la scelta di non adeguarsi al culto comune, di non sottomettersi alla religione, di non lasciarsi integrare nel sistema, di ragionare con la propria testa… genera infelicità e rende tronfi, esclusi dalla verità. In modo velato, anche il Coro esprime non solo disapprovazione per le posizioni di Penteo, ma minacce: chi non sta con il dio finisce male. Non per niente il nome Penteo significa “l’uomo della sofferenza”, come gli farà notare Dioniso: “Il nome stesso dice che sei destinato alla pena”. Non c’è salvezza e non c’è felicità, senza dio.

Nel secondo episodio finalmente i due protagonisti s’incontrano e si dipana la trama architettata da Dioniso. Il suo imprigionamento ricorda quello dei santi martiri o di Cristo: “Ci porse le mani spontaneamente, senza impallidire, senza mutare l’aspetto sereno del viso”. Nello stesso momento, un miracolo. Le donne che i soldati avevano imprigionato su ordine reale tornano sul monte: catene e chiavistelli caduti ai loro piedi. Penteo non se ne preoccupa, tanto è soddisfatto di avere in proprio potere lo straniero che millanta origini divine. Lo tratta da seduttore, riconoscendone le capacità incantatrici. A lui Dioniso si presenta non come dio, ma come sacerdote. Un sacerdote come non ce ne sono altri, dato che lui e il dio si guardano in faccia; è il modo in cui riceve la conoscenza segreta dei riti. Penteo è incuriosito e in parte già affascinato. Tenta di cogliere in fallo l’avversario, ma non ci riesce. Gli sottopone allora una dimostrazione di forza, elencandogli quello che gli farà: il taglio dei capelli (per snaturarlo, per togliergli la fascinazione), la privazione del tirso (per impadronirsi di un simbolo di potere), l’imprigionamento (per tenere sotto controllo l’enthusiasmòs, la follia religiosa). I due battibeccano come rivali adolescenti, o come cervi nella stagione degli amori; ma per Penteo è dura, dato che il suo vero avversario, il dio, è invisibile e onnipotente. Per darsi un tono, esclama: “Io sono più potente di te”. E che cosa ribatte Dioniso? “Tu non sai quello che ti sta accadendo, né quello che fai, e neppure che persona sei”. In altre parole: tu, senza il dio, senza la religione, non sai e non sei nulla.
Penteo, arrabbiato, lo fa chiudere nella stalla; ma il sacerdote non demorde e profetizza l’ira del dio.
Il coro, come al solito, affonda ancora di più la lama nella ferita. Penteo, senza il dio, non solo non può avere né sapienza né felicità, ma non potrà riscattarsi dalla sua condizione di “mostro dagli occhi selvaggi” nato dal drago, feroce essere non umano a cui è negato il paradiso.

