giovedì 22 gennaio 2015

ERACLE: DALLA RICERCA AL ROMANZO

RITRATTO DI ERACLE DA ALCUNE FONTI CLASSICHE

Avendo da preparare due incontri sull’“Eracle” di Euripide e avendo iniziato a scrivere “Il romanzo di Eracle”, mi sono presto reso conto di quanto sia sfuggente un personaggio presentato nei modi più contraddittori. Ne hanno fatto il protagonista di opere epiche, eroiche, tragiche, comiche, moralistiche, filosofeggianti, fantasy. Figura altamente tragica nelle “Trachinie” di Sofocle, si fa personaggio ambiguo nell’“Eracle” di Euripide, e diventa macchietta negli “Uccelli” e nelle “Rane” di Aristofane e in tante commedie attiche, fino a trasformarsi nel culturista innamorato del cinema mitologico e nel pupazzo supereroico dei libri per ragazzi. Insignito di scarsi onori nella vita turbolenta (qualcuno lo rifiuta), non si fa re né accumula potere e ricchezze. Ma il culto popolare si diffonde nei paesi più lontani. Sfortunato e insoddisfatto negli amori, disfa da sé quello che non scioglie il destino, perdendo le donne e i giovani compagni.  Gli resta l’amato nipote Iolao, che dopo la sua morte ne continua l’opera in Sardegna. Un’icona della hybris? Un campione di aretè? Una vittima di adikia? Un adepto di metis o solo un forzuto? Un eroe dal nostos impossibile? Un uomo senza timé che ha di continuo bisogno di purificarsi? Un meteco per tutti, forse, in cerca di tiche. Il che equivale a dire: un solitario che non mette radici, un vagabondo nei meandri di un destino implacabile, un asociale di circostanze e non d’elezione, un infelice che condivide la precarietà dell’uomo comune.

Da dove cominciare per un’idea di personaggio e di ambientazione? Dalla mitologia, certo. Ma anche dai Micenei. I Micenei conquistatori di Creta o quelli che si avviano al crepuscolo del medioevo ellenico?  Il riferimento più forte nel mito di Eracle che lo agganci alla realtà storica è il suo assalto a Troia quando ha come re il predecessore di Priamo, Laomedonte. La questione eraclea si lega quindi alla questione troiana. Per procedere, occorre fare delle scelte. E spesso le scelte si basano sui compromessi. Prendo per buona la data di Eratostene (1193-1184), confronto diverse cronologie, considero i rapporti di Eracle con Teseo… e fisso la data di nascita e di morte. Si tratta di un romanzo, non di un saggio. Mi è consentito andare a spanne e inventare, quando la documentazione è scarsa o inattendibile o mancante. Questo individuo che faccio morire a 57 anni… chi è? Coevo di Pelope, Orfeo, Giasone, Teseo, Atreo, Medea… precede la gloria dei grandi eroi troiani, ma anche la disfatta non solo di Troia, ma di tutta una civiltà. Gran parte della letteratura che lo riguarda è impegnata a raccordare fra loro imprese ed episodi secondari, viaggi reali e immaginari, comportamenti realistici e altri inverosimili. Insomma, si tratta di storie. Ma il protagonista di queste storie chi è? Gli si può togliere la pelle del leone ucciso e rivestirlo con abiti umani? Continuo la mia ricostruzione di Eracle come “personaggio” con una ricerca tra alcune fonti classiche. Al di là del racconto in sé, che cosa hanno scritto di lui come persona? Ecco il senso di questo “ritratto” ancora inesistente. Non ho preso in considerazione i drammaturghi, dato che ognuno di loro si è costruito il proprio personaggio. Mitografi, geografi e storiografi a volte forniscono sfumature importanti, che guidano nella scelta dei caratteri. Ecco le opere consultate:

Iliade – VIII sec. a.C.
Odissea - VIII sec. a.C.
Esiodo, Lo scudo di Eracle, Catalogo delle donne – VIII-VII sec. a.C.
Inno omerico XV – VII-VI sec. a.C.
Bacchilide, Epinici – VI-V sec. a.C.
Pausania, Viaggio in Grecia – V sec. a.C.
Tucidide, Le storie – V sec. a.C.
Pindaro, V sec. a.C.
Erodoto, Storie – V-IV sec. a.C.
Senofonte, Elleniche – V-IV sec. a.C.
Teocrito, IV-III sec. a.C.
Apollonio Rodio, Argonautiche – III sec. a.C.
Pseudo-Apollodoro, Biblioteca – II sec. d.C.
Diodoro Siculo, Biblioteca storica – I sec. a.C.
Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti (Diogene ed Eracle) – II sec. d.C.
Argonautiche orfiche – IV-V sec. d.C.

