Un racconto del 2008 scritto a Laives (Bolzano) nell'ambito di un progetto con la biblioteca: una settimana di interventi nella scuola materna, elementare e media su lettura e scrittura creativa.
Aquilino
Il tesoro di Laives
Georg Burger si
era lasciato alle spalle il maso in der
Au, sopra le paludi che univano Laives a San Giacomo. Procedeva a passo
svelto, tutto solo; e sapeva che non era cosa da farsi, scendere a valle senza
nemmeno un compagno per proteggersi a vicenda. Era giovane e forte, ma nella
boscaglia che contornava la palude si rintanavano malfattori che vivevano come
bestie, traendo sostentamento dagli assalti alla brava gente. Rubavano di tutto
a tutti. Soldi, oggetti, indumenti e scarpe. Di solito lasciavano la vittima
ammaccata dalle bastonate, ma ogni tanto ci scappava il morto.
Era il motivo
per cui Georg si era infilato un pugnale in bella vista nella cintura. Poi l’avrebbe
nascosto sotto la camicia, una volta entrato in Laives. L’ordinanza cittadina che
vietava di portare armi non sempre veniva osservata e le teste calde si
portavano appresso asce, pugnali, alabarde, pistole e perfino schioppi.
Ma Georg non
voleva rogne.
Il delegato
giudiziario, incaricato di mantenere l’ordine pubblico facendo opera di
persuasione e mediazione, era il padre del suo amico Hans e lui voleva dimostrargli
che sapeva rispettare le regole.
Con Hans aveva
appuntamento al Pfleg, il castello inferiore dei conti Liechtenstein all’imbocco
della Vallarsa, in cui risiedeva il loro capitano. Là c’era il Reif più antico,
uno spiazzo per lo scarico del legname dei novaponentini e spesso anche degli
abitanti della valle d’Ega.
Da Trento,
Verona, Mantova, Ferrara, Venezia… giungevano continue ordinazioni di legname
da costruzione, ma si diceva che il governo stesse per limitarne l’esportazione
varando leggi contro il taglio indiscriminato dei boschi.
Georg sorrise
fra sé.
Il suo amico Simon
si vantava di fare grossi affari con gli alberi che abbatteva, ma Georg era
dell’opinione che un maso era quanto di meglio si potesse desiderare. Bestiame,
vino, frutta, miglio, orzo, grano… C’era da pagare al padrone del fondo, certo,
e c’erano la decima per la chiesa e i vari tributi per i conti che a volte
parevano non finire mai. La terra era comunque generosa e il suo lavoro di
carrettiere valeva quanto quello di boscaiolo.
“Senza il mio
carro” diceva a Simon, “come porti i tronchi alle zattere?”
“Ce l’ho anch’io
il carro!” esclamava Simon che aveva un carattere ombroso come il luogo dove
abitava.
“Con quel trabiccolo
da sentiero ci porti una ragazza a cercare i mirtilli, ma i tronchi lasciali a
me.”
“Voi carrettieri
siete come gli zatterieri, tutti sbruffoni.”
“Ah, no. Quelli
sono anche ladri.”
Quanta frutta si
erano portati via! E quando spariva una capra o un maialino, che cosa mormorava
la gente? Questa è la mano lunga degli
zatterieri.
Perso in questi
pensieri, Georg non si era più preoccupato di tenere d’occhio i dintorni e solo
quando sentì un frusciare brusco alla sua sinistra si allarmò. Un brigante? Con
un gesto rapido afferrò il pugnale e lo tese davanti a sé, pronto ad affrontare
la minaccia.
“E se fossero
due, tre o più?” pensò con un brivido. Avevano certo capito che si recava
all’osteria e che quindi aveva con sé qualche soldo. Sentì spezzarsi un rametto
sotto il passo di qualcuno e allora non resse più alla tensione.
“Vieni fuori. Mi
piace vedere in faccia chi mi spia.”
Si tenne pronto
a rintuzzare l’assalto, ma invece di una carica violenta dovette affrontare
solo un ragazzetto smilzo che balzò sul sentiero sussurrando:
“Abbassa la voce
che ci sentono!”
“Karl, che cosa ci
fai qui?”