Nel successivo terzo episodio, la dimostrazione della potenza divina scuote il palazzo in senso per niente metaforico, dato che il terremoto lo fa tremare e una scarica di saette lo incendia. “Gettatevi a terra, tremate, gettatevi a terra” il dio assale la reggia. Le baccanti hanno le convulsioni, ma il dio, riprese le vesti di sacerdote, le rassicura.
È davvero successo quello che narra il coro? Il palazzo crolla senza vittime? L’incendio si spegne da solo? Sono state le menadi ad appiccare il fuoco? Realtà e allucinazione si mescolano e le convulsioni delle baccanti che si dimenano al suolo ci svelano uno stato alterato, una perdita di coscienza della realtà. Gli animi sono ben disposti a credere a qualunque cosa, innescati dalle parole del sacerdote. Sacerdote o dio? Dioniso gioca in continuazione entro l’ambiguità dei due ruoli. Come sacerdote si è presentato a Penteo, ma quello che combina nella reggia, o dice di combinare, fa di lui un dio. Terremoto, incendio, e poi la metamorfosi in toro e lo stato confusionario in cui precipita il povero re. “Attorno alle sue zampe, ai suoi zoccoli, fece correre i legami, pieno di rabbia: grondava sudore, si mordeva le labbra. Io, accanto a lui, lo osservavo tranquillo”. Anche Penteo è invasato, ma della propria condizione non prova godimento, bensì rabbia e frustrazione. “Convinto che la casa bruciasse, si mise a correre di qua e di là…”. È tutto un abbaglio. Non c’è terremoto, non c’è incendio, non c’è un dio che si presenta come toro, ma un prete abile di lingua che fa credere all’uditorio qualunque cosa, accendendo prodigi con uno schiocco delle dita. Un prestigiatore. Fuori di sé, Penteo minaccia con la spada un fantasma e assiste al crollo della propria casa… dalla quale però Dioniso esce sempre tranquillo. “Ha osato far guerra a un dio!” dice del re che Euripide muove come un burattino ora nella stalla ora nella reggia incendiata e infine nella reggia che crolla, dalla quale esce in cerca del prigioniero: surrealismo puro. Tutto è assurdo, tutto è abbaglio e inganno. Penteo è talmente confuso che deve rivolgersi allo straniero per ricomporre la realtà che gli sfugge di mano. “In ciò che mi conviene sono sapiente” dice Dioniso stringendo sempre più il legame che sottomette Penteo al suo potere. Gli impone di ascoltare il messaggero e Penteo lo fa, ormai succube. Addirittura, il messaggero ne intacca la sovranità, temendone “l’eccitazione della mente, la facilità all’ira e l’animo troppo imperioso”. Si delineano quindi in modo netto due figure: Dioniso sempre autocontrollato e sereno, superiore a chiunque altro, saggio e autorevole; Penteo suggestionabile, instabile, autoritario.

Il messaggero descrive ciò che ha visto o ha creduto di vedere: le baccanti tebane s’inghirlandano, allattano cerbiatti e lupacchiotti e compiono miracoli. Fanno sgorgare sorgenti d’acqua, di vino, di latte e di miele, trasformando il sassoso Citerone nel paese della cuccagna. Nonostante l’evidenza, o l’allucinazione, pastori e mandriani rimangono fedeli a Penteo e si organizzano per catturare le donne e portargliele. L’assalto alle baccanti è un errore che pagano caro. Le donne rivelano la propria natura primordiale e la Grande Madre si manifesta in loro forgiandole come energia pura. Si scagliano contro le mandrie e squartano e fanno a pezzi le bestie, tori compresi. Poi assaltano i villaggi, rapiscono i bambini, saccheggiano le abitazioni, affrontano gli uomini armati e, rese invulnerabili, li mettono in fuga ferendoli con il tirso, le chiome in fiamme senza che ne abbiano danno. Tornate sul monte, si lavano nei torrenti mentre i serpenti le ripuliscono del sangue, lambendolo via dalla pelle. “Chiunque sia questo dio, signore, accoglilo in città: è potente”. Quale altro dio rende le donne più forti degli uomini? Dioniso è dunque il dio delle donne. Le libera dalla servitù sessista e impone loro un’altra servitù, quella del tìaso. Madri e vergini, armate di tirso (il bastone del comando), non sono più disposte a tollerare la prepotenza maschile e non solo reagiscono, ma contrattaccano in modo spaventoso, seminando il terrore. Quelle che nel futuro saranno considerate streghe e messe sul rogo, ora portano il rogo sulla propria testa, perché il fuoco divino arde in loro. Il dio le ha strappate alle loro case, ai ginecei, promettendo la libertà, ma le ha snaturate rendendole combattenti spietate. Le miti donne di Tebe, abituate a obbedire agli uomini di casa, sono mutate in fanatiche assassine devastatrici.

