giovedì 21 giugno 2012

LA DRAMMATURGIA DELLA MISURA


Il nostro tempo quotidiano può essere vissuto in più modi, tra i quali:

1)      Una scansione esteriore, sulla scia di costumanze e di volontà altrui (massmedia, famiglia, cultura, leggi…)
2)      Una scansione dell’attesa, di una palingenesi che rimetta tutto in gioco e risolva i problemi
3)      Una scansione incoerente e nichilista, in cui niente ha valore e tutto fluisce indistinto
4)      Una scansione interiore, fondata su criteri personali, ma interconnessa con il mondo


Nel primo caso, la durata di una conversazione non dipende da noi, ma dalla qualità dell’interlocutore e dall’importanza assunta dall’argomento in relazione ai condizionamenti sociali. Se nella gerarchia sociale l’interlocutore è su un gradino più basso, siamo noi a gestire il tempo e a decidere come e quando staccare; ma se è su un gradino più alto, dobbiamo subire una volontà esterna. Il tempo si coniuga con l’idea di dovere, per cui si dedica più tempo alle persone o alle attività che s’inseriscono nei doveri primari (famiglia, lavoro, civismo). Sorge la difficoltà di creare un equilibrio tra i diversi ambiti (vasi comunicanti e vasi non comunicanti). Se per esempio trascuro l’educazione dei figli per il lavoro, mi rimane la consapevolezza di un’infrazione e di una disarmonia. Chi rifiuta di colpevolizzarsi finisce con lo scaricare sugli altri, creando tensioni e conflitti. Il nostro tempo di vita è dominato dalle regole, dalle convenienze, dalle formalità, dai legami, dalle ambizioni, dagli affetti, dalle necessità. È un tempo politico, che subisce mutazioni a livello sociale (cellulari, televisione, pendolarismo, disoccupazione…).
Il tempo non appartiene al soggetto, che ne fa un uso subordinato.
 DRAMMATURGIA DELLA DURATA SUBORDINATA
Il drammaturgo, nella scrittura dei dialoghi, fotografa la realtà, riportando nella propria drammaturgia le esigenze di sviluppo del parlato e dell’azione in quanto legati alle strutture sociali e ai codici in uso. Può muoversi tra il naturalismo e l’indagine psicologica effettuata però sempre con gli stessi codici: i personaggi indagano sé stessi e gli altri per mostrare quanto dei mondi interiori non traspare dalle conversazioni e per svelare le motivazioni e gli obiettivi delle azioni.
Alla parola spesso si unisce il silenzio, metafora di quanto la parola non riesce a comunicare.
Il testo si fa “pirandelliano” e tratta di inconscio o mito senza lasciare il salotto borghese, le sue convenzioni, il suo linguaggio. La parola predomina sul corpo e sul ritmo. Il drammaturgo-esegeta interpreta il proprio tempo e fornisce accurate e affascinanti interpretazioni razionali della realtà e della società. Il suo è un vero e proprio mestiere e con i collaboratori ha relazioni puramente professionali.

Nel secondo caso, il tempo viene strutturato in modo frettoloso e non approfondito, invitato a divorare sé stesso per condurre il più in fretta possibile là dove si ritiene che si trovi l’unica cosa desiderabile.
Ne nasce un confitto: più il tempo accelera più si fa passato, riducendo la potenzialità del futuro. Il presente si fa angoscioso. Diventa difficoltoso stabilire relazioni funzionali e serene con le persone, con gli oggetti e con le attività. Niente può dare soddisfazione quando l’illusione, la speranza ossessiva, la fede in qualcosa di trascendente capace di dare un significato al tutto e di assicurare la felicità.
In alcuni momenti la durata è convulsa, in altri rallentata fino a potersi definire comatosa. Essa non dipende dalle relazioni sociali o dalla tassonomia delle attività, ma dalla sua funzionalità nei riguardi delle aspettative.
C’è un progetto di vita al quale si subordina ogni altra cosa. C’è quindi anche un settorialismo, una specializzazione che limita lo sviluppo dell’attenzione e dell’interesse verso altri campi.
DRAMMATURGIA DELLA DURATA FINALIZZATA
Le convenzioni vengono stravolte, in quanto i dialoghi devono essere impregnati di ideologia, fede, messaggio, dottrina… La realtà subisce una semplificazione, la scena si fa didascalica. Non conta tanto l’espressione individuale, quanto quella di gruppo o di componente sociale. Il livello artistico viene subordinato all’efficacia della comunicazione. Si fa leva sulla razionalità o su emozioni e sentimenti semplici e ben definiti. Il linguaggio può fare uso di retorica, iperbole, allegoria, invettiva, enfasi… Il livello politico o religioso della rappresentazione soffoca quello artistico. Il drammaturgo-profeta è impegnato in una missione ora tra piccoli gruppi sociali ora a favore dell’umanità intera. Con i collaboratori fonda un gruppo che è comunità, in cui le esigenze personali vengono in apparenza subordinate agli obiettivi primari. Egli è portatore di rivelazione.

