venerdì 19 dicembre 2014

IL TEATRO DEL RIORDINO (seconda parte)

Il riordino della scena non può tuttavia avvenire se non riflette un processo di riordino e armonizzazione interiore.  Ciò avviene anche nell’interrelazione dell’uomo con l’ambiente. Non si può verificare un vero rispetto della natura se l’uomo non accoglie in sé, con devozione e sensibilità, ciò che la natura è nel suo insieme, non come appare a sguardi offuscati da romanticismo, sentimentalismo o utilitarismo. La natura è armonia di dissonanze, fratture e imperfezioni, e così va accettata. Se l’uomo non lascia una visione antropocentrica e non s’inserisce nel coro universale come una delle innumerevoli voci, il suo tentativo di riordinare se stesso e l’ambiente in cui vive è destinato alla disarmonia e alla distruzione.

Il drammaturgo che scrive il testo, il regista che lo rende visibile e l’attore che gli dà corpo sono di fronte alla scena silenziosa e spenta, dove si accumulano oggetti, teli, costumi. Qual è il compito del riordinatore? Quello di un naturalista che di fronte a un ambiente naturale non ne coglie solo le qualità estetiche e le suggestioni sensoriali. Egli stabilisce relazioni tra gli elementi che lo compongono e vede come ogni vita s’intreccia ad altre vite, in una complessità relazionale di vita e morte che assicura il perpetuarsi della vita. Egli ascolta, quindi, il cuore che batte al di sotto di tale complessità e ne sintonizza il battito con il proprio. In modo simile il regista non vede solo un fondale, una sedia, un telo colorato… ma spazi, forme, itinerari, movimenti… da mettere in relazione tra di loro. 

Quando si fanno le pulizie di casa si può trarre piacere e soddisfazione da: eliminazione del superfluo, eliminazione di quanto con il tempo si è svalutato, inserimento di un altro oggetto, spostamento di cose, riutilizzo di cose in modo nuovo e diverso. Se sposto un oggetto (un quadro, una statuetta…), cambio un sistema di relazioni. A seconda della parete sulla quale è appeso, un quadro diventa più o meno visibile, più o meno illuminato, più o meno significativo. Esso dà un senso nuovo allo spazio in cui è immerso. Se un boccale diventa portapenne, non cambia solo il modo in cui lo vediamo, ma tutto ciò che lo circonda (nuovi approcci, nuovi itinerari…). Tornando al quadro, i nostri automatismi ci inducono ad appenderlo ad altezza d’occhi. Ma se lo appendiamo a pochi centimetri dal pavimento o dal soffitto, stabiliamo una relazione nuova con lo spazio parietale e il quadro stesso ci sembra diverso.

Dopo il catalogo di quanto ha a disposizione, il regista procede appunto a un nuovo arredo della scena, che tuttavia non è statico, ma dinamico. Egli mette a confronto il testo con la scena e stabilisce relazioni tra la parola, gli spazi, gli itinerari, gli oggetti, gli interpreti, le musiche, attento a non farsi trarre in inganno dal pensiero convergente che tende a simulare la realtà, a copiarla, invece di realizzare uno specchio deformante che ne sondi la sostanza sotto le apparenze e le convenzioni. Motore delle sue scelte è la sintonia tra l’animo aperto alle scoperte e lo stato catatonico delle cose di scene alle quali dà vita, evidenziandone le potenzialità espressive. La sua non è quindi una razionalizzazione (un ordine esteriore e tecnico) degli spazi e dei tempi, ma una indagine sulle possibili relazioni, dove in ogni relazione ciascuno dei due elementi acquisisce dall’altro e dona all’altro, per cui l’unità significa due nuove personalità. Posso parlare di personalità riguardo a un telo? A un cubo che diventa sedile, tribuna, collina, masso? Sì, proprio di questo si tratta. L’indagine mira a comprendere la “psicologia” complessa di un oggetto, uno spazio, un movimento. Tende a eliminarne ogni limitazione espressiva, dandogli la possibilità di essere ciò che ancora non è stato; e di porsi in relazioni nuove. Il riordino diventa, quindi, creativo. Vede con occhi nuovi e interviene nell’ambiente con relazioni nuove, che ne generano altre.  