Figlio di dio in conflitto con il piano provvidenziale

Eracle è figlio di Zeus e di Alcmena (“che per la maestà e per la bellezza vinceva tutte quante le donne”, Esiodo, Lo scudo di Eracle) che è la nipote di Perseo figlio di Zeus e di Danae. Quindi Eracle discende da Zeus sia per parte di padre sia di madre. Meglio della ierogamia egiziana in cui il dio assume le sembianze del faraone per fecondare la regina. Egli è l’ultimo eroe-semidio generato da Zeus, che con lui intende chiudere una fase dell’umanità (la preistoria) e aprirne un’altra (la storia). Egli vive infatti nell’età del bronzo che segna il distacco dal neolitico e, dopo una crisi mondiale che vede scomparire o declinare grandi civiltà come quella minoica, micenea, hittita, egizia… vede sorgere l’età greca dei poeti, dei tragediografi, dei filosofi, degli scienziati e dei politici all’ombra dell’Olimpo stabilizzatosi nella cerchia dei dodici dei.
Così la mitologia greca. Ma Erodoto ci fa sapere che in Fenicia, al suo tempo, Eracle è presente da più di duemila anni, come testimoniano i sacerdoti del suo santuario a Tiro; mentre un altro santuario sull’isola di Taso è stato fondato dai figli di Agenore partiti alla ricerca di Europa. E in Egitto Eracle è uno dei dodici dei, molto anteriore a quello ellenico. Noi, però, seguiamo le storie elleniche.
Simile all’orientale “signore degli animali”, sciamano in contatto con le acque e con il sole, Eracle, la cui missione è uccidere i mostri e combattere gli uomini iniqui, si sacrifica per il bene comune contribuendo al progresso mediante la diffusione delle leggi e delle tecniche agricole e la fondazione delle città. Tuttavia, l’odio di Era che lo spinge alla follia e la sottomissione ad ananke, la necessità, consistente nel suo caso nell’obbedienza a un uomo inferiore che lo ha defraudato del regno solo grazie a un inganno, lo pongono in conflitto con l’autorità divina. Più volte toccato dalla follia per opera di Era, compie azioni da irresponsabile: uccide i figli, uccide Ifito, ruba il tripode di Apollo, lotta contro gli dei… Un Sansone miceneo strumento della volontà divina (“Allora lo spirito del Signore lo investì ed egli scese ad Ascalon e vi uccise trenta uomini” – Giudici 14). Sansone concepito per intervento celeste, che uccide un leone a mani nude, viene sconfitto da una donna (Dalila-Deianira) e provoca da sé la propria morte; ma più cupo e perfino più sanguinario dell’eroe tebano.
Eracle china il capo e accetta di affrontare le Fatiche. Chiede di vedere il proprio padre, ci narra Erodoto, ma Zeus si nega. Salvo poi convocarlo quando ne ha bisogno. E così Eracle soccorre gli dei contro i Giganti, salvando quelli che lo perseguitano. Lo assiste Atena, mentre Trittolemo, incaricato  di diffondere l’arte dell’agricoltura, gli rivela i sacri misteri di Demetra e Core.
Personalità complessa e contraddittoria, definita addirittura paradossale, l’eroe è alla fine sconfitto da se stesso, poiché a causa delle intemperanze, connaturate alla sua diversità eroica, va incontro a una morte orribile che risolve con il suicidio. Da se stesso, quindi, distrugge la propria forma umana per essere assunto in cielo tra gli dei. La gloria e il conseguimento della stabilità (il matrimonio con Ebe) come rogo della propria umanità.

Dice Zeus: “Ascoltatemi, o dei tutti, e voi tutte o dee, ch’io dica quello che il cuore m’ordina in petto: oggi Ilizia strazio del parto farà apparire un uomo che regnerà su tutti i vicini, della stirpe degli uomini che vengono dal mio sangue” - Iliade XIX.
“A mortal che di me valea men tanto,
forza mi fu obbedir: costui m’ingiunse
dar mano a imprese oltre ogni creder forti” - Odissea XI.
“Zeus gli inviò l’ordine di mettersi al servizio di Euristeo ed Eracle, recatosi a Delfi e interrogato il dio sulla questione, ricevette un responso il quale gli rivelava che dagli dei era stato deciso che egli compisse dodici fatiche secondo gli ordini di Euristeo, e che ciò fatto avrebbe ottenuto l’immortalità. Dopo questi avvenimenti, Eracle cadde in uno stato di scoraggiamento non comune. Infatti, non giudicava in alcun modo degno del proprio valore il fatto di servire una persona più vile, ma gli pareva svantaggioso e impossibile non obbedire a Zeus, che era suo padre” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
“Eracle voleva assolutamente vedere Zeus, nonostante che quest’ultimo non volesse essere visto da lui. Ma Eracle insisteva; e Zeus ricorse infine a questo espediente. Scorticò un ariete, ne tagliò la testa e la tenne dinanzi a sé. Ne rivestì il vello e si presentò così a Eracle” – Erodoto, Storie II.
“Nemmeno la forza d’Eracle poté sfuggire la Chera, eppure era carissimo al sire Zeus Cronide; ma lo domò il destino e l’ira cruda d’Era” - Iliade XVIII.
“Trittolemo rivelò i sacri misteri di Demetra e Core tra gli stranieri per primo ad Eracle” – Senofonte, Elleniche VI.
“Eracle compì molte imprese terribili, e patì molti mali; ma ora, nella bella casa dell’Olimpo nevoso, vive sereno, e ha in sposa Ebe dalle belle caviglie” - Inno omerico XV.

Assunto in cielo, diventa un dio ed è oggetto di culto

Prodico di Ceo nella famosa favola “Eracle al bivio”, parafrasata da Senofonte, presenta un Eracle adolescente che tra due donne in cui s’imbatte sceglie quella che rappresenta il Dovere, o la Virtù, e non l’altra del Piacere, o Vizio. Aneddoto di grande fascino per i moralisti dei secoli successivi (Prodico è del V sec. a.C.) che hanno riformulato Eracle mettendo da parte gli stupri, i rapimenti, i massacri e le distruzioni. Ma, per il popolo, Eracle non significa tanto il Dovere, quanto un sogno di potere. Potere di esplorare il mondo, di dominare la natura, di detronizzare i potenti, di sconfiggere mostri ed eserciti; potere di sconfiggere anche la morte con l’assunzione in cielo e la possibilità di una vita eterna gratificante; e, perché no, di amare chi si vuole, di essere chi si vuole: libertà di genere, insomma, come auspicavano i sacerdoti vestiti da donna in alcuni suoi santuari. Potere, in conclusione, non come dominio sugli altri e accumulo di ricchezze, ma come libera espressione di sé e libera crescita verso l’immortalità. Un potere che si rifletteva perfino sugli schiavi, come ci racconta Erodoto riguardo all’Eracle egizio, che nei propri santuari offriva asilo ai perseguitati. Ma perché Eracle è stato tanto convincente? Perché ha sofferto da uomo qualunque. Ha faticato sempre, è stato toccato da tragedie immani, ha perso la ragione, ha avuto episodi di stravizio, è stato eccessivo, perfino spietato, ma anche sensibile e affettuoso, ha portato in sé tutte le contraddizioni che contraddistinguono l’uomo.
Infine, Eracle è anche il mistero dell’uomo che si fa dio e che è nel cosmo come ceneri mortali sulla terra, come dio in cielo e come ombra nell’aldilà. L’uomo-dio fa anche i miracoli. Può perfino affrontare gli altri dei, minacciare Helios, combattere contro Apollo e sconfiggere Ares.