Invece di
rispondere, il ragazzo ammiccò da furbo
e levò alto il cesto pieno di pesci. Gli occhi gli brillavano per la gioia.
“Sei matto? Non
lo sai che c’è la gogna per chi pesca nelle acque dei conti?” lo rimproverò
Georg.
“Tinche, lucci e
carpe. E domani vado per rane e gamberi.”
“Non dovresti
venire da solo in questi posti di tagliagole.”
“Ma io sono svelto,
a me nessuno la fa.”
“E poi un giorno
non torni più a casa.”
“Infatti c’era
qualcuno che mi stava addosso. Allontaniamoci.”
“L’hai visto?”
“No, ma ne ho
sentito la puzza di selvatico.”
Si misero a
correre fino a un bivio, dove Karl si divise da Georg. Correva dalla madre, ansioso
di sentirla esclamare di gioia alla vista dei pesci.
*
Non era da molti
anni che in quel 1549 la
Vallarsa aveva smesso di essere una forra di cinghiali ed era
stata colonizzata dai primi boscaioli che avevano costruito capanne e strade.
Portare giù i tronchi fino allo sbocco non era sempre facile, a causa della
ristrettezza della valle; ma il guadagno sicuro offerto da un’attività in
crescita aveva sveltito l’ingegno e rafforzato la volontà.
Il rio portava
acqua per la ruota e in breve ben tre mulini cominciarono a macinare.
Quello di Hans,
l’amico di Georg, era particolare. Non solo macinava il grano, ma provvedeva anche
alla decorticazione dell’orzo e del miglio grazie a un pistone in legno di melo.
Cadendo sul frutto vestito della sua buccia e costretto in una cavità di marmo
levigatissima nelle sue parti interne, ne determinava la separazione della parte esterna ricchissima di cellulosa e non commestibile.
Hans arrivò in
anticipo al Pfleg e si sedette su un muretto ad aspettare Georg e Simon.
Qualche carro
gli passò davanti e un conducente non mancò di apostrofarlo.
“Lo sa tuo padre
che te ne stai in giro a fare il lazzarone?”
“Mio padre è
d’accordo con quelli che dicono che la domenica non si lavora” rispose allegro.
“Forse che la
domenica non si mangia?”
“Si mangia, ma
non si lavora.”
“E da quando in
qua anche chi non lavora ha il piatto pieno?”
“Da quando il
mondo è più civile, no?” rispose Hans mentre il carro già si allontanava.
Gli zatterieri
avevano cambiato le abitudini dei laivesotti. Il trasporto di legname e
mercanzie doveva essere continuo e non c’erano santi che tenessero. Il fiume continua a scorrere anche la
domenica e tutte le feste comandate, dicevano.
Ma questa e
altre iniziative venivano sempre meno tollerate dai cattolici più attenti alla
nuova crociata che la chiesa stava per lanciare con il concilio di Trento, iniziato
appena quattro anni prima.
In risposta
all’affissione sulla porta della chiesa di Wittenberg delle 95 tesi luterane,
la Controriforma avrebbe riportato le cose al loro giusto posto, a cominciare
dall’osservanza del giorno del Signore.
Il padre di Hans,
che garantiva l’ordine pubblico, si era subito schierato con il gruppo sempre
più folto di cittadini che si opponevano all’imposizione degli zatterieri, rei
di scarso zelo religioso e di crimini a non finire, dalla bestemmia al furto,
dall’aggressione all’omicidio.
Davanti ad Hans
passarono anche le donne che andavano a messa. Quando davanti a lui si
fermarono la madre e la sorella, dovette sorbirsi un rimprovero lamentoso e
alla fine anche astioso, perché non volle chinare il capo e mostrarsi
remissivo.
“Insomma, madre,
è festa. Me lo merito un po’ di riposo o volete vedermi stramazzare al suolo
come un asino sotto un carico eccessivo?”
Sua sorella si
nascose il viso tra le mani per ridacchiare di nascosto, ma poi tornò subito
seria e lo fulminò con lo sguardo. Lei non ce l’aveva con lui, ma lo invidiava.
Anche a lei sarebbe piaciuto oziare in giro per il paese invece di seguire la
madre prima in chiesa e poi in visita a una parente malata.