Tutto questo il regista, con la sua genialità? No, tutto questo come frutto di presa di coscienza di relazioni che fin dall’inizio si stabiliscono tra il regista e gli attori, tra gli attori e la scena, tra lo spazio e il tempo. Sono relazioni confuse, come abbiamo scritto. All’inizio è il caos. Per districarsi nel caos il regista deve ricorrere a una visione d’insieme che non è automatica, frutto di esperienza o di talento, ma conquistata passo dopo passo seguendo il filo delle interazioni spazio-temporali, operando per semplificazione, divergenza, connessione, sincronia, discordanza e così via. Si cerca, insomma, di mettere in moto un meccanismo fitto di ingranaggi con l’obiettivo di dare vita a un’unità espressiva. Ecco quindi che puntare solo sulla recitazione degli attori o sull’estetica della scena o sulla verosimiglianza o sul messaggio politico o sulla reazione del pubblico o sulla ricerca della verità storica o sulla rivoluzione energetica o sul gradimento massmediale o sul razionalismo… costituisce un limite a un teatro che non ha limiti.

Quando qualcosa funziona, quando qualcosa prende vita, quando osserviamo la natura, un essere vivente, una relazione tra viventi… qualcosa risuona dentro di noi, qualcosa che assomiglia al kalos kai agathos degli antichi greci. L’accordo che si stabilisce tra il nostro animo e la visione-esperienza è bello e buono, e quindi è giusto. Se il teatro tende anzitutto a questo, a un’armonia universale rivissuta sulla scena, qualunque tipo di teatro può essere realizzato. Un teatro che parta dal riordino della scena e dalla sintonia tra attori e scena può lanciare messaggi all’umanità, può comunicare esperienze, può divertire, può commuovere, può vincere premi, può fare cassetta, può piacere anche ai profani. Soprattutto, evita di annoiare. Quanto teatro inutile e noioso! Quanto teatro narcisista, addirittura egotico! Il teatro dell’uno-solo è sterile, va abolito anche se osannato dalla critica e dal pubblico.

Scrive Monica Centanni in “Verso Atene. Sul finale ateniese di 11 (12) tragedie”, in DIONISO, rivista di studi sul teatro antico (2012, II): “Vero è che il mito ha una sua valenza aoristica: per dirla ancora con Aristotele, comunque la poesia, che dal mito trae spunto, struttura, anima, tratta di fatti che non sono avvenuti una volta soltanto, ma avvengono sempre, e in questo sta la maggiore serietà e profondità della scrittura poetica, e la più ampia frequenza, la più efficace presa ermeneutica, del mito rispetto al registro della storia (Aristotele, Poetica 1451 a 36-1451 b 5). Ma questo rende paradossalmente i mythoi - che Platone aveva definito come le fiabe che le balie e le mamme raccontano ai bambini che il filosofo-governante deve censurare - più seri rispetto ai fatti meramente accaduti che sono narrabili come historía. Rispetto ai fatti accaduti una volta soltanto anche la materia mitica contempla storie che si danno per accadute in un passato più o meno prossimo o remoto, ma sono storie che non essendo state mai registrate in una forma fissa e in un libro sacro, sono versatili, disponibili fin dalle origini a declinazioni varie e diverse.”

Nemmeno la natura ha un libro sacro, ma è disponibile fin dalle origini a declinazioni varie e diverse, come il teatro. In questa potenzialità senza limiti sta la sua vitalità, non nella serie di definizioni che si sono succedute nella storia. Il teatro nasce dal mito e nel mito ha la sua fonte. Come il mito, esso presenta storie astoriche, la cui vitalità consiste non nel rispecchiare questo presente, ma tutti i presenti. Il teatro non è cronaca, dato che la cronaca è sempre disordinata e rinuncia alle relazioni ampie essendo frutto di un unico punto di vista. Il teatro va dentro e sopra e sotto e a lato della cronaca, rendendola paradigma universale nel quale gli elementi sono vitalizzati e riordinati in un sistema biologico, di vita. Il riordino interessa ogni parte e aspetto della scena, e del testo e del suo significato, andando a investire il caos di atteggiamenti e ideologie nella mente del curatore. Egli si pone non di fronte al mondo, ma nel mondo, e cerca una sintonia, un’armonia con le cose viventi che gli consenta di esprimerle.