“Essendo troppo scaldato dal Sole nel suo viaggio, tese il suo arco contro il dio che in ammirazione del suo coraggio, gli diede un calice d’oro nel quale lui attraversò l’oceano (…) Quando la pira fu tutta bruciata, dicono che una nube sollevò Eracle, e fra tuoni e fulmini lo portò in cielo” – Pseudo-Apollodoro, Biblioteca II.
“Sotto la mia lancia tre volte (Ares) toccò la terra avendogli io colpito lo scudo; alla quarta lo colpii alla coscia e largamente ferii la sua carne; cadde a terra con la testa avanti nella polvere sotto l’impeto della mia lancia; là, di fronte agli Immortali, subì ben triste scorno, e lasciò nelle mie mani le sue spoglie sanguinose” - Esiodo, Lo scudo di Eracle.
“Dicono che Eracle abbia deposto la clava e questa, che era di oleastro, si radicò nella terra e, lo creda chi vuole, rigermogliò e l’oleastro è qui ancora oggi (…) Qui (Metana di Trezene) c’è un santuario di Iside e, nella piazza, una statua di Ermes, e un’altra di Eracle (…) Lì presso c’è la statua lignea di Eracle, nudo, che i Corinzi affermano sia frutto dell’arte di Dedalo (…) Qui c’è anche un Eracle di bronzo (…) Nel ginnasio è dedicata una statua in pietra di Eracle, opera di Scopa. Di Eracle c’è un santuario… (…) Nel frontone ci sono un Eracle… (…) A Hyettos c'è un tempio di Eracle, dal quale gli ammalati traggono giovamento” - Pausania, Viaggio in Grecia II.
“Se uno è in cielo e tu qui con noi sei l’ombra e il corpo già si è sciolto in cenere, son tre” - Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti, Diogene ed Eracle.
“Ora egli è ormai un dio, ed è uscito fuori da tutti i malanni (…) Era, ora, lo ama e lo onora, al di sopra degli altri immortali, dopo il solo Cronide onnipossente (…) Sull’Olimpo pieno di neve, tra gli dei beati, vive lontano da ogni malanno e da ogni tristezza in eterno, immortale e senza vecchiaia” - Esiodo, Il catalogo delle donne.
“Quando i compagni di Iolao andarono a raccogliere le ossa e non ne trovarono traccia, reputarono che Eracle, conformemente ai responsi oracolari, fosse passato dal mondo degli uomini a quello degli dei (…) Poiché il favore nei confronti del dio era comune a tutta la popolazione, ai liberi e agli schiavi, insegnarono anche ai servi a onorare in privato il dio (…) … gli sacrificò come a un eroe un cinghiale, un toro e un ariete, introducendo a Opunte sacrifici e onori per Eracle. Una cosa analoga fecero anche i Tebani; gli Ateniesi furono i primi tra tutti gli altri a onorare con sacrifici Eracle come un dio… indussero tutti quanti gli uomini sulla terra abitata…” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica.
“… per quella giornata infatti si dava il caso che celebrassero una festa con sacrifici in onore di Eracle” - Tucidide, Le storie, VII 73 (spedizione in Sicilia, Siracusa).
“Gli dei venerati dagli Sciti sono: Istia, Zeus, la Terra, Apollo, Afrodite Celeste, Eracle ed Ares” – Erodoto, Storie IV.
“In Egitto, nella regione dov’è il ramo del Nilo ora detto di Canopo… c’era su questa spiaggia, e c’è ancora, un santuario di Eracle. Se il servo di chicchessia vi si rifugia, s’imprime le stigmate sacre e si offre al Dio, non è più lecito toccarlo” – Erodoto, Storie II.

Una personalità complessa

Nella nostra cultura Eracle è conosciuto come Ercole il forzuto. Ne hanno fatto un bambolotto muscoloso, prendendo in considerazione solo alcuni aspetti minimi del suo mito. Grande successo ha avuto infatti l’episodio infantile dell’uccisione dei serpenti di Era. Angelo Brelich, ne “Gli eroi greci”, Adelphi, ci presenta i caratteri tipici dell’eroe. Eccone una sintesi: gigantismo; teriomorfismo (assumere forme animalesche); androginismo e transessualità; imperfezioni fisiche: zoppia, cecità…; iperfagia e ubriachezza; appetito sessuale: rapimento di donne, violenza carnale, incesto, pederastia; fatti di sangue: omicidi pianificati, per rabbia, involontari; avventurismo, pirateria, guerra; sacrilegio ed empietà; inganno e furto; follia; conflitto tra fratelli (gemelli); assunzione dei caratteri dell’avversario ucciso (la pelle di leone); polarizzazione (il vincitore è buono, lo sconfitto è cattivo e mostruoso); hybris (disconoscimento dei limiti).
Che ne dicono i nostri autori? Per Apollodoro era poco più alto della media e non era un gigante come scritto da altri. Apollonio Rodio ci racconta che aveva più autocontrollo dei compagni argonauti e della saldezza dei nervi ci testimonia anche Diodoro Siculo. Luciano di Samosata deride il suo travestitismo alla corte della regina Onfale, ma altri ci dicono le sue sincere pene d’amore. Eracle distruttore e omicida, alcuni lo dicono stupratore, ma anche affabile, cordiale, amato e rispettato dalla gente. E la sua tracotanza? È stato lui, ci dice Pindaro, a porre dei limiti all’uomo, erigendo le colonne ai confini del mondo umano. Folle è chi supera tali confini!