Hans dimenticò in
fretta i rimbrotti. Starsene lì seduto a guardare i passanti gli dava un senso
di indipendenza. Libero di non fare niente, per una volta. Ed era deciso a
godersi la giornata fino in fondo. Levò lo sguardo verso la bocca nera della
Vallarsa. Ma quanto ci metteva Simon ad arrivare?
Simon, in quel
momento, pensava proprio a lui.
Sarà già là ad aspettarmi e avrà cominciato
a sbuffare, ma è colpa mia se mio padre ha sempre una commissione urgente da
farmi fare?
Correva giù per
il sentiero come una capra inseguita dai lupi. Superava gli altri boscaioli che
scendevano al piano e quando ne urtava uno sentiva dietro di sé gli accidenti
che gli mandava. Li ignorava. Non era il momento di fare questioni. Suo padre
aveva aderito al gruppo di laivesotti sostenitori del precetto festivo alla
faccia degli zatterieri e lui ne era entusiasta. Non gli sembrava vero di avere
tutta una giornata per sé.
Fino alla sera
prima gli era sembrato di non avere fatto altro che segare tronchi e sfrondare
chiome, il sudore negli occhi e i calli sulle mani, la schiena dolorante e la
mente svuotata di ogni pensiero che non fosse quello di mandare a valle quanto
più legname possibile.
In pochi anni la
sua famiglia aveva accantonato una sommetta che forse gli avrebbe consentito di
comprare un maso. E allora si sarebbe sposato e al solo pensiero gli occhi gli si
accendevano, perché la sua sposa sarebbe stata la più bella e la più brava
della valle.
Sarebbe davvero
andata così? Simon non aveva un carattere aperto e ottimista come Hans. E non
era nemmeno sicuro di sé come Georg. Dubbi e timori lo assalivano. Aveva
sentito parlare delle nuove leggi per la protezione dei boschi. Ma i boschi
esistevano per essere tagliati dai boscaioli! Come si poteva pensare di fare a
meno del legname? Di alberi ce n’era un’infinità. Aveva paura. A volte, nell’ombra
magica di un faggeto, sentiva intorno a sé le presenze cupe degli spiriti
malefici. Stavano tramando contro i boscaioli, lo sentiva. Volevano buttarli
fuori dalla Vallarsa.
Ma che cosa
avrebbero fatto i boscaioli senza i boschi?
La fame.
Fame e miseria,
ecco che cosa li aspettava.
*
“Dove andiamo?”
domandò Hans dopo che i tre amici si furono salutati con grandi sorrisi e
pacche sulle spalle.
“All’osteria
Raymann” rispose Georg.
“L’osteria degli
italiani?” si stupì Simon. “Ne sei sicuro?”
“Lo so perché
fai quella faccia” rise Georg. “Non ha certo una bella fama, quel posto. Ma è
il più vivace e lì ci si diverte di sicuro.”
“A prendersi
coltellate? È questo il divertimento? Ci sto” tagliò corto Hans mostrandosi
scherzoso. In realtà, sapeva anche lui quanto fosse facile finire coinvolti in
una rissa. Era l’osteria preferita dagli zatterieri che provenivano quasi tutti
da Sacco, vicino a Rovereto, dove c’erano le più importanti agenzie di
spedizionieri.
Ma il problema
non era la loro origine. Sacco era come tanti altri borghi. Il problema erano
le assunzioni. Per fare lo zatteriere chiunque andava bene, anche se aveva un
passato poco limpido e un presente da galera.
I tre amici si
avviarono con il passo agile e saltellante dei giovani che vogliono trovarsi
sempre più avanti di dove sono, scalciando sassi e spostando lo sguardo in
tutte le direzioni per non perdersi niente dell’animazione che riempiva le
strade di Laives.
A Bolzano si
teneva una delle quattro fiere annuali, quella della Pentecoste, e per due
settimane migliaia di persone sarebbero scese dalle città mercantili della Germania
meridionale o salite dai sobborghi di Bronzolo, ormai considerato il porto
della città.
I tre amici
videro mercanti impellicciati e vagabondi in rozze tuniche di canapa, ladruncoli
dall’aria innocente e donne maliziose che con lo sguardo cercavano di
agganciare gli uomini soli; e poi storpi che chiedevano l’elemosina e
cacciatori scesi dai solitari rifugi di montagna; e anche famigliole eccitate e
stormi di bambini che parevano tanti passeri pronti a volare via.