venerdì 12 dicembre 2014

IL TEATRO DEL RIORDINO (prima parte)

Quando incomincio un laboratorio o una messa in scena, con un nuovo gruppo e un nuovo testo, i primi passi sono quelli esitanti di un neonato che gattona sul pavimento. L’istinto gli fa assumere la posizione seduta e dopo il training iniziale lo spinge in su, verso la posizione eretta. Ma ci vogliono tempo, pazienza, intuizione e intraprendenza. Per il momento il bimbo sembra muoversi a caso, attratto da ciò che desta la curiosità, in uno zigzagare insensato, verso cose che non conosce ancora, lasciando scie di suoni ora gutturali ora tintinnanti o striduli. Spesso inciampa in se stesso: quattro arti non sono facili da coordinare; e allunga la mano illudendosi di raggiungere la lontananza sfocata; e se s’impossessa di un oggetto lo usa in modo improprio, e magari lo rompe; se raggiunge un cassetto aperto, lo svuota senza motivo. Poi, di colpo, s’immobilizza in una meditazione senza pensieri, perplesso e confuso da un mondo molto complicato, che gli sfugge.

Un’agitazione, quella del bimbo, disordinata e inconcludente. Paragonabile a quella del principiante che si ritrova sulla scena, magari sotto un riflettore, con qualcuno che lo osserva, qualcun altro che gli dà istruzioni. Sa che cosa deve fare: assumere una postura, compiere un movimento, pronunciare una frase. Ma non sa come farlo. Brancola in un sentimento composito, come un pasticcio con troppi ingredienti: vertigine, inadeguatezza, imbarazzo, incomprensione, paura. Come qualcuno colto sul fatto durante un’azione riprovevole e vergognosa. Il mio interprete vive il momento tragico con intensità diversa, a seconda della sua personalità. C’è addirittura chi sfodera una teatralità istintiva e accattivante, guadagnandosi gli applausi dei compagni. Ma anche in questo caso il senso di disordine permane. Non c’è armonia tra l’interprete che muove i primi passi sulla scena, lo spazio che lo avvolge e gli dà una consistenza tridimensionale, gli oggetti che lo circondano e lo invitano a interagire, la musica e la luce nelle quali si muove. Come il neonato, egli si pone al centro del mondo e le sue aspettative sono che il mondo si conformi ai suoi bisogni e ai suoi desideri. Non ha esperienza, non ha conoscenze, non ha rispetto per l’ambiente.

Guardatelo: qualsiasi movimento è sgraziato, o inquinato da un utilizzo strumentale degli arti; sia nel silenzio sia nella musica il corpo è una macchina che procede a balzelloni, incapace di volare e di compiere evoluzioni. Guardate il suo viso, come rimane rigido, fisso in un’espressione inespressiva. Osservate quanto è goffo nel rapporto con gli oggetti di scena. Se c’è un sedile, sembra quello di un fastfood, non quello di uno spazio immaginifico. E con i partner? Non sa dove guardare, rifugge dall’incontro degli occhi, e se deve toccare qualcuno è come se volesse aggredirlo. Ascoltatene la voce. Ora un pigolio snervato ora un gridare inconsulto. E quando la luce lo accarezza e la musica tenta di renderlo liquido, il nostro principiante è una roccia sorda, che si muove con passi da troll.
Osservando e ascoltando, si coglie il senso del fare teatro. Non si tratta solo di una questione tecnica: impostare la voce, curare la dizione, addomesticare il corpo al movimento fluido ed espressivo, rendere il viso una maschera mutevole a comando, trasmettere al pubblico la convinzione delle emozioni… Tutto questo rientra nel carattere generale del teatro, quello che lo rende tale. Prima ancora che atto di culto o forma di comunicazione o azione politica o specchio sociale o catarsi o divertimento… Il teatro è prima di tutto riordino del caos quotidiano, nel quale ogni bellezza è svilita e la sintonia con il mondo è inquinata dall’utilitarismo e dal piacere individuale.