Per Penteo, maschilista com’è, “è il colmo della vergogna subire da donne”. Dichiara loro guerra e il sacerdote-dio lo rimprovera bonariamente e lo consiglia. Penteo non gli dà retta, ma gli ha già ceduto. Non lo vede più come il responsabile di quanto accade. “Non ti basta essere scampato alle catene? Accontentati”. La sua generosità è debolezza. Il dialogo riecheggia quello tra Mosè e il faraone: “Fuggirete tutti” dice il Dioniso-Mosè. “Uomini armati di bronzo che volgono le spalle davanti ai tirsi delle baccanti.” I deboli (le donne, gli ebrei) sconfiggono il potente sovrano grazie al potere superiore del dio.
Penteo rifiuta comunque ogni tentativo di alleanza e allora Dioniso… “Ah!” lancia un grido, e aggiunge: “Vuoi vedere le donne tutte insieme sul monte?”. Penteo si stava allontanando, Dioniso lo richiama con la voce e forse lo tocca sulla spalla, creando un breve caos sensoriale cui fa seguito un invito suadente. Sembra un intervento d’ipnosi. Da questo momento in poi, Penteo appare svuotato di volontà propria. È noto che l’ipnotista non può costringere il soggetto a compiere azioni contro i propri convincimenti etici, ma con una buona tecnica può fargli fare cose che nella consapevolezza non farebbe. Ecco quindi che il potente sovrano accetta di vestirsi da donna. Il maschio si femminilizza e il re indossa l’identità del nemico, annullando sé stesso. Ciò che ha avviato Dioniso è la distruzione della personalità, primo stadio per giungere alla distruzione fisica del rivale.
“Dioniso, tocca a te. Tu non sei lontano: puniamolo! Se ragiona, non vorrà mai vestirsi da donna, ma se lo porti fuori di senno si travestirà.” Il sacerdote espone la strategia vincente: portando i fedeli alla follia (esaltazione, invasamento, estremismo, fanatismo), può manovrarli come vuole. Il potere nasce dalla follia dei soggiogati. La gestione del potere fa a meno del raziocinio. Il potere vincente è irrazionale, si basa su una realtà virtuale gestita da chi lo detiene.

Nello stasimo il coro ci parla della condizione femminile e della rivolta bacchica (Baccanti, Amazzoni, Danaidi, Lemniadi, Pretidi, Miniadi… donne folli che si rifugiano sui monti e nei boschi, donne che rifiutano l’uomo e lo combattono; vedi al riguardo “Le ribelli della storia” di Giorgio Galli). La donna come una cerbiatta inseguita dai cacciatori. La sua mitezza contrasta con i versi successivi: “Quale il dono più bello degli dei ai mortali? Calcare la mano sul capo ai nemici, forte”. Si annota, considerata la contiguità delle due immagini, che la figura biblica del combattente in dio non riguarda solo gli uomini, ma anche le donne loro prede.

Nel quarto episodio Dioniso è un serpente incantatore che ormai gioca allo scoperto, dato che Penteo è bene avviluppato nelle spire. Lo chiama fuori dal palazzo esortandolo a farsi guardare abbigliato da baccante. Il poveretto non ha più timore di mostrarsi in pubblico, il suo stato mentale lo mette al riparo da ogni vergogna: vede due soli, due Tebe, due corna sulla testa del suo psicopompo. “Ora sì vedi ciò che devi vedere” gli dice Dioniso, soddisfatto. Il re è domato, si fa un’idea della realtà secondo la volontà del sacerdote-dio e non secondo la propria. Le sue preoccupazioni non sono più sostanziali, non riguardano più l’interpretazione e la comprensione  della realtà, date in delega, ma gli aspetti formali dell’esistenza. Si procede quindi alla vestizione come se Penteo partecipasse a un rito, come se indossasse non un abito da donna che lo ridicolizza, ma paramenti sacri che lo rendono simile al dio. Acquisisce un senso di onnipotenza che Dioniso fomenta, rassicurandolo, lusingandolo e al contempo continuando a guidarlo passo dopo passo. Dioniso fa ciò in cui è imbattibile: porgere una maschera al pubblico rendendolo protagonista, facendo di ogni uomo un attore che declama parole altrui. L’esito della recita è scontato, lo sa Dioniso, lo sa il pubblico, dovrebbe saperlo Penteo con il quale Dioniso è esplicito: tornerai tra le braccia di tua madre… ti avvii a cose tremende… troverai una gloria che si alzerà fino al cielo… il vincitore sarò io, insieme a Bromio (la Trinità: il dio, il sacerdote e la fusione dei due in un uomo-dio che intende dominare il mondo). Penteo, ora anche lui cerbiatta insidiata dal cacciatore, può solo dire: le delizie che mi merito. Aspira al paradiso, troverà l’inferno. E a lui non è concessa alcuna ribellione. È una vittima sacrificale, il bue agghindato condotto all’altare dopo avere assunto il sedativo che mistifica la realtà.