Nel terzo caso, il tempo è il nemico. Esso invita attimo dopo attimo alla comunicazione e all’attività, quando invece si ritiene che non vi nulla da dire e che non valga la pena di fare niente. Il tempo svuotato si vendica creando un effetto durata infinita, in cui perdersi come in un delirio. Si cerca l’obnubilamento e si evitano tutte le occasioni di coinvolgimento. S’instaura un livello massimo di interiorizzazione, e il conflitto nasce dal voler vivere ogni cosa in prima persona e dal rifiuto di vivere. Tutto viene riportato a sé stessi senza voler dare una risposta mentale o fisica, a parte le reazioni inconsulte e spropositate. Si vuole vivere senza vita e si cozza contro l’impossibilità di rendersi assenti in vita.
DRAMMATURGIA DELLA DURATA INSENSATA
Il drammaturgo non intende fare uso di un linguaggio codificato. E nemmeno subordinare il linguaggio a un messaggio, un’invettiva, una critica. La sua scena può essere fuori del tempo e in uno spazio non identificabile. I suoi personaggi sono emblematici. L’urgenza del dire prevale sulla sistematicità dei contenuti. L’approfondimento è vissuto come inutile e dannoso all’efficacia estetica.
Il tempo subisce deformazioni dovute a scelte impulsive e giustificate solo dal fatto di essere scaturite dalla sua creatività. Il drammaturgo non sviluppa il controllo su sé stesso e sulla propria produzione. Vive l’autocritica come attacco alla propria integrità.
 Il drammaturgo-artista ha difficoltà di relazioni con tutti, dal regista all’attore, dal critico al pubblico. Ciò di cui non vuole prendere coscienza è che al di sotto delle formule provocatorie, originali, avanguardistiche, innovatrici… ci sia in realtà un vuoto di vita.