Il principiante va preso per mano e invitato a ripercorrere le strade del passato facendole convergere in una piazza di pochi metri quadrati, il palcoscenico. Il corpo, la voce, il movimento, l’energia interiore, l’immaginazione, lo spazio, la musica, la luce, l’immagine, la danza, la parola… si devono riallineare su un unico spartito, che è come dire un unico copione. Il teatro è mettere ordine. Dare un senso estetico al corpo che si muove nello spazio e nel tempo, nella musica e nella luce, insieme ad altri corpi, armonizzando per accordo o contrasto le voci, raccontando storie che si ispirano alla necessità illogica dei sogni, dove ogni cosa è al proprio posto e ha un senso misterioso, che non va indagato, ma accolto. Tutti gli elementi che costituiscono il teatro devono confluire sulla tela bianca, e formare un quadro unitario, la cui complessità si scioglie in una visione semplice. Lo spettacolo di natura è così: ordinato in un ecosistema nel quale anche gli elementi più diversi e dissonanti si armonizzano nell’obiettivo comune: mantenerlo vivo.

giovedì 11 dicembre 2014

ROMEO E GIULIETTA per i ragazzi

Nel programma di PICCOLE DA DONNE, il corso di teatro per ragazzi dai dieci ai dodici anni (che comprende Otello, Yerma, Medea, La locandiera, Eracle) c'è questa riduzione di "Romeo e Giulietta". La pubblico per dare un esempio di come lavoro con i ragazzi.

PICCOLE MA DONNE
William Shakespeare
ROMEO E GIULIETTA (1597) - La vicenda si svolge a Verona nel 1303
Romeo (ANDREA), Giulietta (MARTINA), Capuleti (PAOLO), Nutrice (AURORA), 
Tebaldo (MARCO), Mercuzio (GIULIO), Madre G. (SOFIA), Frate Lorenzo (VITTORIO)