Un gruppo di tre
giovani a cavallo attirò l’attenzione di Simon. Tenevano i cavalli al passo e rivolgevano
alla folla sguardi altezzosi e sarcastici. Simon aveva un proprio modo di
vedere le cose. Storie, secondo lui, che Dio stesso avesse voluto l’umanità
divisa in ricchi e poveri e storie che i ricchi bilanciassero la loro fortuna prendendosi
cura dei disgraziati che continuavano comunque a morire per strada e in tuguri
indegni. Siamo noi lavoratori che
manteniamo i giovani viziosi e sfaccendati, siamo noi poveri a mantenere i
ricchi. Così pensava Simon, cupo.
Georg e Hans
erano di tutt’altro umore.
“Guarda quello”
disse Hans dando di gomito a Georg.
“E allora?”
“È lui quello
che ha perso la moglie. Margareta, si chiama, ma l’hanno soprannominata la Ribattezzata. È scappata di casa per correre
dietro alla setta dei riformati anabattisti.”
“Doveva
scegliersi una donna con più buon senso” commentò Georg.
“Ma non sapete,
dunque, come chiamano invece lui?” continuò Hans. “Der nacket, il nudo. Così lo chiamano. E sapete perché?”
Georg scoppiò a
ridere.
“Posso solo
immaginare che cosa trovava quella donna tutte le volte che tornava a casa.”
“Tre volte al
giorno, come minimo. Così si dice.”
Georg fece una
smorfia.
“Se ne dicono
tante” mormorò. “Io, se mia moglie scappa di casa…”
“Che cosa fai?
Le corri dietro?”
“Sì, ma non per
mettermi in ginocchio davanti a lei e implorarla di tornare. La riporto a casa
a calci nel didietro.”
“E tu
picchieresti una donna?”
“Lo fanno
tutti.”
“Io so anche di
donne che picchiano i mariti” osservò Simon.
“Solo quelli
tanto fessi da farsele dare da una femmina” concluse Hans.
Rimasero per
qualche tempo in silenzio, poi Simon sembrò esprimere a voce alta pensieri suoi
personali.
“Quella
poveretta… “ mormorò con la fronte aggrottata “… quella finisce come le donne
di Coredo, le streghe. Ma voi ci credete che erano davvero streghe? E che volavano
sulla scopa e se la facevano con i
diavoli?”
“Le tempestarie”
gli fece eco Georg, lugubre. “Seminano tempeste e ci rovinano i raccolti.”
“Io sì che ci
credo” affermò Hans. “Se non fossero streghe maledette, non le metterebbero
mica sul rogo.”
“Chissà” mormorò
ancora Simon. “Di sbagli se ne fanno tanti.”
Tutti e tre,
senza saperlo, pensarono al palazzo nero, il fortilizio fatto erigere dal
vescovo Giorgio II Hack quasi un secolo prima, nel cui salone del giudizio
avevano ancora luogo le attività macabre della Santa Inquisizione e della
caccia alle streghe.
Hans indicò un
punto alla loro sinistra. Si fermarono tutti e tre a osservare un filo di fumo
che si levava ancora nel cielo azzurro, mentre un odore acre di bruciato li
assalì.
“C’è stato un
incendio” disse Hans. “Andiamo a vedere.”
Si trovarono
presto di fronte a ciò che restava del maso Anheiter.
Si fecero largo
tra i curiosi e tra i vicini accorsi per aiutare a spegnere le fiamme che
avevano avuto il tempo di distruggere il tetto di paglia di segala e canne di
palude. Anche i pochi mobili erano ridotti in cenere.
Scorsero la
moglie del fittavolo in lacrime e, accanto a lei, il padre di Hans, Vilg Enthofer,
che aveva già cominciato le indagini.
“Padre” gli disse
Hans, “siamo qui per caso e se avete bisogno possiamo dare una mano.”
Vilg scosse la
testa.
“Ormai quel che
è fatto è fatto. Ci sarà da ripulire e da rifare il tetto, ma il calore è
ancora troppo alto.”
“Un incidente?”