Nel quarto caso, il tempo non è vissuto come flusso unidirezionale uniforme e continuo, ma come categoria dell’esistere legata allo spazio, alla percezione, allo stato d’animo, alla comunicazione. Come per magia il tempo perde ogni rigidità e il flusso ininterrotto può rallentare, mettersi in pausa, o accelerare quasi a comando. Nel nuovo flusso del tempo le metamorfosi della materia non sono vissute come declino e deterioramento, ma come compenetrazione del tutto nell’uno e dell’uno nel tutto.
L’inevitabilità temporale della vita è vissuta con serenità e se ne fa anzi motivo di comprensione allargata. La scansione come accettazione elimina l’ansia e instaura reciprocità: l’uomo che si inchina al tempo, vede il tempo inchinarsi a lui.
La durata delle cose non è quindi opprimente o svuotata, ma sempre ricca di significati. Ciò che si scopre e si accetta è un grado di comprensione più alto di ogni singola ideologia. La spiegazione degli eventi non è storica, né geometrica. Si rifiuta la facile razionalizzazione e si accetta la dimensione della non-sapienza e del mistero, senza però proiettarlo nel divino.
DRAMMATURGIA DELLA MISURA
Il drammaturgo-narratore scansiona l’opera secondo un tempo interiore interconnesso con la realtà. Egli, più che spiegarla, vuole raccontarla facendo uso di tutte le potenzialità linguistiche. Evita quindi di farsi limitare dalla coerenza storico-geografica del personaggio, rifiutando un linguaggio mimetico che più che vivo lo renderebbe fotocopia del reale. Insieme al personaggio cerca modalità ritmico-espressive per raccontarsi. Lo scorrere naturale del tempo non impone obblighi, se non quello di dare coerenza espressiva alla vicenda. Il tempo ora sembra fermarsi, ora subisce brusche accelerate; oppure si rende assente e poi ricompare per rassicurare lo spettatore. Le chiacchiere da salotto vengono prosciugate e le parole selezionate ignorando le convenzioni. I personaggi raccontano sé stessi senza bisogno di didascalie e il loro fraseggiare non risulta mai inutile o ridondante. La narrazione non ha lo scopo di rassicurare lo spettatore e di fargli da ninna- nanna, ma di scuoterlo, di emozionarlo, di riportare l’attenzione persa sul cuore della questione, di interessarlo ad aspetti nuovi, di toglierlo dall’apatia e dall’atteggiamento freddo, distaccato, acritico.
La narrazione è emozionante, ma non si fa travolgere dalle emozioni. La misura è nelle parti, nella dizione, negli effetti, anche quando la scena è violenta e impressionante.
La misura è equilibrio e armonia, espressi attraverso la libertà d’espressione, il gioco, l’invenzione linguistica. Essa mostra uno sguardo disincantato sul mondo, spietato come le lenti di un obiettivo, empatico come quello di una madre, ardito e concreto come quello di un padre.
Il drammaturgo, infine, dilata il tempo fino a concepirlo nella sua totalità. Ogni evento si pone fuori della storia e allo stesso tempo si fa sintesi di tutta la storia umana. Non scrive di salotto, ma di pianeta.
La sua scansione è piena di vita perché prende l’avvio dalla morte.
  


sabato 16 giugno 2012

SCRIVERE E GIARDINARE



Sono le venti, una sera calda, estiva. Il giardino è un trionfo. Io, al trionfo, strappo erbacce in continuazione. Bagno i vasi, trapianto il goyi, metto a dimore le due cimicifughe  e i due ibisco cinesi di Betti. Ho raccolto zucchine, cetrioli e rucola. Finite le bacche di amelanchier, ho ancora ribes rosso e nero, i lamponi e le fragole; e proprio stamattina ho mangiato i primi mirtilli. Stanno crescendo le banane dell'asimina, il pawpaw dei nativi americani; i fichi, le pere e le prugne. Generoso, il mio giardino. Ci saranno poi le nespole e i cachi.
Ogni giorno faccio il giro delle piante, dei cespugli, dei fiori... e non parlo loro, no. Come non parlo con gli animali. come cerco di parlare poco con gli umani. Le guardo, le penso, mi sforzo di intuire le loro necessità: terreno, concime, pacciamatura, acqua, ombra o sole, potatura... 
Insieme alle piante, dentro di me porto la scrittura. Finalmente il quarto libro di Albino si è sbloccato. Sono a due terzi e mi dà soddisfazioni. Se sia un buon libro o meno non lo so, qualcuno me lo dirà. Non ci scrivo per molte ore al giorno, non serve. La scrittura intensa sfibra, ma soprattutto deve essere prima rimuginata, in modo che esca dalla tastiera già pronta per la stampa.
Osservo le piante, le controllo. Osservo le pagine scritte e opero un controllo continuo, in ogni ora del giorno. ripenso agli eventi, ai personaggi, alle emozioni cedute alla pagina e che dalla pagina dovrebbero poi trasmettersi al lettore. Un libro lo faccio così, portandolo in me anche quando vado in paese in bicicletta, o mentre mangio e guardo la televisione, e anche mentre leggo cose di teatro (leggo, cambio direzione, penso, sogno, il libro si fa avanti in ogni situazione, prepotente).
Vado a letto e sogno il libro; mi sveglio al mattino e sogno il libro. Tanta elaborazione mentale (niente di sturm und drang, tutto è lento e pacato) fa sì che quando mi siedo davanti al portatile, nella veranda a nord, su cui sta piovendo un tramonto di velluto che indora le piante grasse e le succulente (tra gli ultimi acquisti, un baobab alto venti centimetri che sta fogliando, un'emozione), le parole ci siano già, pronte a splendere, nere e fitte come formiche impietrite nell'estasi, sullo schermo.


