Scenografia: un trabattello mascherato da un telo bianco costituisce il balcone da cui si affaccia Giulietta; offre anche uno schermo per i fuori scena; due cubi bianchi. Costumi: tutti in nero meno Romeo e Giulietta, in bianco.
Sulle note di “Tempus est iocundum” dei Carmina Burana  gli interpreti entrano danzando. Si salutano con inchini ed effettuano stop di tre secondi ognuno a propria discrezione. Si richiedono: riempimento dello spazio, accordo del movimento con la musica, relazioni diverse con i partner, controllo della postura. Quando la musica cessa, si fermano e ruotano lenti la testa verso il pubblico.
TUTTI               Due grandi famiglie, Montecchi e Capuleti, si odiano per un’antica faida nella bella Verona. Dai due nemici nasce una coppia di infelici amanti, Romeo e Giulietta.
La musica riprende, si fa avanti il padrone di casa.
CAPULETI      Benvenuti, signori, nella mia casa! Siete i benvenuti nella casa dei Capuleti. Forza, suonatori! Musica e danze!
La musica si ferma di nuovo, ma tutti riprendono a danzare come prima, lasciando libera la fascia di proscenio. Romeo confabula con Mercuzio.
ROMEO           Che è la dama che danza con quel cavaliere? È una Capuleti? La mia vita è nelle mani del mio nemico.
GIULIETTA     Va’ a domandare chi è quel gentiluomo.
NUTRICE        Il suo nome è Romeo, un Montecchi, l’unico figlio del vostro grande nemico.
GIULIETTA     Unico mio amore, nato dal mio unico odio!
Dal gruppo, ora immobile e attento a ciò che succede, si stacca Tebaldo che va a provocare Romeo.
TEBALDO       Zio, costui è un Montecchi, nostro nemico, furfante venuto per beffarsi della nostra festa.
CAPULETI      Sta’ calmo, Tebaldo. Lascialo in pace. È un giovane virtuoso e ben educato.
Tebaldo lascia Romeo e affronta Capuleti.
TEBALDO       È una vergogna! Non lo tollero!
CAPULETI      Vuoi creare subbuglio tra i miei ospiti? Allegri, dame e cavalieri, allegri!
Gli invitati scuotono la testa e si dispongono con movimenti fluidi e lenti, come nuotando in aria, ai lati del balcone. Si richiede: massimo controllo del corpo e accorto utilizzo dello spazio. Musica di Bernart de Ventadorn, “Bien m’an perdut”.
UNO                 Più tardi, Romeo penetra nei giardini del palazzo e spia Giulietta affacciata al balcone.
Ora tutti formano il CORO, che ripete le parole sottolineate. Si richiede: controllo e modulazione della voce.
GIULIETTA     Ahimé!
Romeo si sporge da dietro il trabattello.
ROMEO           Ecco, parla. Oh, parla ancora, angelo splendente!
GIULIETTA     O Romeo! Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta quel nome, o se non vuoi, legati al mio amore e non sarò più una Capuleti.
ROMEO           Devo rispondere o ascoltare ancora?
GIULIETTA     Solo il tuo nome é mio nemico: tu sei tu, anche se non fossi uno dei Montecchi. Che cosa vuol dire Montecchi? Né mano, non piede, né braccio, né viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome! Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo profumo. Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per il nome, che non è parte di te, prendi me stessa.
Romeo esce allo scoperto.
ROMEO           Ti prendo sulla parola, chiamami solo amore, e avrò un nuovo battesimo. Ecco, non mi chiamo più Romeo.
GIULIETTA     Chi sei tu, che difeso dall’ombra della notte entri nel mio chiuso pensiero?
ROMEO           Con un nome non so dirti chi sono. Odio il mio nome che ti è nemico.
GIULIETTA     Non sei Romeo, uno dei Montecchi?
ROMEO           Né l’uno, mia bella fanciulla, né l’altro, se non ti è caro né l’uno né l’altro.
GIULIETTA     Se ti vedono, ti uccidono.
ROMEO           Se mi guardi con dolcezza, sarò forte contro l’odio.
La nutrice si alza chiamando Giulietta e sale accanto a lei sul balcone.
NUTRICE        Giulietta! Giulietta!
GIULIETTA     Mi chiamano, dolce Montecchi, buonanotte.
ROMEO           Buonanotte, mia felicità.
Una musica moderna di ispirazione medievale: Kingdoms Teutonic Musica, War ok kings. Due va a prendere Tebaldo e Mercuzio e li dispone come manichini con le pose appropriate. Si richiede: pulizia e precisione dei movimenti.
DUE                  Tebaldo è presuntuoso e attaccabrighe, invidioso della buona fama di Romeo. Per strada, insulta Romeo, difeso dall’amico Mercuzio.
Tebaldo mima un’aggressione verbale a Romeo.
MERCUZIO     Tebaldo, sei un acchiappatopi!
TEBALDO       Che vuoi da me?
MERCUZIO     Spicciati a tirare fuori la tua spada, prima che la mia ti piombi addosso.
TEBALDO       A tua disposizione!