La forza e la statura
“Eracle li affrontò, stringendo entrambi
nella morsa pesante delle mani,
prendendoli alla gola, che è la sede
del mortale veleno dei serpenti
portatori di morte, detestato
perfino dagli dèi. Quelli frattanto
circondarono entrambi con le spire
quel bimbo nato tardi, ancora a balia,
che non piangeva mai, ma poi di nuovo
lo scioglievano vinti dallo sforzo,
cercando in tutti i modi di sottrarre
la schiena dalla stretta inesorabile (…)
Levarono un grido di stupore
quando Eracle lattante apparve loro
con le due bestie saldamente strette
nelle tenere mani. Sollevava
verso il padre Anfitrione quei serpenti
e saltava di gioia allegramente
e i mostri orrendi nel mortale sonno
pose ridendo ai piedi di suo padre” - Teocrito, Idilli.
“Il suo aspetto rivelava chiaramente che era figlio di Zeus: era grande quattro cubiti e negli occhi gli brillava il fulgore del fuoco” - Apollodoro, Biblioteca II. Cubito = o,462 m, quindi era alto1,85.
(In Scizia) “Viene mostrata un’impronta del piede di Eracle, che si trova su di una roccia: somiglia all’orma di un piede d’uomo e ha l’ampiezza di due braccia. Si trova presso il fiume Tyra” – Erodoto, Storie IV.
“A Eracle come premio del pancrazio un cratere d’argento tutto cesellato” - Argonautiche orfiche. Pan-kratios, tutto potenza, ammesso tutto meno mordere e accecare, lotta e pugilato insieme.
“Non essendo soddisfatto della bevanda che gli venne data, Eracle colpì alla testa con un solo dito Ciato, il ragazzo che faceva da coppiere a Eneo. Quello, per il colpo ricevuto, morì all’istante e i Fliasii hanno a suo ricordo un edificio in cui sono delle statue di pietra che rappresentano Ciato che tende la coppa a Eracle (…)  Epidauro: Salendo sul monte Corifeo, lungo la strada si trova una pianta d’ulivo detta Strepte (ritorta): il nome è dovuto al fatto che Eracle la attorcigliò con una mano”- Pausania, Viaggio in Grecia II.
“Allora Eracle con la sola forza delle braccia trascinò tutti i compagni sfiniti, facendo gemere le tavole compatte della chiglia (…) Nel fendere con colpi vigorosi il mare in tempesta, spezzò il remo (…) “Depose a terra la faretra colma di frecce e l’arco, e si spogliò della pelle di leone; con la clava di bronzo, peso immane, squassò l’albero alla base del ceppo, e afferrò poi il tronco con ambedue le mani, sicuro della propria forza, appoggiandovi le larghe spalle e aderendovi con le gambe divaricate: lo divelse dal suolo con tutte le lunghe radici e le zolle di terra” - Apollonio Rodio, Argonautiche I.

La distruzione
“Eracle distruggitore di città” – Esiodo, Catalogo delle donne.
“L’eroe invincibile distruttore di rocche” - Bacchilide, Epinici V.
“Piombato all’improvviso sulla città degli Orcomeni, fece irruzione dentro le porte, bruciò la reggia dei Mini e rase al suolo la città” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.

La follia
“Era gli mandò un furore; egli, inquieto nello spirito, cadde in uno stato di follia” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
“Ora al confine estremo
Théron approda, e da meriti propri
sbarca alle colonne
di Eracle. Oltre è precluso a saggi
e non saggi. Io non voglio provarci. Sia folle, prima!” – Pindaro, Olimpiche III.

L’ingordigia
“Sciolse uno dei due tori dal carro di un mandriano, lo sacrificò, e se lo mangiò a banchetto. Il mandriano altro non poté fare che scapparsene sulla cima di un monte, e maledire Eracle da lontano. In ricordo di quell’episodio, gli abitanti di Lindo compiono i sacrifici a Eracle pronunciando maledizioni” - Apollodoro, Biblioteca II.

La bisessualità
“O eroe Iolao che io amo sopra tutti i mortali” - Esiodo, Lo scudo di Eracle.
Ila, addentratosi sulla terraferma, non torna: “…e il nero sangue bolliva nelle viscere; prese a correre dove lo portavano i piedi nel suo impeto, a caso. Come infuria il toro quando è punto dal tafano, e va per la sua strada ora senza sosta, ora fermandosi, e alzando il largo collo leva muggiti, afflitto dal doloroso assillo, così l’eroe smaniando  ora muoveva rapidamente i veloci ginocchi, ora arrestava la corsa affannosa e lanciava alte grida che si perdevano lontano” - Apollonio Rodio, Argonautiche I.
“Asclepio. Dici bene, che io ti sanai le scottature, quando testé mi venisti innanzi mezzo arrostito, che ti si erano attaccate addosso e la tunica e il fuoco. Io almeno non fui servo, come te, non filai lana in Lidia, vestito di porpora e battuto da Onfale col sandalo ricamato d’oro; io non mai venni in tanto furore da uccidere figliuoli e moglie” - Luciano di Samosata, Dialoghi degli dei.
“Spinto dal desiderio del fanciullo,
Eracle si muoveva tra gli spini
mai calpestati, percorrendo tutto
un vasto tratto. Poveri gli amanti!
Quanto penò vagando per i monti
e le boscaglie!” - Teocrito, Idilli.
“Un po’ distante dalla città di Dyma c’è, sulla destra della strada, il santuario di Sostratos. Era un giovane del luogo, amato, dicono, da Eracle, che alla sua morte gli innalzò una tomba e gli offrì una ciocca di capelli della sua testa come primizia votiva. Anche oggi c’è una lastra sulla cima di un monte, con una figura di Eracle a rilievo. Ho già detto che la gente del luogo sacrifica anche a Sostratos come a un eroe” – Pausania, Viaggio in Grecia VII.