E parola dopo parola la fatica sottile ed estenuante fa scalare pagine, e poi capitoli; e quando arriverò alla fine dirò a me stesso: finalmente, ma con un dispiacere acuminato.
Dovrò andare subito in cerca di un altro libro. Ogni spazio temporale vuoto di scrittura è come terra incolta, la guardo e mi dico: lì bisogna che ci pianti qualcosa. altrimenti, la terra non ha senso. e così la vita, se non incido parole su questo fondo bianco marmoreo, una lapide.
Il libro s'intitola I PIACERI DELLO SCUDO E DEL PORPORA.

mercoledì 13 giugno 2012

CANICANI: LA RECENSIONE DI KAIROS E ALCUNE FOTOGRAFIE MOLTO BELLE.
KAIROS
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di Aquilino | regia Stefano de Luca | con Enrico Ballardini, Tommaso Banfi, Matteo Barbè, Marta Comerio, Carlo Ponta, Annamaria Rossano, Fabio Zulli Musiche di Marco Mojana
Un televisore, una famiglia e noi, che stiamo a guardare.
Siamo spettatori sospesi, davanti alla meno ovvia crudeltà della nostra società. Un puzzle di comportamenti comuni racconta il karaoke avaro e l’oblio quotidiano di cui sospettiamo di far parte.
Intelligente. Ironico. Un teatro musicale amaro che ha molto da dire.
Un casting di prestigio e una ricerca in divenire, parte di una trilogia dal gusto acerbo e pungente.
Uno spettacolo vibrante che ci segue, anzi ci insegue nei passi dopo la scena e dopo la porta del suo teatro con una verità eccessiva raccontata senza esagerazioni.
Riderete, vi chiederete perchè e dopo vi domanderete se “vi ci saranno volute le frustate per svegliarvi”.

venerdì 1 giugno 2012

CANICANI quest e lettera di uno spettatore

Marta Osti ha elaborato la semplice scheda proposta agli spettatori, contenenti trenta parole da cerchiare a piacimento. La scelta vede ai primi posti: angoscia, repulsione, divertimento, fastidio, rabbia, sconforto, compassione. Ci ritroviamo il mix spiazzante dei primi due spettacoli, soprattutto di MAMMA MAMMAZZA, quando molti spettatori non sapevano se fosse lecito ridere, e fino a che punto, dato che divertimento e dramma si contendevano la scena. Di sicuro il pubblico si è sentito coinvolto e ha vissuto lo spettacolo in modo conflittuale, ritrovandosi nell'animo sentimenti ed emozioni contrastanti. 
Questo coinvolgimento non porta alla catarsi aristotelica, ma lascia un senso di disagio che diventa il ponte tra il teatro e la realtà. Il teatro diverte, affascina, stupisce, ma non distoglie dalla crudezza e dalla verità di una realtà quotidiana che molti spettatori preferirebbero ignorare.
Infatti, come era già accaduto per VERGINELLA, subito dopo nella graduatoria di parole troviamo speranza e incredulità.
Speranza perché, anche se non è esplicitata nel testo o nella rappresentazione, costituisce sempre un bisogno ineliminabile, quasi una sfaccettatura dell'istinto di sopravvivenza che ci tiene lontani dalla disperazione; e incredulità perché tutto quello che di orribile ci passano i mass media sembra essere meno efficace del teatro.
Di fronte a pedofilia, violenze in famiglia e sistemi sociali prevaricatori e schiavizzanti, le persone mostrano una mancanza di conoscenza poco realistica e una volontà di ignorare, a difesa di un Io con tendenze schizofreniche. La realtà è tale per come la vogliamo, non per come è.