“Parrebbe. Ma tu
sai quanti incidenti si rivelano poi atti criminosi.”
Dunque, il
delegato sospettava qualcosa. I tre amici si scambiarono occhiate eloquenti. In
una stagione tanto fresca, un incendio aveva quasi sempre un’origine dolosa.
Si spostarono
qua e là per soddisfare le proprie curiosità e anche perché Simon, il sospettoso,
aveva sussurrato:
“Chi appicca
incendi si ferma sempre a controllare il buon servizio che gli fa il fuoco.”
Si misero a
esaminare i volti dei presenti, ma sempre facendo finta di essere bighelloni
curiosi. Dopo un po’, Hans tirò da parte i due amici e disse:
“Avete visto
Kuppermann? L’oste del Gutleben? Che cosa ci fa lontano dalla sua locanda in un
giorno di festa e per di più di fiera? Non gli interessano più i bei profitti?”
Un’occhiata e
via, alla locanda del sospettato. Che cosa vi sperassero di trovare i tre
giovani proprio non lo sapevano. Vi si recarono perché sembrava un gioco
appassionante, quello di dare una mano al delegato per il mantenimento
dell’ordine pubblico.
Alla locanda c’erano
molti avventori, ma non l’oste, come già ben sapevano i tre amici.
Ne intravidero
la moglie affannarsi a dare ordini ai servi, assistita da un uomo che Hans
identificò come il cognato. Georg si guardò in giro con attenzione.
“Non vedo Jakob”
disse.
Era uno dei ragazzi
che servivano ai tavoli, un’anima nera infida che non piaceva a nessuno,
nemmeno ai più scapestrati.
“Andiamo a
sederci e ordiniamo da bere, così ne approfittiamo per fare qualche domanda.”
Entrarono nella
stube e si diressero a un tavolo libero, proprio quello sul cui piano erano
incisi i marchi dei carrettieri. Quando un ragazzino con i capelli stopposi
portò loro della birra, Georg gli sussurrò:
“Se mi mandi
Jakob, gli riferisco un messaggio da parte di una bella ragazza.”
“Non c’è” disse
brusco il ragazzo.
“Come? Si fa
l’innamorata e poi la pianta in asso?”
“Io non so
niente di questa innamorata, ma lui è scomparso e nessuno sa dove sia andato.”
I tre amici si
scambiarono occhiate perplesse.
Appena il
ragazzo si fu allontanato, lo sguardo di Simon cadde sul pavimento, attirato da
una scritta tracciata con uno stecco carbonizzato. Jakob si leggeva in modo confuso, e poi una cifra.
“L’ha pagato”
sussurrò Simon indirizzando con un cenno l’attenzione degli amici.
“Voi aspettatemi
qui” disse Hans. “Faccio una corsa da mio padre.”
Poco più tardi,
il delegato esaminò con attenzione la scritta. È il contratto criminale stipulato con Jakob, suggerì qualcuno. Il
delegato scosse la testa: l’oste non sapeva scrivere, come la quasi totalità
dei laivesotti. Interrogato, l’oste rispose che su quel pavimento camminavano
cani e porci e che lui di quella scritta non ne sapeva proprio niente. E Jakob?
Lo ritrovarono una settimana dopo nella palude. Con la gola tagliata.
*
Se per strada
c’era gente, nei pressi dell’osteria degli italiani c’era una folla rumoreggiante,
con una peculiarità: era formata da soli uomini.
I tre amici si
fecero largo senza tanti riguardi, ma cercarono invano un tavolo libero.
Nemmeno su uno sgabello poterono mettere mano.
D’altronde, se
l’erano aspettato. Era proprio per quello che si trovavano lì: per la gente.
C’era un gran
viavai di zatterieri. Alcuni erano solo in pausa. Aspettavano che la zattera
venisse caricata per riprendere la navigazione verso Verona. Altri erano stati
presi in contropiede dalla novità di rispettare il riposo festivo. Ma quando
mai si era sentito di interrompere la fluitazione sull’Adige? La religione era
una cosa, gli affari un’altra. E i padroni di Sacco non intendevano ragioni: Sta’ a voi convincere quelli di Laives!
E come?
La frustrazione,
unita alla rabbia per i guadagni mancati, avevano spinto gli zatterieri a
recarsi all’osteria in gruppi vocianti e piuttosto agitati.