Lo stasimo delle menadi rivela il cambiamento di scena. Per l’apoteosi di Penteo Dioniso sconvolge il palcoscenico. Non più scene idilliche nella natura, ma sulla scia della rivolta contro i pastori schiera sulla ribalta un branco di donne sanguinarie scatenate contro un uomo solo.
“Veloci cagne di Lissa…”
La musica si fa frenetica, i ritmi delle tarantolate; ma le baccanti non si limitano a rotolarsi al suolo; aggrediscono, uccidono. “Venga giustizia: la spada trapassa la gola dell’ateo.” Un’esecuzione. Identica alle troppe riportate dalla cronaca di questi anni. In nome di dio. “Mente folle, un pensiero lacerato. Pretende di vincere, con la sua forza. Ma una morte immediata rende prudenti, col dio. Stare nei limiti dell’uomo…” e chi decide i limiti? Il sacerdote-dio. “Mostrati, Bacco: toro, serpente di molte teste, leone…”. Dioniso bambino, adolescente femmineo, vecchio saggio, ubriaco, danzante, pantera, toro, serpente, leone, maschera. Dioniso interprete: un attore, tanti personaggi. Solo così può adattare i testi sacri all’occasione, al momento storico, alla società in evoluzione, alla diversità, alla politica che fagocita la politica. Il necrologio del coro: “Cadrà, ucciso da una mandria di menadi”.
Detto fatto. Il quinto episodio si apre con l’annuncio del servo: Penteo è morto. E la corifea? “Signore Bromio, ti riveli un grande dio!”. E poi aggiunge: “Dioniso, Dioniso, non Tebe ha dominio su di me”.
Il processo si è concluso. Il potere religioso ha umiliato, sconfitto, sottomesso e trucidato quello politico. La democrazia della polis è un’utopia, chi comanda è uno solo, il dio. Perfino il servo è scosso dalle parole del coro: “Non è bello gioire quando accade una sciagura”.

Scopriamo che il servo faceva parte della processione che da Tebe ha risalito il Citerone, formata da soli tre uomini, uno dei quali vestito da donna; il servo quasi un chierichetto. Giunti in vista delle baccanti, Dioniso compie il miracolo del pino. Penteo si ritrova… su una forca? legato al palo di un rogo? inchiodato a una croce? Il suo sembra un esercizio di levitazione. Tipico degli aspiranti profeti e dei fanatici che dell’enthusiasmòs s’inventano il privilegio di essere solo loro in contatto diretto con la divinità. Messa in posizione la vittima, che tutti la vedano, Dioniso scatena le belve: “Ragazze, vi porto l’uomo che derideva voi, me e i miei riti: punitelo.” Così, semplicemente. Punitelo. Massacratelo. “Rese folli dallo spirito del dio” le baccanti avviano la lapidazione, ma “la belva” è troppo lontana. La credono una bestiaccia, è vero, ma Agave aggiunge: uccidiamola affinché non sveli le danze segrete del dio. Non è, quindi, una bestia, è un uomo. “Madre, sono tuo figlio. Abbi pietà, mamma, non uccidere tuo figlio.” L’agnello pasquale. Una mattanza. Lo fanno a pezzi, lui urlante fino all’ultimo respiro. Il tirso porta ora un trofeo, la testa del re sacrilego. E Penteo ha un nuovo corpo, il tirso di Dioniso, la sua arma terrificante. “E io mi allontano da questo luogo di sventura” conclude il servo. “Essere moderati e onorare gli dei è la cosa più bella”. Nessuno ha compiuto crimini. Si volta la testa, si chiudono gli occhi. Si è fedeli, si è sudditi, si è sottomessi più di prima, dopo il macello.

