La recente rappresentazione di “Le Baccanti” di Euripide con sedici
ragazzi dai dieci ai tredici anni mi ha convinto della possibilità e
dell’efficacia di continuare su questa strada. Un’altra tragedia greca, quindi,
che affascini e stimoli alle domande e alla riflessione. L’autore? Euripide, non
ho dubbi. L’opera? Medea. Ma perché Medea? Le tematiche proposte sono quanto
mai attuali.
Medea è una donna di successo: bella, figlia di un re, discendente del
dio Sole, dotata di una sapienza che sconfina nella magia. Nata per mediare tra
natura e civiltà, razionalismo e potenze ultraterrene e sotterranee,
all’improvviso scombina ogni gioco, mettendo a rischio certezze e sicurezze. La
crisi è determinata da Afrodite, che colpisce senza pietà, rendendola succube
dell’eroe greco sbarcato nella Colchide.
Il buonsenso le dice di sottrarsi a un amore senza futuro, ma come può
una maga chinare il capo di fronte alle leggi umane? Sfida anche quelle divine,
ponendo la passione davanti a tutto.
In una società in evoluzione, sempre più dominata dai viaggi di
conquista e dalla fama eroica, che pone le basi per un disastro totale che
aprirà alla democrazia e al colonialismo non solo commerciale, ma anche
culturale, Medea è una Dea Madre che vede restringersi il proprio ambito e
profilarsi una dominazione maschile che dura tuttora.
Sfida il re suo padre, causa la morte del fratello, tradisce le
proprie origini per affidarsi a una società diversa che non la ospiterà come si
illude, se non in un ruolo subalterno. Esasperata, riscopre energie assopite, vede
nello specchio la propria immagine alla Dorian Gray, vede se stessa come Mr
Hide, la sua natura ctonia emerge e la spinge a uccidere i figli per… vendetta?
ritorsione? follia? malvagità? pietà? amore?
Le problematiche sono quindi molteplici: l’impossibilità di
integrazione della straniera, la diffidenza e l’odio verso la maga, il sospetto
che da principessa di Ea possa diventare regina di Corinto, le difficoltà
matrimoniali tra un eroe ambizioso e una semidea innamorata e delusa, la
mancanza di tutela dei bambini, il conflitto irrisolto tra maschio e femmina,
l’idea greca e contemporanea della donna come pericolosa se non sottomessa… e
la repentinità dei cambiamenti di fortuna, la mancanza dei valori antichi nella
società evoluta (hybris, xenia, timè, oikos…).
Tale ricchezza contenutistica ha consentito ad autori di tutte le
epoche di elaborare ritratti letterari e drammatici di Medea diversi tra loro e
perfino discordanti, piegando la malleabile figura alle esigenze storiche e
sociali. Abbiamo così la Medea del cristiano Draconzio che paga cara la fede
negli dei pagani, quella eroica di Corneille plasmata sui valori omerici,
quella clonata da Euripide di Lodovico Dolce, la Medea di fine Ottocento di
Grillparzer che conclude la trilogia del Vello d’oro, quella amorosa di Ovidio
e quella sanguigna e sanguinaria di Seneca, la straniera di Alvaro, la
tormentata donna sola di Klinger, e la rivoluzionaria femminista di Christa
Wolf che trova la verità nei sotterranei dove è sepolta Ifinoe, la figlia del
re destinata a salire sul trono e uccisa da lui; il regno si regge sulla
menzogna (il maschio ha usurpato il potere della femmina), i corinzi sono
razzisti e violenti e le uccidono i figli, scacciandola. Senza infine
dimenticare la Callas di Pasolini, con l’eterna incompatibilità tra passato e
presente, sacro e profano, altro da sé e identità.
Tante Medee, tante idee.
Che cosa farne? Una Medea mia? Un’altra Medea? No, non serve. M’interessa
di più una fusione degli spunti annotati qua e là. Vengono presentati allo
spettatore come indizi per mantenere viva l’indagine. Senza, però, assicurarne
l’esito. Non è detto che alla fine lo spettatore abbia acquisito le certezze
rassicuranti sulla realtà, ritenuta unica e conoscibile. Le verità posticce che
emergono sono diverse e Medea, con le sue incoerenze (umane, come al contrario
poco umana risulta la Medea a tesi di Wolf), non aiuta a dipanare la matassa
intricata.