La seduzione
“Eracle sedusse Auge (…) Suo padre Aleo la consegnò a Nauplio, il figlio di Posidone, perché la vendesse in una contrada straniera” - Apollodoro, Biblioteca II.

L’autocontrollo
Donne di Lemno: “… e gli altri ciascuno nella casa in cui la sorte lo condusse; ma Eracle volle restare presso la nave. Ben presto tutta la città, piena di grasso fumo, si abbandonò a un tripudio di danze e di banchetti” - Apollonio Rodio, Argonautiche I, 854.
“Chi combatteva contro tale bestia doveva avere una così grande superiorità su di essa da cogliere con precisione il momento opportuno al culmine dello scontro; infatti, se l’avesse lasciata andare quand’era ancora forte avrebbe corso pericolo per via delle sue zanne, mentre attaccandola con maggior forza del necessario l’avrebbe uccisa, cosicché la Fatica sarebbe rimasta incompiuta” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.

La cordialità
Sicilia: “Trattando familiarmente gli uomini che lo onoravano, lasciò presso di loro ricordi imperituri della propria venuta” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 24.

La modestia
“Nessuno dia a me questo onore; non lo voglio” - Apollonio Rodio, Argonautiche I.
Olimpiadi: “Stabilì che il premio fosse una corona, poiché anch’egli beneficò il genere umano senza ricevere alcuna mercede” - Apollonio Rodio, Argonautiche.

La sagacia
“L’inventiva non gli fu meno utile della forza fisica; (…) senza violenza e senza pericoli, con la sagacia dello spirito portò a termine questa Fatica” (cerva) - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.

L’orgoglio
“Eracle rifiutò di trasportarlo fuori sulle spalle (letame), per evitare la vergogna derivante da quell’ordine oltraggioso (…) Compì l’ignobile ordine senza vergogna, senza dover sopportare nulla che fosse indegno dell’immortalità” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.

La compassione
Piange per Meleagro nell’Ade: “Il figlio di Anfitrione impavido in guerra bagnò di lacrime gli occhi, compatendo il doloroso destino dell’uomo, e in risposta gli disse: - Per le creature mortali non essere è la cosa migliore, né mai vedere la luce del sole” - Bacchilide, Epinicio V.
“Quando a stento si fu liberato della propria follia e venne a conoscenza dell’errore commesso nell’incoscienza, fu vivamente addolorato per la grandezza della propria sventura; e mentre tutti erano partecipi del suo dolore e del suo lutto, per molto tempo se ne stette tranquillo in casa evitando rapporti e incontri con le persone” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.
“Quando Eracle lo vide sofferente per questa punizione per il dono che aveva fatto agli uomini, uccise l’aquila con una freccia e dopo aver persuaso Zeus a cessare dalla sua ira, salvò Prometeo che era il benefattore di tutti” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica IV.

L’eroe che plasma il territorio e la società

Ciò che stupisce è come la complessità di Eracle (dalle origini extraelleniche alle contraddizioni, dalla dimensione umana a quella divina, dalla missione di sterminatore a quella di civilizzatore) sia stata nei secoli mistificata e ridotta ora a vis comica ora a soggetto cinematografico o letterario di scarsa qualità, fino a renderlo prodotto di consumo per la letteratura infantile. La sua follia è stata soffocata nella camicia di forza, la sua audacia virata in spavalderia, la sua dedizione intesa come caparbia bruta, la sua affettività stroncata dal moralismo, il suo superomismo addomesticato dalla tracotanza dei benpensanti.
Eracle è stato fatto a pezzi con un bisturi cinico e ognuno ha condensato la sua ricchezza metaforica in uno solo dei frammenti, ridisegnandolo per i propri obiettivi artistici, filosofici, politici o religiosi.
Lui che ha “liberato la via per i viaggi per nave” (Pindaro,Istmiche IV), si è perso nel labirinto della storia e si ritrova al centro di una galleria di specchi deformanti.
I nostri autori ci raccontano che ha percorso i sentieri dei deserti e delle catene montuose, delle steppe e delle paludi, delle pianure e dei vulcani, modificando il paesaggio con opere grandiose, come la divisione dei continenti e la rimodellazione di fiumi e laghi. Ha viaggiato perfino al di là del mondo sensibile, raggiungendo luoghi che appartengono alle favole. Ha portato presso i popoli di tutto il mondo conosciuto le arti agricole di Demetra e il pensiero evoluto della grecità. Proprio un missionario di grecità, è stato. Lasciando dietro di sé nuove colonie elleniche, templi e ginnasi. Eracle non ha cambiato il mondo con i prodigi della divinità, ma con le proprie forze e con i sentimenti e le emozioni più umane.
Ha ucciso, ha distrutto, ha amato, ha sfidato, ha costruito, ha soccorso, si è disperato, ha sbagliato, si è pentito, si è purificato, si è straziato il cuore subendo una follia dionisiaca che non l’ha spinto a lacerare le carni di un animale, ma quelle dei propri figli… Eracle non può essere dissociato dalla tragedia. Egli è il simbolo dell’umanità più tragica, che edifica pensiero e opere per vedere ogni volta crollare tutto, ritrovando in un attimo l’energia per ricominciare a produrre la propria distruzione.
I Micenei non hanno avuto un buon rapporto con l’ambiente, non hanno saputo costruire pace e collaborazione tra le città-stato, hanno ceduto alla corsa agli armamenti, si sono creati nemici ovunque… e alla fine le vicende degli uomini e la furia della natura li hanno stroncati. Avrebbero molto da raccontare all’uomo contemporaneo, se l’uomo tecnologico e globale del nostro secolo, sempre più distruttivo, li volesse ascoltare.