“Danziamo in onore di Bacco (…) Bella vittoria: cingere con mano lorda di sangue la testa del figlio”. Il coro danza e canta. Una processione per accompagnare la vittima al luogo del sacrificio, un’altra per esibire il cadavere alla popolazione civile  e proclamare il trionfo del bene nella polis. E Dioniso? Scomparso, la sua missione è conclusa. Va ad avviarne un’altra dove ci sono atei ed empi a cui dare una lezione; e governanti arroganti che s’illudono di fare a meno del dio. Riappare, tra poco, ma solo a livello drammaturgico.
Via lui, c’è un cambio d’atmosfera. Il coro sembra rinsavire e cala di tono: “Sventurata donna, mostra dunque ai cittadini la tua preda di vittoria, che rechi in trionfo”. Un tono di pietà acuito dall’assurdità della scena: una madre che stacca la testa del figlio dal bastone su cui l’aveva conficcata e l’avvolge in un sudario lordandosi del suo sangue. Trionfa, Agave, esalta sé stessa di fronte al padre: “Ho lasciato la spola accanto al telaio e mi sono mossa a imprese più ardite”. Eh, sì, chi entra in una setta si lascia tutto alle spalle, ma le imprese ardite quasi sempre rovinano la vita, propria e altrui.

Il baldanzoso Cadmo non agita più i cembali insieme all’amico Tiresia, che si è defilato. “Non si può misurare questo dolore.” Non è nemmeno ora il Cadmo mitico, l’uccisore del drago. Solo un vecchio avvilito, misurato nelle espressioni perché svuotato. “Ora dovrò andarmene da casa, disprezzato, io, il grande Cadmo che fondò la razza tebana. (…) Se c’è qualcuno che guarda gli dei con superbia, osservi questa morte e impari a credere in loro”. Una fede fondata sul terrore? Conduce passo dopo passo la figlia Agave verso la verità. Che non ha niente di speciale, è solo realtà. La realtà di un cielo limpido, “più luminoso di prima”. Terribile presa di coscienza, per Agave. “Dioniso ci ha rovinato, ora capisco.” Mater dolorosa, ricompone le spoglie del figlio. È la rovina totale per la famiglia di Cadmo, che non ha più né figli né nipoti maschi.


In questa desolazione riappare Dioniso, come dio. Suo è l’epilogo. Lo immaginiamo alla testa di una processione imponente, seguito dai portatori di simboli, dai cantori, dalle ballerine e dalle prostitute sacre, dagli orfani, dai reduci, dalle vedove, dai rappresentanti delle corporazioni, dai magistrati, dai comandanti militari, dalla massa orante del popolo. Va a cacciare dalla città la famiglia del vecchio re, famiglia di empi; poi si dirige al palazzo dove impone alla comunità il proprio candidato, un uomo pio, pieno di timor di dio, dal cuore freddo, capace di qualunque crimine e soperchieria in difesa della religione.
Cinico e spietato, Dioniso illustra il tragico destino della famiglia di Cadmo: “… lasciare la città, scontando il castigo per quest’orrenda contaminazione…” L’orrore non sta nell’uccisione di Penteo (“Fu giusto che fosse punito così”), ma nel suo peccato di hybris, di arroganza verso gli dei. Cadmo lo implora: “Abbiamo sbagliato… ma il castigo è troppo grande.” Non c’è niente da fare, questa è la volontà di Zeus. Il dio-sacerdote scarica sempre sul capo degli dei le responsabilità dei propri eccidi. Volontà divina, destino: “Perché esitate davanti a ciò che è inevitabile?”
Cadmo si umilia, tenta un’impossibile mediazione: nessuno sconto di pena. Agave, invece, ha il coraggio di opporsi alla volontà del dio, rinnegandolo e recuperando la propria integrità mentale e morale. “Andrò là dove il Citerone maledetto non possa vedermi, né io possa vedere il Citerone, dove non esista nemmeno la memoria del tirso. Di ciò si occupino altre baccanti”. La sua è comunque una resa; riconosce che il dio non può essere sconfitto e altre baccanti agiteranno il tirso e magari lo useranno ancora come arma.
La scena conclusiva, emozionante, prevede che si tolga la nebride e che spezzi il tirso. Ecco, ora è libera.