Ogni zattera era
governata da un capozattera e da quattro fino a sette inservienti; e quel
giorno di zattere in riva all’Adige ce n’erano molte, sempre per via della
fiera.
Erano di solito
gli inservienti, reclutati a Sacco senza badare ai loro trascorsi, che venivano
accusati di essere ladri di legname e frutta, soprattutto di uva; e di andare
in giro sempre armati e inclini alla provocazione e alla rissa.
Si diceva che
bevevano tanta acqua, ogni volta che cadevano fuori della zattera, che per
asciugarla ci voleva altrettanto vino dell’osteria. Le zattere erano enormi, ci
volevano una trentina di tronchi per costruirle. La fatica per manovrarle e la
tensione per i pericoli che correva il carico venivano scaricate con le bevute
e le chiassate, quando andava bene.
Altrimenti
spuntava il pugnale e scorreva il sangue.
Proprio due
giorni prima, un inserviente di nome Bernardino era stato preso e messo alla
ruota a Bolzano per avere ferito alla testa con un sasso un giovane intervenuto
in difesa della sorella.
I tre amici,
Georg, Hans e Simon, arrivarono all’osteria che era appena scoppiata una
baruffa tra i laivesotti del piano e quelli del monte.
“Ranocchie del
piano!” sbraitarono i novaponentini dell’altopiano Regglberg. Gridarono le
solite battute sugli uomini di pianura che non facevano altro che mangiare e si
gonfiavano come rospi; e sulle donne che passavano le giornate a gracidare
pettegolezzi in giro per Laives.
E gli altri, di
rimando:
“Cornacchie di
monte!” facendo versacci e mimando le facce scure dei montanini che erano più
riservati e perfino cupi e credevano a tutte le storie di folletti benevoli e
di salighe, le streghe buone; ma anche di nani furbi e della Berchta, la strega
dalle molte vite che rapiva i bambini raccogliendoli in lunghe processioni.
“Perché non
siete al Pfleg a scavare?” gridarono ancora i laivesotti di città.
I novaponentini
erano sicuri che due misteriose gallerie unissero il Pfleg al castello dei
Liechtenstein, andato distrutto nel 1278; e che sottoterra si trovassero le
bocce e i nove birilli d’oro massiccio con i quali i conti si erano trastullati.
Con la scusa di fare lavori di sterro, c’era ancora chi si ostinava a cercare la
galleria del tesoro, protetto da un uccellaccio infernale.
I tre amici
osservarono ammaliati la baraonda.
L’oste riuscì a
ricomporre gli animi, ma si beccò una bastonata sulla spalla che lo fece strillare:
“La prossima
volta ammazzatevi tutti che io ne sarò proprio contento!”
“Sì, così perdi
tutti i clienti” ribatté qualcuno facendo scoppiare un coro di risa.
Georg guidò gli
amici verso un angolo relativamente tranquillo. Non voleva farsi notare troppo.
Molti uomini erano già ubriachi e tre giovani perbene come loro sarebbero stati
il bersaglio ideale per frecciate sempre più pesanti. Meglio, quindi, tenersi
nell’ombra.
“Guardate chi
c’è” sussurrò Hans indicando un omone alla ricerca di un tavolo libero. Era
accompagnato da una banda di una decina di ragazzotti dall’aria furba. In ogni
loro movimento si leggeva una sfida e una provocazione.
“Il vecchio
Costanza” disse Georg. “Ora se ne vedranno delle belle.”
Era, il vecchio
Costanza, il decano dei capizattera, temuto da tutti gli inservienti, ma anche
dai carrettieri e dai mercanti. Con lui non era facile discutere, pronto
com’era all’aggressione verbale e alla reazione violenta.
Come sempre,
anche quel giorno portava infilati nella cintura una pistola e un coltello,
incurante della legge che li vietava.
Come Georg aveva
previsto, il Costanza andò subito in cerca di guai. Girò lo sguardo intorno per
cercare un tavolo libero, proprio come un falco che scruta la valle in cerca di
una preda. Non trovandone, pensò bene di liberarne uno con i suoi famigerati
metodi spicci.
