mercoledì 12 novembre 2014

TEATRO, SPAZIO, PUBBLICO

Ieri sono stato all’Attico delle Arti di Novara per una collaborazione. Al termine corridoio sul quale si aprono le aule per i corsi di musica, danza e canto, si estende sulla destra un salone largo otto metri e lungo una decina. Addossati alle pareti sul fondo pannelli neri telati alti due metri e mezzo, a metà circa della lunghezza un carrello di luci al soffitto, sui lati pile di sedie nere. Un ampio rettangolo a tre dimensioni nello splendore del vuoto, come l’alba di un nuovo giorno non ancora reso caotico dalle azioni umane. Il contrario di una creazione biblica: non dal caos all’ordinamento dell’universo, ma dall’ordine della mancanza di vita verso il caos del noto e del convenzionale, per ricercare un ordine pregno di vita. Quello era un teatro. Più che il pomposo grande teatro di città con il velluto rosso e la poltrona imbottita. Un teatro libero. L’ordine provvisorio da riportare al caos per far rinascere l’universo. Non ci sono poltrone avvitate al pavimento, né distanze chilometriche tra attori e spettatori, né impianti faraonici di scenografia e illuminazione, né schiere di tecnici, né budget milionari, né supporti politici e mediatici, né serate di gala per pubblico selezionato…
Nel teatro tutto è semplice e immediato, e tutto è da fare.
Osservo la sezione di rettangolo adibita a palcoscenico, priva perfino di pedana. La si può comunque sistemare, ce ne sono nel locale adiacente. Un rettangolo minore inscritto nel rettangolo maggiore. Una pagina bianca sulla quale scrivere con il movimento, la voce, la luce.
Immagino di spostare i pannelli a libro. Ogni spostamento crea relazioni diverse tra i pannelli e lo spazio vuoto, determinando varchi, corridoi e aree di diversa dimensione. L’aggiunta di un trabattello mascherato sul fronte e di cubi e pedane offre la risorsa della verticalità praticabile. Drappi sui pannelli aggiungono il valore metaforico dei colori, mentre i vuoti riempiti con strisce di cellofan aprono porte sul vedo-non vedo, sull’indistinto, sul lontano-nel vicino.
La seduzione è operata dall’intersecarsi degli spazi in una tridimensionalità vitalizzata dall’attore, che non ha bisogno di fondali realistici e arredi, ma solo di itinerari e forme solide per le interazioni fisiche. Voce e gesti creano illusioni e danno forma immaginativa alla realtà sottintesa dal testo.
La luce soccorre a modificare lo spazio che altrimenti rimarrebbe paralizzato nella forma iniziale. Variazioni di angolazione e di intensità, oltre che di colori, modellano le dimensioni e suggeriscono ora spazi aperti ora angusti, facendo assumere agli oggetti espressioni mutevoli.
L’attore non instaura un rapporto di sfruttamento passivo con ciò che ha intorno a sé (pannelli, spazi, oggetti, luci), ma considera ogni elemento scenico come un partner con il quale interagire alla pari. Egli si accosta a una sedia, la saluta e pensa: che cosa posso fare con te? che cosa possiamo fare insieme? Movimenti, gesti e voce entrano in sintonia con le materie della scena e fanno qualcosa con loro, rendendo partecipe del rapporto la musica. Ecco, c’è tutto. Un attore adattabile, uno spazio duttile, un oggetto divergente, una musica ispirata dal/dedicata al “fare”.
Sinonimi di fattivo: attivo, costruttivo, determinante, efficace, efficiente, concludente, conclusivo, alacre, operativo, sbrigativo, produttivo, fruttifero, positivo, utile, decisivo, risolutivo, valido, energico, funzionale, funzionante, proficuo, redditizio, benefico, spicciativo.
E i suoi contrari: controproducente, dannoso, improduttivo, inane, comodo, disimpegnato, fiacco, impotente, inadatto, inefficiente, morto, ozioso, passivo, quieto, controindicato, deleterio, negativo, nocivo, abulico, apatico, astenico, flemmatico, lento, svogliato, inefficace, inutile, sterile, vano, disfatto, enervato, esausto, fiaccato, inerte, molle, moscio, sfinito, spossato, stremato, svigorito, ammosciato, spompato, accademico, fine a se stesso, salottiero, debole, ignavo, indifferente.
In questo teatro, i contrari di fattivo indicano: la scenografia estetica e non funzionale, l’arredo di scena realistico, la recitazione del dire e non del fare, l’interpretazione narcisistica da applauso, un rapporto con il pubblico clientelare…
A volte penso che Stanislavskij abbia operato una vera e propria rivoluzione, ma che anche questa, come tutte le rivoluzioni, sia poi degenerata in un formalismo unidirezionale responsabile di attori dalla bravura straordinaria, ma irritanti. La scuola americana dell’Actors Studio rifornisce lo schermo di interpreti maniacali, tanto bravi e tanto chiusi nel proprio egocentrismo da rendere conflittuale il rapporto con il pubblico. L’attore viene amato/odiato perché ciò che fa è diretto più alla soddisfazione dello specchio che alla comunicazione con sé e con il mondo.
Nel teatro fattivo il pubblico prende posto nei due terzi del rettangolo che non sono scena, ma che possono essere invasi dalla scena in una dilatazione dello spazio fantastico eccezionale e momentanea. Esiste lo spazio del pubblico, ma non il pubblico in sé, dato che per l’attore si riduce a uno spettro seduto di fronte, privo di lineamenti. Lo spettro è sia lo sconosciuto sia la proiezione dell’attore, che recita a se stesso una storia.

Questo è il vero rapporto tra attore e pubblico nel teatro fattivo. Un rapporto non necessario, poiché l’attore è sacerdote e vittima, fedele e dio. Prima che a un pubblico di carne, egli recita a un pubblico ideale. Questo non significa un pubblico perfetto. È il pubblico indefinibile della comunicazione in sé, non legata a un destinatario e a un ricevente, e nemmeno anonima come il target della comunicazione di massa, ma costituita dallo sdoppiamento dell’attore, che è sempre interprete e fruitore della scena, ossia attore e pubblico.