Letti tutti i testi, passo all’ideazione di un progetto che non ripeta
il lavoro dell’anno scorso, quando ho semplificato la tragedia di Euripide sia
nella trama sia nel linguaggio, assicurando al coro delle baccanti un ruolo
centrale; un lavoro di stampo tradizionale, una rielaborazione della
drammaturgia euripidea.
Anzitutto, con Medea la situazione drammatica è molto più complessa.
Nelle Baccanti Dioniso è un dio ambiguo, e così va lasciato, ogni definizione
lo sminuirebbe. Gli altri personaggi si mettono a fuoco senza troppe
difficoltà. Le baccanti hanno dato origine a dibattiti che le hanno collegate
alle Amazzoni, alle lemniadi, alle streghe e alla femministe; ma tutto appare
facilmente comprensibile. Anche se, a ben vedere, nessuno ha bene chiaro in
mente che cosa sia una baccante. Altre categorie di pensiero, altre società,
altre religioni, altre esperienze.
Il drammaturgo la storia la vive così, come pure il mito: andandoci
vicino, ma non troppo, per non perdere il contatto sia con la realtà in cui
vive sia con l’universalità dei contenuti. Egli fa da ponte. O, meglio, da
traghetto fra le varie isole dell’arcipelago teatro. Dall’isola di un passato
remoto a quella del momento attuale all’altra del passato recente a quello
nebbiosa del futuro e così via.
Medea… chi è Medea?
Questa è la prima domanda.
Wolf riprende una vox che vuole Euripide venduto ai corinzi: per una
somma di denaro avrebbe riscritto la storia, inventandosi che i bambini non
sono stati uccisi dai corinzi stessi, ma dalla madre.
Queste forme di denigrazione di una figura femminile non sono rare
dall’antichità ai giorni nostri; seguono la scia dei tentativi incessanti del
maschio di scaricare ogni colpa (da noi il punto di partenza è Eva) sulla
femmina; non è la stessa Medea che afferma, parole di Euripide, che “non vi è
cuore più sanguinario di una moglie offesa?”
Ma non dobbiamo sottovalutare la campagna denigratoria ai danni di
Euripide, come già gli ateniesi avevano fatto con Eracle e Socrate e con tutti
i personaggi o gli eroi che non si erano pienamente sottomessi alla “democrazia”.
Riassumendo, Medea è stata trattata da romanzieri, drammaturghi,
musicisti e cineasti nei modi più innovativi e contrastanti, alla ricerca di una
verità inabissatasi nel mito.
La Medea che intendo presentare ai ragazzi non è una figura “a tutto
tondo”. Non voglio illuderli con una facile psicologia o con un tratteggio
artistico arbitrario, ma fare intendere loro che se Draconzio l’ha messa in
cattiva luce è stato perché lui era cristiano e voleva distruggere il
paganesimo in tutti i suoi aspetti, predicando che chi segue la magia si danna
l’anima e va incontro a un inferno già sulla terra. E Seneca? Anche la sua
Medea è una maga spaventosa, la cui malvagità non ha limiti. Ebbene, doveva
mostrare le terribili conseguenze negative dell’impresa degli Argonauti,
viaggio folle contro l’ordine precostituito, offesa agli dei: la prima condanna
del colonialismo irresponsabile.
Ma, sul versante opposto, anche la Wolf ha ricostruito Medea per farne
un altare laico alla sacralità della donna, celebrata come sapienza antica e
affettività equilibrata e ricca. Addirittura, non le fa uccidere Creusa, che si
suicida. Medea la pura. E Alvaro non ha adattato la vicenda sul proprio
desiderio di parlare di accoglienza, diversità e integrazione, temi che oggi
sono ancora più vivi e pressanti?
Ognuno può giungere a dipingere la propria Medea, e questo senza
troppo uscire dai binari imposti dal mito.
La questione fondamentale, comunque, rimane l’uccisione dei figli.
Li ha uccisi lei? Li ha uccisi per straziare Giasone e privarlo della
discendenza oppure per pietà, per non lasciarli nelle mani della folla
inferocita? Sono stati i corinzi, risoluti a vendicare il re e la principessa?
Mentre mi facevo domande su domande, aggirandomi nei labirinti delle
diverse versioni, mi sono sentito trasportare nella dimensione
dell’investigazione.