Più che un duello, una rissa. Tebaldo colpisce Mercuzio al petto e allo stomaco, Mercuzio si difende colpendolo alla gamba. Tutti bisbigliano eccitati.
ROMEO           Signori, è una vergogna! Smettete quest’oltraggio! Il principe ha vietato i duelli per le vie di Verona.
Tebaldo colpisce Mercuzio con la spada, al rallentatore. Una voce singola grida la battuta, ripetuta dal Coro cupo, levatosi in piedi. Si richiede: espressione di drammaticità.
TUTTI               Tebaldo colpisce Mercuzio.
MERCUZIO     Sono spacciato. Qualcuno mi aiuti.
ROMEO           Coraggio, amico. La ferita non può essere grave.
MERCUZIO     La peste su tutte e due le vostre case! Hanno fatto di me carne per i vermi.
Una voce singola grida la battuta, ripetuta dal Coro cupo, poi tutti crollano a terra. Si risollevano sulle braccia per seguire gli avvenimenti.
TUTTI               Mercuzio muore.
ROMEO           Tebaldo, carogna, dove sei?
TEBALDO       Tu, sciagurato, andrai a tenergli compagnia.
ROMEO           Lo decide la mia spada.
Uno dopo l’altro, da sinistra, si trasmettono la notizia.
TUTTI               Tebaldo muore.
Ora la scena si fa concitata. Si richiede: rispetto dei tempi, prontezza di movimento e concatenazione delle battute.
TRE                   Romeo, scappa! Se ti prendono, il principe ti condanna a morte!
QUATTRO       Romeo deve scappare, ma vorrebbe salutare Giulietta. Nessuno sa che si sono sposati in segreto.
NUTRICE        O, Signore ! Oh, Signore! La morte è la fine di ogni cosa!
ROMEO           Nutrice, hai parlato con Giulietta? Come sta? Che cosa dice la mia sposa segreta del nostro amore distrutto?
La nutrice ripete per tre volte la battuta, ripresa da tutti con intonazioni diverse. Accompagna Giulietta sul cubo collocato a destra. Romeo va dietro il trabattello.
NUTRICE        Non fa che piangere e piangere. Non fa che disperarsi.
Ancora una musica di ispirazione medievale: Sebastiano Occhino Middle Ages Musica, At Frederik’s Court. La madre passeggia avanti e indietro nervosa.
MADRE G.      Ebbene, Giulietta?
GIULIETTA     Signora madre, non sto bene.
MADRE G.      Vengo a darti notizie felici. Giovedì un nobile gentiluomo, il conte Paride, ti prende in sposa nella chiesa di San Pietro.
GIULIETTA     Vi prego, signora madre, dite al mio signor padre che non mi voglio sposare.
Quando entra Capuleti, aggressivo, tutti in piedi, agitati, si spostano dietro Giulietta, la trattengono per un braccio, lei si slancia invano verso la madre, poi la madre e Capuleti vanno dietro il trabattello.
CAPULETI      Come? Che dici? Sciagurata disobbediente! Vieni in chiesa giovedì, altrimenti va’ a fare l’accattona, muori di fame, crepa per le strade, perché io non ti riconosco più.
GIULIETTA     Dolce madre mia, non abbandonarmi.
MADRE G.      Non dirmi niente, non voglio più saperne di te.
Il Coro scorta Giulietta al centro e gli pone di fronte il frate. Poi sistema dietro di loro i due cubi. Sul balcone appaiono i coniugi Capuleti, inespressivi.
CINQUE          Giulietta, disperata, chiede aiuto al suo confessore, frate Lorenzo. Se non trova una soluzione, minaccia di uccidersi.
F.LORENZO    Prendi questa fiala. Bevi la pozione. Il tuo cuore cesserà ogni battito. Per quarantadue ore non ci sarà più né calore né respiro a testimoniare che sei viva.
Mentre SEI espone il piano, stendono Giulietta sui cubi, poi tutti camminano lenti con le braccia sul petto e la testa poggiata sulla mano.
SEI                Il piano è semplice. Creduta morta, Giulietta viene deposta nella cripta. Poi, frate Lorenzo fa venire Romeo di nascosto e i due innamorati se ne fuggono insieme a Mantova.
SETTE              Ma il messaggero viene bloccato dalle guardie. Romeo sente dire che Giulietta è morta. Si procura un veleno e si precipita a Verona. Vuole suicidarsi nella cripta.
Ancora una musica del trovatore Bernart de Ventadorn, Can vei la lauzeta. Romeo s’inginocchia dietro Giulietta.
ROMEO           Ah, Giulietta cara, sei ancora così bella! Resterò per sempre con te. Occhi, guardate per l’ultima volta! Braccia, prendete l’ultimo abbraccio! Ecco, al mio amore! Così, con un bacio, io muoio.
Tutti immobili con le braccia tese verso Giulietta.
OTTO                Al suo risveglio, Giulietta si ritrova accanto il cadavere di Romeo.
GIULIETTA     Che cos’è questa fiala? Veleno. Non me ne hai lasciato nemmeno una goccia, per aiutarmi a seguirti? O felice pugnale! Lascia che io muoia.
Stendono sui due un telo nero.
TUTTI               Questa mattina porta con sé un lugubre silenzio. Non vi fu mai storia più dolorosa di questa di Giulietta e del suo Romeo.