Le modifiche del paesaggio
“Eracle si trovò di fronte il fiume Strimone, e ne fu contrariato: allora riempì di massi la sua corrente, e da navigabile che era lo rese non più navigabile” - Apollodoro, Biblioteca II.
Stretto di Gibilterra: “Restrinse quel braccio di mare affinché, resolo poco profondo e stretto, fosse impedito ai grandi mostri marini di passare dall’Oceano al mare interno (…) Alcuni affermano al contrario che, essendo uniti i due continenti, egli vi tagliò un passaggio” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica  18.
Sicilia: “Creò un lago con un circuito di quattro stadi” (700 metri) - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 24.
“Eracle, che desiderava fare un favore ai Calidoni, deviò il fiume Acheloo e, preparandogli un altro letto, recuperò un territorio grande e produttivo” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 35.

L’eponimia
“A Lico poi affidò un vasto territorio sottratto ai Bebrici: e l’intera regione venne chiamata Eraclia” - Apollodoro, Biblioteca II.
“… (a Trezene) c’è una fontana detta Eraclea, perché, secondo i Trezenii, Eracle ne scoprì le acque” - Pausania, Viaggio in Grecia II.
 “In Sicilia fondò la città di Eraclea. Ma, dal momento che quest’ultima crebbe velocemente, i Cartaginesi, pieni d’invidia e nel contempo temendo che divenuta più forte di Cartagine portasse via ai Fenici la loro egemonia, condussero una spedizione contro di essa con una grande armata e presala con la forza la rasero al suolo” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV.

La civilizzazione
A Creta “ sgombrò l’isola dagli animali selvatici… orsi, lupi, serpenti (…) Introducendo le coltivazioni, trasformò la Libia, che era piena di animali selvaggi… a causa dei quali in precedenza non era abitabile (…) Egli odiava e combatteva la razza delle bestie feroci e degli uomini iniqui - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 17.
“Mise fine all’ignoranza delle leggi e alle uccisioni degli stranieri (…) Alpi: “Scelse la via più aspra e di difficile passaggio, cosicché ora essa è percorribile da eserciti e bestie da soma” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 19.
Campania: “Porta molti segni del fuoco (del vulcano Vesuvio) che l’ha bruciata in tempi remoti (…) Eracle, dopo aver ucciso la maggior parte dei Giganti, rese possibile la coltivazione della regione” - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 21.
Campania: “Costruì la strada che ora corre lungo il mare, e che da lui viene chiamata Eraclea” (il cui selciato è stato scoperto sul fondo marino) - Diodoro Siculo, Biblioteca storica 22.
“Eracle gareggiò con i fratelli in una gara di corsa e incoronò il vincitore con un ramo di olivo selvatico. Si racconta che è stato introdotto in Grecia da Eracle dalla terra degli Iperborei, uomini che hanno dimora nell’estremo Nord” - Pausania, Viaggio in Grecia V.

La conclusione? Non c’è, questa è una tappa del viaggio letterario di un romanzo. C’è un personaggio da costruire. Si raccolgono indizi. Li si riordina. Si dà loro un significato. Si legano i significati, si cerca la sintesi. Si procede verso il significato sommo, quello che rende il libro utile, oltre che frutto di arte.
La conclusione può, per il momento, essere questa: L’incipit del romanzo.