Durante gli ultimi laboratori di scrittura con classi di scuola
elementare e media ho proposto agli alunni di farsi investigatori della vicenda
che avrebbero raccontato. Partendo da un incipit stimolante (tipo: un ragazzo
raggiunge la stazione di corsa controllando di non essere inseguito), li ho
invitati a investigare sul lessico. Stazione, ma che tipo di stazione?
Inseguito, che tipo di inseguimento? E poi sulle motivazioni di ogni azione,
rivolgendosi in continuazione le domande perché? come?. Insomma, un
percorso a piccole tappe, fondato sulla originalità delle opzioni e su una
scelta consapevole, per giungere a uno sviluppo soddisfacente e coerente.
L’investigatore, dicevo, definisce e cerca indizi, risale nel tempo
alla ricerca di fatti scatenanti, incontri, esperienze significative…
Mi sono detto: il punto culminante di una tragedia su Medea non è quello
d’arrivo, il suo trionfo o la sua dannazione dopo la morte dei figli; ma
l’itinerario al contrario che ci guida verso la comprensione di ciò che appare
disumano e inaccettabile.
Ecco quindi la strategia: ribaltare lo schema drammaturgico,
cominciando dalla fine e finendo con l’inizio.
Una follia, in apparenza. Avendo, tuttavia, a disposizione tre
narratori-mediatori il cui compito è di orientare il pubblico…
Ma quale schema? Non ho avuto dubbi, quello di Euripide: prologo,
parodo, cinque stasimi e cinque episodi, esodo. Il mio sarebbe quindi stato:
esodo, episodi e stasimi, parodo e prologo.
Il ritorno al passato e l’andare a ritroso verso la sorgente sono
strategie che ricorrono in ambiti assodati: l’ipnosi, la psicanalisi, le
discipline storiche, la genealogia, gli andirivieni dal logos al mito e
viceversa…
L’indagine storica non sempre ci porta a risposte esaurienti, ma mette
in rilievo la necessità di farsi delle domande anche dove la situazione appare
chiara e definitiva. Il processo cognitivo serve a mettere in crisi le verità
acquisite, a riformulare una realtà solo in apparenza veritiera, a scoprire
nuovi aspetti in sistemi complessi che si scoprono aperti a nuove possibilità.
Come affermano le teorie della complessità, analizzare Medea per se
stessa non porta a grandi risultati. Le diverse versioni del mito succedutesi
nei secoli formano appunto un quadro complesso, la cui non-linearità è fonte di
ispirazione e di scoperte. Medea non è Medea senza l’arrivo di Giasone con il
carico di grecismo che si porta dietro; e senza l’intervento di Afrodite che la
fa innamorare; e senza l’educazione ricevuta in patria che si ritorce contro il
re suo padre, avendo avuto una figlia divina che si pone al di sopra di tutto;
e senza le reazioni popolari al suo arrivo a Corinto; e senza le dinamiche
affettive tra i figli e Creusa; e senza lo scontro con le idee conservatrici e
autoritarie di Creonte…
In questo sistema complesso niente vieta che sia i corinzi sia lei
volessero uccidere i bambini; che Giasone intendesse sposare Creusa sia per il
potere sia per una forte attrazione erotica; che Creonte fosse in un conflitto
lacerante e volesse sia scacciare Medea per non inimicarsi il popolo sia ospitarla
per non inimicarsi gli dei. A questo punto, diventa importante la coerenza
interna, per cui dal sistema complesso si derivano sistemi semplici e chiusi,
documentari su qualcosa che poteva esserci e non c’è stato.
Dal mito alla realtà letteraria delle sue elaborazioni all’acquisizione
di possibilità che non risultano contraddittorie nel sistema “mito” che si
presenta sempre con varianti locali.
“La Medea” (questo è il titolo) comincia quindi con la morte dei due
bambini.
Si assiste poi all’arrivo tardivo di Giasone, che ferma la folla di
scalmanati (ma davvero i corinzi intendono uccidere i suoi figli?); all’annuncio
della morte di Creusa e del re; al dialogo tra Medea e Giasone; allo scontro
con il re; al dialogo tra Creusa e il padre Creonte che sono morti e sentono
Medea piangere i bambini uccisi: e siamo così tornati all’inizio che sembrava
la fine di ogni cosa ed è invece un eterno ritorno all’atto violento e alla sua
insensatezza.