Questa è la lettera di uno spettatore qualunque, non di un critico o di una persona di teatro.

"Se qualcuno dovesse chiedermi se la rappresentazione “CANI CANI” sia stata di mio gradimento credo che un SI o un NO sarebbero estremamente riduttivi; per questo trovo geniale il questionario che hai proposto a fine rappresentazione. Ma andiamo avanti, non voglio iniziare facendo il lecchino.

Definire bello il quadro “Guernica” di Pablo Picasso è banale, quanto potrebbe essere banale definire gradevole “Arancia meccanica” di Kubirik, ma entrambi sono capolavori in quanto esprimono splendidamente i concetti di odio e violenza.
Non mi aspettavo assolutamente nulla di quanto ho visto prima di mettere  piede in teatro, e durante i primi quindici-venti minuti di rappresentazione mi sono sentito particolarmente infastidito dal pesante turpiloquio, come se io stesso non lo usassi continuamente tra amici e colleghi, o come se non fossi abituato a sentirlo in televisione o al cinema. Forse, agli attori di cellulosa, o a quelli che fanno visita via cavo nelle nostre case, così astratti, tutto è concesso.
MA AGLI ATTORI DI TEATRO NO!
LORO, che sono cosi vicini allo spettatore, così PALPABILI,  NO!
LORO DEVONO COMPORTARSI BENE. LE PAROLACCE NON SI DICONO.
Bel discorso da bigotto.
Ad un certo punto però, quatto quatto, piano piano…
SLAM!
E’ arrivato lo schiaffo in faccia.
CHE MALE!
Simile allo schiaffo di un padre che ti colpisce per farti capire.
OH! SVEGLIA,
scendi giù dalle nuvole: ieri un padre ha buttato i due figli dalla finestra, l’altro giorno un baby sitter ha violentato una bambina di tre anni, TRE ANNI CAZZO! Genitori che mandano le figlie a prostituirsi per farsi due righe, ci si ammazza per un posto auto, si muore a vent’anni per una pasticca. Il telegiornale ci fornisce un copione a prova di censura…….
PERO’ SENZA PAROLACCE!

Credo di aver assistito a qualcosa che non avevo mai visto prima:
ci sono film o rappresentazioni teatrali che piacciono per quelle due ore, ma poi non lasciano nulla; altri, che non riesci a toglierti dalla testa, neppure quando torni a casa a dormire, e neppure il giorno dopo e quello dopo ancora. “CANI CANI” è uno di questi.
La mia riflessione è fresca fresca, sto scrivendo di notte, durante una pausa sul lavoro.

Impegno quotidianamente il cento per cento della mia vita alla MIA famiglia, è il valore in cui credo di più in assoluto, quindi pensa che colpo trovarmi di fronte a QUELLA  famiglia.

Tatù: un lurido porco schifoso e incestuoso dal turpiloquio facile (mondo sputo è quella che mi è piaciuta di più) interpretato in maniera magistrale.

Chicce: uno schifo di madre, simbolo di uno stile “ velinista” che sta distruggendo i migliori valori.

Burgo: cinico mercante di esseri umani, viscido.

Lo: Bastardo impotente che ha sostituito il suo pene con il cannone, bambino che non vuole crescere e gioca ancora con le armi. Uff! quanti ce ne sono in giro, poi se non è una pistola è una play station, ma il concetto non cambia.

Canbet: la vera madre, lo si vede nell’istinto protettivo nei confronti di cancion: PRENDI ME AL SUO POSTO MAMMA! Disposta a morire per l’amato fratello.

Cancion: che affronta il tema della morte con struggente poesia e che non viene rispettato neppure dopo morto.

Canfil: forse la più vittima fra tutte, che al contrario di Cancion e Canbet non può neppure godere dell’amicizia-complicità tra fratello e sorella, forse per questo li tradisce raccontando della gravidanza allo zio. Toccante l’indifferenza con cui descrive a Canbet la morte di Cancion.

Non posso fare altro che complimentarmi con tutti voi e confesso che mi spiace non aver assistito alle altre due rappresentazioni della trilogia."

Maurizio Costa