Aquilino
IL ROMANZO DI ERACLE

MICENE

Tutto ha inizio con l’ennesima scorreria dei Tafi, chiamati un tempo Teleboi, i pirati che dalle isole dell’Acarnania si spingono lungo il golfo di Corinto fino a predare l’Argolide. Sono selvaggi e odiano il mondo, perché un tempo regnavano su un territorio sconfinato e ora sono caprai e pescatori. Mettono in comune forze e beni per costruire navi piccole e veloci. Bastano dodici dei loro uomini per annientare un villaggio. Le donne non sono da meno e se non hanno figli da allattare partecipano alle scorrerie. Incitano i compagni alle più efferate crudeltà, facendo patire ai nemici quello che subiscono dai mariti.
“Devono provare terrore solo a sentire il nostro nome” dicono. Combattono nudi o coperti da pelli di animali lacere, i capelli incolti che sbattono come ali di corvo, gli occhi allucinati e la bocca sempre aperta per lanciare urla spaventose. Si lasciano alle spalle i cadaveri squartati dei bambini e degli anziani; donne e uomini validi sono venduti come schiavi ai Macedoni.
Elettrione, figlio di Perseo fondatore di Micene, esasperato per il furto di un’altra mandria muove guerra al loro re Pterelao, uccidendone i figli. Ma nello scontro perde anche lui i sette figli maschi. Distrutto dal dolore, si ritira sconfitto. In sua assenza il regno è affidato al nipote Anfitrione, figlio del fratello Alceo re di Trezene. Anfitrione coglie un’occasione: rileva una mandria razziata pagando però un considerevole riscatto agli Elei, la popolazione del nord che ne è entrata in possesso non si sa come. Al ritorno, furioso per la perdita dei figli,  Elettrione rimprovera il nipote.
“Non dovevi cedere al ricatto! Non è lecito vendere merce rubata! Gli Elei andavano accolti con la spada, non con l’oro! La mandria è costata una fortuna e io non intendo risarcirti!”
Anfitrione subisce la collera del wanax senza discutere. Attribuisce il comportamento dello zio al tremendo lutto, ma deve comunque sfogare l’irritazione: ha agito per il bene comune! Lancia un bastone contro una vacca innervosita dagli urli. Messe le ali, il pesante legno rimbalza sulle corna e va a colpire lo zio alla nuca, uccidendolo all’istante.
I testimoni sono concordi: è stato un incidente. Anfitrione, pur conscio di non avere colpe, è scosso da un brivido: un dio ha guidato il volo del bastone, un dio ha voluto renderlo colpevole di omicidio, un dio ha dei piani per lui; e i progetti divini non sono mai scevri di pianti e rovine.
Riportano il cadavere a palazzo, le strade affollate di gente angosciata: non è morto in battaglia, dicono i sussurri, è stato ucciso dal nipote.
Stenelo, fratello di Elettrione, ascolta quanto è successo e liquida i testimoni con un gesto di stizza, ritenendoli inattendibili. Assume la reggenza e accusa Anfitrione di omicidio, instillando nei consiglieri anziani della gerusìa il dubbio di un tentativo di colpo di stato. La sentenza è emessa all’istante: il bando.
Anfitrione è sollecitato dagli uomini che gli sono rimasti fedeli a non accettarla e a scontrarsi con il nuovo wanax. Lui è il lawagetas, il capo degli equitai, gli aristocratici guerrieri, non può farsi umiliare senza combattere! Il sangue ribolle, la tentazione è forte. In un attimo Micene è sua, non ne dubita: l’onore gli impone di uccidere Stenelo. Ma a quale prezzo? Quanto sangue sarà versato? Quanto grande sarà la collera degli dei per l’assassinio di un consanguineo? Un altro omicidio nello stesso giorno?
“Non siate precipitosi” raccomanda, fremendo per lo sforzo di controllarsi. “Gli dei mi diranno che cosa fare.”
Si reca da solo nel piccolo santuario dedicato alla Signora, ma appena vi mette piede un piccolo grifone d’argilla prende il volo dall’altare, punta su di lui, lascia cadere un topo morto, poi scarta e scompare a settentrione. Non ha alcun dubbio sul significato del segno. Atena Potnia gli ha detto: evita il massacro, vattene a nord, se non vuoi fare la fine del topo.
Non gli è facile spiegarlo ai guerrieri. Un uomo deve lottare fino all’ultimo, altrimenti non è un uomo. Ma una guerra civile no, Anfitrione non se la sente di insanguinare le vie di Micene. Li lascia amareggiati e delusi e trascorre il resto della notte a preparare le poche cose che può portare con sé. Tenta anche di pianificare il futuro. Dove può andare? A Trezene? A Tirinto? Là ci sono i suoi parenti. No, ne teme la diffidenza e i sospetti. Deve trovare qualcuno che lo purifichi. Argo? Oppure Atene? Si rende conto di non riuscire a pensare. La divinità che gli ha dichiarato guerra gli offusca la mente. Non gli rimane che prendere la via confidando nel soccorso di Atena. Solo come un traditore. Quanto più facile sfidare Stenelo e combattere per un trono che gli spetta per diritto ereditario! Deve combattere contro se stesso, più che contro gli sguardi imbarazzati dei guerrieri. Alcuni di loro non riescono a nascondere il disprezzo: il loro capo ha perso la timè, l’onore.
È ancora buio quando si appresta a dire addio alla città in cui ha trascorso l’adolescenza, anticipando il processo farsa e la cacciata per decreto reale. Percorre a cavallo la rampa che costeggia il palazzo e attraversa la cittadella fino alle tombe reali. Supera la porta nord senza degnarla di uno sguardo. Intende uscire da quella dei leoni, perché lui è il lawagetas e se ne va a testa alta. Gli zoccoli traggono dalla pavimentazione un rintocco funebre. Passa sotto i ponteggi allestiti per estendere le mura intorno alle residenze dei ricchi mercanti, ma soprattutto per proteggere il pozzo e i magazzini interrati dai possibili assalti delle genti del nord o dei popoli del mare. C’è in progetto una cisterna segreta che assicuri acqua in caso di assedio, ma lui, che ha contribuito alla sua ideazione, non la vedrà. Chi comanderà ora i suoi uomini? Non vuole nemmeno saperlo. Meglio svuotare la mente, perché i pensieri sono punte di pugnali. Viene osservato con curiosità dalle guardie assonnate: un potente se ne va con la coda tra le zampe. Alza lo sguardo sulle due leonesse di pietra, impassibili. Sono state scolpite dal dio del vino che ha voluto due femmine combattenti a protezione dell’acropoli, due feroci baccanti. Davanti a lui si stende il paesaggio brullo che l’alba comincia a scolpire con tratti decisi e silenziosi. Lascia correre lo sguardo sui crinali delle colline come tanti dorsi di buoi addormentati, e accarezza la durezza della roccia che fa da culla alla città e ai suoi abitanti. Uomini di pietra, i micenei. All’orizzonte una massa più cupa: le montagne boscose dell’Arcadia, dove abita il dio Pan. Ma non è là che deve dirigersi, non tra i lupi e gli orsi. Per lui ci vuole un re potente che gli restituisca l’onore.