Un itinerario complesso ma scarno, reso semplice e immediato dalla
rinuncia alla “letteratura” se non come citazioni da Euripide, Seneca, Klinger, Grillparzer.
I personaggi sono: Medea, Giasone, la nutrice, Creonte, Creusa, i tre
narratori, il coro popolare.
I tre narratori.
Come nelle Baccanti dell’anno scorso, sento la necessità di un filtro
tra la scena e il pubblico. Per due motivi. Il primo è che il pubblico viene
escluso dalla rappresentazione. Essa è un sogno che riguarda solo gli
interpreti, racchiusi in una sfera ermetica dalla quale non possono uscire,
nella quale nessun altro può entrare.
Vivono un rapporto circolare con la scena, non bidirezionale con il
pubblico. Essi non hanno consapevolezza del pubblico, intorno a loro c’è solo
buio, la realtà è tutta dentro la sfera della performance.
Un teatro così concepito presenta problemi di comunicazione. Che senso
ha aprire le porte al pubblico se poi si nega la sua presenza? È solo una
provocazione? Si vuole riaffermarne la necessità mediante la sua esclusione?
Ai narratori è affidata la funzione di mettere a proprio agio il
pubblico, riconoscendone l’importanza per l’esito dello spettacolo. Li chiamo
narratori, ma sono intrattenitori, semplificatori, mediatori… Soprattutto
mediatori. Essi animano, raccordano, spiegano, stimolano la visione critica, aiutano
nell’identificazione, ma allo stesso tempo la ostacolano nella prospettiva del
teatro epico brechtiano. Un filtro, quindi, anche emotivo, che non concede allo
spettatore emozioni troppo facili e sterili. Diventano anche uno spot puntato
sulle scena, dove lo straniamento degli interpreti sembra voler gridare: il
teatro vero è qui, diverso dal cinema e dalla televisione. Eh, sì, i mediatori,
in effetti, sono più “anchormen” che narratori.
Il coro.
All’inizio ho preso in considerazione il coro delle donne di Corinto,
ma quando ho ripensato alla scena in cui il popolo dà l’assalto alla casa di
Medea per ucciderne i figli, ho percepito la presenza costante e sotterranea dei
sudditi, della gente, della folla assiepata intorno al palazzo reale e alla
casa di Medea. La sua condizione di straniera, la sua nomea di strega, la sua
presenza ingombrante in quanto mina l’autorità di Giasone, prossimo sposo della
figlia del re, sono tutti elementi legati agli stereotipi e agli umori incostanti
e pericolosi della popolazione. Medea è più che straniera: è incomprensibile
nelle sue arti magiche, è lontana in quanto ha sangue divino, è temuta per i
suoi poteri, è sospetta per la sua tenacia nel pretendere la fedeltà dell’eroe
greco, futuro re, è disprezzata perché ha tradito, è odiata perché percepita superiore.
Se lei se ne va in esilio, tutto è risolto. Ma se i figli rimangono a
Corinto… generati da Giasone, non potrebbero nel futuro reclamare il trono? I
corinzi rischiano di essere governati un domani dai figli della strega. Si
rende, quindi, necessario ucciderli.
Ecco, il quadro prende forma, si fa coerente e stimola ulteriori
riflessioni.
Medea si ritrova a combattere una guerra complicata: contro l’uomo che
ama e che la ripudia; contro la donna che lui intende sposare per acquistare prestigio;
contro il re che non la vuole nel suo regno; contro la gente che non l’assale
direttamente e per vigliaccheria tenta invece di ucciderle i figli; contro i
figli stessi che preferiscono la sicurezza e l’agiatezza della corte piuttosto
che l’esilio denso di incognite e pericoli.
Infine, Medea lotta anche contro se stessa, preda di conflitti: madre
o moglie? saggia e pacificante o impulsiva e distruttiva? divina o umana? sulla
via del perdono o della vendetta? Troppo forti sono i sentimenti che la
tempestano: indignazione, rancore, odio, rabbia, risentimento, ira, paura…
Secondo una variante, Medea è figlia di Ecate, la dea della magia
proveniente dalla Tracia dove era venerata come dea madre, seguita da cani
ululanti, portatrice di fiaccole, libera di spostarsi dal mondo superiore agli
inferi.