“Voi avete da
fare da un’altra parte, ne sono più che sicuro” disse a una tavolata allibita
che in un primo momento non capì nemmeno che cosa volesse il vecchio con il suo
seguito di bravi. Colpa delle caraffe di vino già svuotate.
Qualcuno si
limitò a ridacchiare, uno si alzò in piedi sulle gambe traballanti e fece per
aprire bocca, intendendo ricoprire di insulti il disturbatore; altri levarono
gli sguardi vacui sul gruppo e se ne restarono lì come pesci appesi all’amo.
Il Costanza non
aveva nessuna intenzione di contrattare. Rivolse un cenno ai suoi sgherri e
questi si buttarono sugli allibiti avventori. Li sollevarono di peso
strappandoli via dagli sgabelli e poi li trascinarono lontano, mentre quelli si
dibattevano invano e lanciavano ruggiti di rabbia.
Passata la
sorpresa, ora tutti avevano ben chiaro che cosa stava per succedere: una
scazzottata.
Gli zatterieri
di Costanza erano allenati alle più dure battaglie d’osteria e si tuffarono
nella mischia con grinta e piacere. I poveri paesani furono bastonati e
dileggiati e il tavolo fu libero. Il Costanza ci pestò sopra un pugno
minaccioso dal significato chiaro: che ci provasse qualcun altro a
contrariarlo.
Uno dei suoi oltrepassò
la misura e non avendo davanti a sé altri avversari si portò con due passi
proprio sopra Hans, che quasi non si accorse nemmeno della nube che oscurò il
suo cielo.
Più svelto fu
Simon. Allungò una gamba e il giovane zatteriere prese il volo aiutato dal suo
stesso lancio, mentre Georg scaraventava una botticella tra le gambe di un suo
compare che aveva avuto la mala pensata di soccorrerlo.
I tre amici balzarono
in piedi, uno di fianco all’altro. Si scambiarono sguardi allarmati. Tutti e
tre videro la testa del Costanza girarsi verso di loro; e a nessuno dei tre sfuggì
il ghigno orrendo che gli aveva deformato la faccia.
Un attimo e il
Costanza avrebbe dato fuoco alle polveri, scaricando contro di loro la violenza
selvaggia degli zatterieri.
Ma l’attimo non
giunse mai, perché prima ancora che il Costanza impartisse l’ordine i tre amici
furono fuori della locanda, in fuga verso il borgo tra le cui viuzze si
sarebbero eclissati.
Non
assistettero, così, alla bolgia che trasformò le risse in assalti rabbiosi
senza più misura. Gli avventori si colpirono con qualunque strumento o arma nella
foga sorta dalla paura di rimetterci le penne. Dopo nemmeno dieci minuti, ci
scappò il morto. Era un poveraccio che di quando in quando faceva servizio alla
locanda, adattandosi ai lavori più umili. Un colpo d’ascia gli spaccò il cuore.
Il colpevole non era uno zatteriere, ma un tale che per diciannove anni era
stato via dal borgo, arruolato come lanzichenecco. Erano molti che se ne
andavano volontari a fare guerre, ricavandoci alla fine solo pochi quattrini. Dichiarò
che l’ascia lui l’aveva mulinata per difesa e che l’uomo ci si era buttato
contro alla cieca. Fu condannato al pagamento di un’ammenda e al mantenimento
dell’orfano. Poi, ricoperto da un cilicio di lana, scalzo, con un cero in mano,
dovette assistere all’ufficio funebre della vittima e fare elemosine ai poveri.
L’orfano, un bel
ragazzo di tredici anni, prese il posto del padre e servì alla locanda.
*
I tre amici s’inerpicarono
su per il quartiere di nordest, incontrando poca gente. Erano tutti o in chiesa
o nelle osterie o giù nelle vie principali a vedere i giocolieri e l’orso
ammaestrato che erano scesi da Bolzano per fare altri incassi nei borghi della
valle.
Davanti ai tre
stava Georg. Sembrava che sapesse dove andare, ma in verità lasciava che i
piedi si prendessero la libertà di vagabondare.
Giunse così in
un luogo che nemmeno ricordava, uno spiazzo alto sopra il borgo, dal quale si scorgeva
l’abitato e, lontano, la serpentina del fiume da un lato e lo specchio vaporoso
della palude dall’altro. Si sedettero su un muretto a secco.