martedì 9 dicembre 2014

TEATRO ALL'OSSO

Tanto teatro, ma non diventa troppo. Tempo fa non l’avrei sostenuto, mi sarei ingarbugliato nei rovi e sarei inciampato sulle radici affioranti, avrei preso i rami bassi in faccia,  sarei caduto sui sassi. Oggi cammino abbastanza spedito nella foresta delle scene e nell’intrico della recitazione, nonostante che gli interpreti non siano attori in quanto non hanno alcuna preparazione.
Teatro di fortuna, il mio. Nel doppio senso di speranza di incappare in interpreti istintivi, che sentono i ritmi, e sanno come esprimere emozioni, e si rapportano ai partner, e hanno una percezione innata dello spazio; e nel senso di fortunale, tempesta, burrasca che prima o poi finisce e il cielo schiarisce e il sole mostra l’isola del debutto, sulla quale i naufraghi trovano conforto e gioia.

Vediamo un po’. Collaboro alla nuova produzione di Tecneke, Un’altra Eva. Due atti molto comici. Difficile, la comicità, più difficile del dramma. Se non si azzecca la giusta condotta in scena il pubblico si raffredda e si estranea; mentre su una scena tragica male interpretata storce il naso e aspetta di vedere il seguito. Finora, tutto bene.

Il gruppo di Piccole ma donne è una sfida: affidare a bambini dai nove ai dodici anni testi di Euripide, Shakespeare, Goldoni, Lorca… Ho già un rifiuto: non riesco a memorizzare Yerma, è difficile. Lo studio a memoria nella scuola è declassato. Un’attività del passato che non è più giudicata produttiva. Ahi ahi, maestre, ahi ahi. A livello interpretativo, per il momento non emergono difficoltà specifiche. Entusiasmo per Romeo e Giulietta, il che consolida l’opinione che i preadolescenti sono molto interessati all’amore in tutte le sue sfaccettature. Forse ne sentono il bisogno. Abbiamo provato la scena del balcone un paio di volte. Il balcone è il trabattello che sta facendo un ottimo servizio (per Un’altra Eva è il cielo da cui emerge l’angelo; per Eracle il palazzo da cui si affaccia il tiranno Lico…). Giulietta è fresca, il suo innamoramento è spontaneo e sbarazzino, non certo passionale; Romeo si muove tra la folla seduta sul pavimento che ascolta con attenzione il dialogo. In pochi minuti si condensa l’opera di Shakespeare, dalla festa nel palazzo dei Capuleti al finale nella cripta. Un Reader’s Digest drammaturgico? No, di più. La ricerca di una sintesi emotiva che poggia sulla sinergia espressiva di voce, movimento, spazio, musica. Anche Otello ci regala emozioni. Non c’è difficoltà di comprensione, da parte dei ragazzi, che anzi sono affascinati da queste scorrerie nel mondo adulto. I testi sono ridotti e adattati, in modo da semplificare la sintassi e il lessico; e questo consente di entrare meglio in sintonia con i loro ritmi, dato che a undici anni non c’è il tempo lungo del monologo shakespeariano. Parola e azione dai tempi rapidi, variazioni continue, sincronia e sintonia. La scelta testuale consente di affrontare la questione della scenografia, dei costumi e delle musiche. Impensabile uno stile mimetico, e nemmeno di coerenza storica. Si va alla ricerca di suggestioni semplici: un drappo, un colore, un oggetto. E la colonna sonora mescola senza timidezze un minuetto a un brano punk.

Poi c’è Ragazzi coraggiosi. Con una classe quinta. Tre quadri per raccontare le ansie di un bambino Al primo giorno di scuola media: la casa (con i Disastri e i Ladri), la strada (con le Automobili e le Perturbazioni) e la scuola (con la prof.ssa Lastrega e la bidella Licantropa). Anche qui, il ricorso continuo a coreografie, musiche in piena libertà, effetti sonori, sorprese collaudate (palloncini colorati, automobiline elettriche…). Il teatro come un videogioco veloce e divertente.

Segue Rospo. Una prima media. Diversità e bullismo. Tre streghe minacciate di rogo fanno un incantesimo che colpisce uno sprovveduto ragazzino lì per caso. Ne esce con la faccia verde e si ritrova in un altro tempo e in un luogo sconosciuto. Viene preso di mira dai bulli, ma le streghe tornano per aiutarlo. Nell’esplorazione iniziale c’è timidezza, paura di esporsi di fronte a un pubblico. Alla prima prova, quando sentono che la musica è la loro musica, che la gestione del corpo è ludica, che si tratta di un gioco entusiasmante… tutti partecipano con brio e interesse, e si divertono.

Con ben sette lettori e un suonatore di tablas indiane metto in scena una lettura di Eracle di Euripide. Anche in questo caso ho operato aggiustamenti del testo, accorciando e semplificando, in modo che la lettura espressiva sia facilitata e sia più comprensibile. Una semplice coreografia dell’insieme, con piani diversi (il citato trabattello) e spostamenti, attenua la monotonia della lettura, mentre la ritmica dei tamburi e la suggestione della musica registrata appoggia il recitato. Una serata precedente serve a illustrare il quinto secolo in Grecia (storia, pensiero, arte e letteratura) e la struttura della tragedia.
Tra poco Tecneke si prepara alla serata sulla “famiglia fantasma”,  ovvero sulle unioni civili. Letture di brani sull’affettività omosessuale. Anche qui, tornare alla parola antica, che non era solo declamata, ma cantata ed espressa con il corpo in movimento.