I suoi criteri di giudizio non sono delimitati dalle leggi umane, e
possono anche esulare da quelle divine, dato che vita e morte sono di sua
pertinenza: non ci sono confini per Ecate-Medea. Uccidere i figli? Non è così
esecrabile. La vendetta? Doverosa, dato che non è personale, ma riguarda la
propria genealogia: Giasone, con il ripudio, offende non solo lei, ma l’essenza
stessa della divinità.
La drammaturgia di “La Medea” indirizza verso le sorgenti stesse dell’umanità,
verso il rapporto primigenio e fecondo con le forse irrazionali e voraci della
natura e dell’animo umano. Essa non si prefigge di elaborare un ritratto “veritiero“,
nemmeno di avvicinarsi alla verità. Sarebbe ora di smettere di credere alle verità.
Essa raccoglie elementi, li fonde in una coerenza intrinseca, li presenta allo
spettatore in due forme: quella suggestiva e insondabile della performance
attoriale e quella didattica e animante dei narratori.
L’esito? Aggiungere domande a domande e non aspettarsi risposte, ma
solo indicazioni di ricerca: l’indagine apre a ulteriori indagini.
Come realizzare tutto questo sulla scena?
In parte, c’è una visione mentale. Ma tale visione, che è come
arrancare in montagna sul sentiero nel bosco senza avere mai la possibilità di
scorgere la cima, rimane allo stato larvale. Non voglio una Medea da tavolino, colta
e professionale, ma un embrione informe, che potrebbe essere di pesce, mammifero,
umano o alieno. Insieme ai ragazzi lo si alleva per farlo diventare la creatura
misteriosa che sarà l’opera in scena. I problemi di allestimento sono molti. Sguinzaglierò
i tre narratori in mezzo agli spettatori (specchio delle loro curiosità e delle
difficoltà di comprensione), oppure li terrò sul palcoscenico? Come realizzare
la sfera spazio-temporale nella quale gli attori saranno “rinchiusi”? E i costumi? E le musiche? E il testo? Vorrei prosciugarlo
il più possibile, ma devo tenere conto dell’assoluta impreparazione degli
interpreti, ragazzi e bambini senza una scuola attoriale alle spalle, che
imparano il teatro facendolo.
In conclusione, questa messa in scena è un laboratorio di teatro sul
teatro.
Il laboratorio è condotto con tredici alunni dell’I.C. Verjus di
Oleggio, dalla quarta elementare alla seconda media. Gli allievi sono invitati
a partecipare anche a un laboratorio di quattro incontri con una psicologa sulla
conoscenza e sulla gestione delle emozioni.
Il laboratorio di teatro è affiancato da un laboratorio di SCRITTURA
PERFORMATIVA. Ecco la presentazione sul volantino.
Perché scrittura performativa? A volte i ragazzi stentano a
visualizzare nella mente oggetti, situazioni, azioni. Con l’aiuto di tecniche
teatrali di narrazione e drammatizzazione si affronta e si approfondisce la
stesura di un testo sia in prosa sia in poesia (haiku). Dalla grammatica e
sintassi teatrale a quella linguistica, dalla realtà visibile a quella
invisibile delle parole. Gli allievi leggeranno le loro composizioni nella
stessa serata di fine aprile del saggio di teatro.
“Medea” di Euripide,
Seneca, Draconzio, Klinger, Grillparzer, Jeffers, Alvaro
Chista Wolf, Medea
voci, Edizioni e/o 2001
Publio Ovidio Nasone,
Metamorfosi, Einaudi 1994
Publio Ovidio Nasone,
Eroidi, Garzanti 2006
Valerio Flacco, L’addio
di Medea, Edizioni ETS 2012
Giuseppe Ferraro, Il
mito di Medea tra antichi e moderni, Ed. Esselibri 2002
Elena Adriani, Medea
fortuna e metamorfosi di un archetipo, Esedra 2006
Giulia Tellini,
Storie di Medea, Le Lettere 2012
Giuseppe Micunco, Euripide,
Stilo 2012
Umberto Albini,
Euripide o dell’invenzione, Garzanti 2000
Davide Susanetti,
Euripide fra tragedia mito e filosofia, Carocci 2011