Un frullo d’ali: una civetta è di ritorno al nido e lo precede nel cammino. Anfitrione inspira con forza. La dea lo accompagna, forse ciò che perde gli sarà restituito. Ma quando?
Oltre le mura, quando si è appena inoltrato nella città bassa, viene raggiunto da un carro. Alcmena, l’unica figlia del defunto Elettrione, gli grida qualcosa. Gli era stata promessa in sposa, ma Anfitrione non se l’è sentita di dirle addio. Troppo dolore gli gonfia il cuore. Per un gesto di stizza ha perso tutto: la posizione sociale, il temeno, la terra che ora va a Stenelo, con tutti i suoi beni e gli schiavi, la prospettiva di una famiglia… Gli restano solo l’oro e l’argento che è riuscito a stipare in due bisacce.
“Non te ne vai senza di me!” esclama la donna facendo fermare il carro davanti al suo cavallo. Alle redini c’è Daneia, la schiava di età avanzata che l’ha allevata. Anfitrione è allibito. Che cosa ci fa la principessa tra le casupole del damos?
“Ti ho ucciso il padre.”
“Non tu, gli dei lo hanno ucciso. Come hanno ucciso i miei fratelli. Solo loro sanno perché. Nelle avversità, si salva il salvabile. Te ne vai come un cane bastonato? E io? La gente mi guarda già con pietà. Ho pianto tutte le mie lacrime, se resto qui muoio di consunzione. Onora la promessa, sposami, ricominciamo da un’altra parte.”
“E dove? Io sono il reietto.”
“Tu sei quello che vuoi essere. Andiamo a Tebe.”
“A Tebe?”
“Fidati di me. Andiamo a Tebe.”
Anfitrione non stacca gli occhi da quelli di Alcmena, di un nero abissale, agitati da una luce febbricitante. È combattuto e disorientato. Alcmena gli piace, è una donna di bell’aspetto; e forte. Forse troppo forte. Osa quello che nessun’altra ha il coraggio di fare. Lasciare il gineceo, uscire senza scorta, decidere da sola del proprio destino. Non può evitare di essere roso da un dubbio: una donna così, che si comporta da uomo, può essere una buona moglie?
“E Stenelo? Ora è il tuo tutore.”
“Affrettiamoci, prima che scopra la mia assenza.”
Deve decidere. Il comportamento di Alcmena è scandaloso. Se la riconsegna al wanax, sconta l’arroganza con una fustigazione pubblica. Se la porta con sé, s’inimica Micene. E sia. Tebe è a nordest. La volontà della dea è rispettata.
“Il carro ci rallenta. Lascialo qui.”
Solo ora si accorge che dalle abitazioni è uscita gente, attirata dal vocio inusuale quando i signori dell’acropoli dormono ancora. Una dopo l’altra, si accendono le lanterne per i lavoratori che alle prime luci dell’alba sono già all’opera. Vivono una doppia fatica: procurare il sostentamento per la famiglia e il lusso per i signori della rocca, lavorando le materie prime fornite loro: dall’argilla al rame, dal pellame alla pasta di vetro, dalle essenze all’avorio.
I curiosi lanciano un’occhiata al guerriero che indossa un’armatura leggera di cuoio rinforzata da lamine di bronzo, la testa protetta da un elmo di zanne di cinghiale; e alla donna avvolta nel mantello prezioso: che cosa ci fa in giro di notte? Solo un’occhiata, poi fingono di non avere visto niente e si dedicano alle proprie incombenze. Nelle beghe dei nobili è sempre meglio rendersi invisibili. Quello non è un signore che va a caccia. Non porta bracciali, è vestito da viaggio, ma senza i simboli del potere. E la donna? Priva di gioielli, una gonna di tela senza balze né ricami, una blusa sotto un corpetto di daino. Quella è gente che scappa. Meglio allontanarsi; lasciarsi coinvolgere in uno scontro tra uomini armati mette a rischio la vita.
I cani abbaiano, in lontananza il primo gallo lancia un richiamo stridulo, dalla campagna provengono i primi belati. Il mondo si risveglia.
Alcmena è una brava cavallerizza. Staccati i cavalli, lei e la schiava affiancano Anfitrione nella fuga. Deve abbandonare ogni cosa sul carro: vestiti, cosmetici, gioielli, vasellame… ma non le importa, vorrebbe avere il tempo di gridare al damos, il popolo: prendete tutto! Sorride amaramente della propria dabbenaggine. Non può, le guardie di Stenelo impiccherebbero chiunque trovato in possesso di un oggetto del palazzo. Rivolge un cenno ad Anfitrione.
Lui ha l’ombra sul viso, ma lei lo conosce e sa che ogni pena passa, quando si ha l’animo del guerriero. Lo vede lanciare l’ultimo sguardo a Micene, accarezzare con gli occhi le mura costruite dai Ciclopi, alte venti cubiti e profonde la metà. Ora incombono su di loro come una condanna a morte. Lei sa quanto rischia, portandola con sé. Le labbra vibrano in un giuramento muto: verrà il giorno del ritorno.
E via, i cavalli scendono verso la pianura arida. Alla loro destra, Helios scaccia le tenebre.
Ecco il senso di questa storia. Il ritorno. Nostos. È una storia di vagabondaggi sulle tracce dei mostri. Di incursioni nel Tartaro. Di ritorni a casa tragici. La storia di un luogo cercato invano; e dopo un frenetico girovagare si ritorna alle mura che ci hanno visto nascere. Ogni morte è un ritorno alla nascita; ogni nascita un inconsulto vagare verso la morte.
Il mio nome è Iolao, figlio di Ificle di Tebe gemello di Eracle, generati da Alcmena il primo con Anfitrione e il secondo con Zeus. Avere uno zio come Eracle ha modellato la mia vita con la potenza di un artista, ma io non sono stato creta passiva nelle sue mani. La mia esistenza è consapevole, anche se quando tutto ha inizio ho solo dodici anni.
“Lo voglio con me” dice Eracle. Mio padre esita, mia madre m’implora con lo sguardo lucido, ma io decido: “Voglio andare con lui.”
Ignoro che cosa mi aspetta. Delle origini divine dello zio tutti sanno qualcosa e nessuno dice niente. Non voglio stare con lui perché Zeus gli è padre, e nemmeno perché è destinato a imprese eroiche.
Voglio stare con lui perché devo, lo esige un desiderio forte dentro di me. Lo stesso che è dentro di lui.