L’animazione
nella quale erano stati immersi fino a poco prima era tutta lì sotto di loro,
ma vestiva una maschera diversa, scolpita dalla lontananza, fatta di silenzio e
di movimenti lenti.
Avevano tutti e
tre la bocca amara.
“Non è giusto
che finisca sempre così” si lamentò Hans.
“Così come?”
domandò Georg che però conosceva già la risposta.
“Che un giorno
di festa venga rovinato da quattro ribaldi, sempre quelli, che altro non hanno
in testa se non la voglia di far danno agli altri.”
“Hai ragione.”
“Qualcuno
dovrebbe prendere provvedimenti.”
“Mettere alla
gogna tutti gli zatterieri?”
“Non lo so, ma
qualcuno…”
“Qualcuno chi?”
domandò Simon.
“Mio padre non
può certo farcela da solo. Ci vuole…” rispose Hans.
“I conti? Il
vescovo? L’imperatore? Pensi che uno di loro si preoccupi se qui a Laives gli
zatterieri fanno i prepotenti?”
“Dovrebbero
preoccuparsene.”
“Forse
dovrebbero, è vero. Ma se tolgono di mezzo gli zatterieri, chi gli porta poi le
mercanzie che fanno bella la loro vita? Tessuti pregiati, pellicce, gioielli…
Il servizio di trasporto sul fiume è sacro.”
“Basta lasciar
fare lo zatteriere a persone per bene, magari a gente di qui.”
“Ma la gente di
qui ha voglia di imparare a pilotare le zattere?”
Simon si strinse
nelle spalle.
“Non lo so.
Qualcuno magari sì.”
“Se ci fossero
meno stranieri…” incominciò Hans, lasciando però la frase in sospeso.
Georg si alzò in
piedi e rivolse ai due amici un sorriso luminoso.
“Meno
stranieri?” ripeté e poi scrollò il capo. “Ma guardate…” disse indicando la
valle con un ampio gesto. “Non vi rendete conto di quello che vedete? Lo so, lo
so. Ci sono i briganti nelle paludi e gli zatterieri nelle osterie che creano
problemi alla gente onesta. Ci sono anche quelli che danno fuoco alle proprietà
altrui e quelli che approfittano della fiera per borseggiare i benestanti. Ma
guardate più a fondo… Non vedete che cosa significa tutto questo? Significa
vita. Nel bene e nel male questa è la libera circolazione delle persone, delle merci
e delle idee e io mi auguro che a Laives sia sempre così, negli anni e nei
secoli a venire. Gente che va e che viene, che discute e litiga, che rapina e
inganna, ma anche gente che costruisce, produce e inventa cose sempre nuove.
Capite che cosa intendo? Vita, in tutta la sua complessità.”
I due amici lo
fissarono con rispetto. Capitava spesso che Georg se ne uscisse con cose che
loro non capivano fino in fondo, ma che lasciava nei loro cuori e nelle loro
menti un’eco misteriosa.
Vita.
Quello lo
capivano.
Vita in tutta la
sua complessità. Ma quella libera circolazione di persone e di merci e di idee…
quella non era una cosa facile da capire.
Hans ci rinunciò
subito, Simon rimuginò dentro di sé e alla fine disse:
“È vero, la
libertà è un privilegio. Ma diventa un tesoro quando nessuno ci perde niente.
Voglio dire che… che gli uomini che circolano dovrebbero avere tutti una loro
dignità e non essere magari dei morti di fame trattati come criminali. E le
merci non dovrebbero rappresentare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E le
idee di cui parli dovrebbero valere veramente qualcosa e non essere le bugie
dei potenti o le suggestioni dei furbi o gli inviti dei violenti all’odio e
alla discriminazione… Sapete di che cosa parlo? Di pace, di giustizia, di
solidarietà.”
Simon si
interruppe. I due amici lo fissarono sorpresi e confusi. Ma che cosa stava
dicendo?
E allora Simon
disse:
“Andiamo, va’” e
Hans lo seguì con uno sbadiglio.
Georg lanciò
l’ultima occhiata alla valle e poi si accodò.
C’erano altre
osterie, a Laives, più tranquille di quella degli italiani.