In prospettiva, forse la riedizione di Mamma mammazza. E qui davvero scandaglio lo scheletro del teatro. Un teatro quasi senza scenografia, senza un forte supporto tecnico, senza un luogo adeguato in cui provare, senza interpreti con una preparazione sia pur minima, senza possibilità di repliche (teatro dell’effimero, spesso si esaurisce  con il debutto), senza recensioni e senza riconoscimenti. Eppure, nonostante i limiti notevoli, non me la sento di declassarlo ad attività del tempo libero. Si fa teatro con niente come lo si è sempre fatto prima del proliferare degli edifici privati e delle scuole di formazione dell’attore. Un teatro senza la presunzione e la prosopopea intellettuale del divismo, e per fortuna senza il formalismo e l’ipocrisia del foyer. Un teatro, però, che non annoia. Forse perché non pretende di cambiare il mondo, ma solo di raccontare quanto il mondo è vita, e quanto la vita è movimento e suono, ritmo e musica, sinergia e cooperazione.   

mercoledì 3 dicembre 2014

L'ULTIMA FERMATA

Una storia che non è la storia lineare di un film per la televisione lento e realistico, fotografico e misurato sia nell’estetica sia nell’espressione di sentimenti condivisi e alla fine rassicuranti. L’incontro tra due donne tanto diverse può risolversi in un nulla di fatto, come tutti i giorni avviene nelle nostre strade, alle fermate dei mezzi pubblici, nei centri commerciali. Ma può anche innescare una rivelazione, ed è ciò che avviene ne “L’ultima fermata”.

Mara è una donna clone, identica a milioni di altre donne che nell’omologazione s’illudono di una propria originalità, fondata sulla moda intesa come: è così che si fa. È così che ci si veste, che si trascorre il tempo libero, che si sceglie chi frequentare, che ci si esprime, che ci si atteggia. Una vita scandita dagli altri, tanto più vissuta quanto più è priva di autenticità. Vita di certezze, di giudizi lapidari, di atteggiamenti approvati e livellanti. Vita di soddisfazioni e felicità date per acquisite e inestinguibili. Una vita come premio per millantati meriti. Una vita che prevede la ripartizione della società tra privilegiati predestinati e disgraziati nel cui destino oscuro si celano misteriose e arcane colpe. Una vita, infine, di estrema visibilità conquistata con tenacia e fatica, dai salotti ai social network, dallo shopping ai cellulari.

L’improvvisa scoperta della solitudine apre la porta della disgregazione universale. Tutto crolla, quando Mara si vede riflessa in uno specchio che non è quello deformante dell’edonismo, ma quello della realtà nuda e cruda.
Inciampa in una se stessa inattesa e insospettata: abbandonata dagli amici, messa da parte dal resto del mondo. S’imbatte nell’angoscia, e non ha più punti di riferimento.

Un percorso che la profuga incontrata alla fermata dell’autobus conosce bene. Evento traumatico, dolore insostenibile e disperazione, il prodigio di nuove energie per continuare a vivere, e poi la presa di coscienza di uno stato di invisibilità che funziona sì da anestetico, ma costringe a una vita vegetale.
Per sfuggire a ogni forma di invisibilità (da quella imposta dagli altri a quella che ci costruiamo noi stessi per sfuggire alla desolazione e alla sofferenza) non rimane che mettersi in viaggio.
Le due donne, però, non possono fare affidamento su un autobus che non si ferma, dato che il conducente nemmeno le vede.

Devono lasciarsi alle spalle le sovrastrutture e il passato e avviarsi con l’unica risorsa della solidarietà verso un posto che forse non esiste, in una realtà di egoismi ed emarginazioni. Un posto, tuttavia, che possono inventarsi altrove, sempre altrove. Creato dall’immaginazione e dalla libertà interiore, e da quella tremenda voglia di vivere che rispunta anche dopo il lutto più devastante.