Il nostro tempo quotidiano può essere vissuto in più modi, tra i
quali:
1)
Una scansione esteriore, sulla scia di costumanze
e di volontà altrui (massmedia, famiglia, cultura, leggi…)
2) Una
scansione dell’attesa, di una palingenesi che rimetta tutto in gioco e risolva
i problemi
3) Una
scansione incoerente e nichilista, in cui niente ha valore e tutto fluisce
indistinto
4) Una
scansione interiore, fondata su criteri personali, ma interconnessa con il
mondo
Nel primo caso, la durata di una
conversazione non dipende da noi, ma dalla qualità dell’interlocutore e dall’importanza
assunta dall’argomento in relazione ai condizionamenti sociali. Se nella
gerarchia sociale l’interlocutore è su un gradino più basso, siamo noi a
gestire il tempo e a decidere come e quando staccare; ma se è su un gradino più
alto, dobbiamo subire una volontà esterna. Il tempo si coniuga con l’idea di
dovere, per cui si dedica più tempo alle persone o alle attività che
s’inseriscono nei doveri primari (famiglia, lavoro, civismo). Sorge la
difficoltà di creare un equilibrio tra i diversi ambiti (vasi comunicanti e
vasi non comunicanti). Se per esempio trascuro l’educazione dei figli per il
lavoro, mi rimane la consapevolezza di un’infrazione e di una disarmonia. Chi
rifiuta di colpevolizzarsi finisce con lo scaricare sugli altri, creando
tensioni e conflitti. Il nostro tempo di vita è dominato dalle regole, dalle
convenienze, dalle formalità, dai legami, dalle ambizioni, dagli affetti, dalle
necessità. È un
tempo politico, che subisce mutazioni a livello sociale (cellulari,
televisione, pendolarismo, disoccupazione…).
Il tempo non
appartiene al soggetto, che ne fa un uso subordinato.
DRAMMATURGIA
DELLA DURATA SUBORDINATA
Il drammaturgo,
nella scrittura dei dialoghi, fotografa la realtà, riportando nella propria
drammaturgia le esigenze di sviluppo del parlato e dell’azione in quanto legati
alle strutture sociali e ai codici in uso. Può muoversi tra il naturalismo e l’indagine
psicologica effettuata però sempre con gli stessi codici: i personaggi indagano
sé stessi e gli altri per mostrare quanto dei mondi interiori non traspare
dalle conversazioni e per svelare le motivazioni e gli obiettivi delle azioni.
Alla parola spesso
si unisce il silenzio, metafora di quanto la parola non riesce a comunicare.
Il testo si fa “pirandelliano”
e tratta di inconscio o mito senza lasciare il salotto borghese, le sue
convenzioni, il suo linguaggio. La parola predomina sul corpo e sul ritmo. Il drammaturgo-esegeta interpreta il
proprio tempo e fornisce accurate e affascinanti interpretazioni razionali
della realtà e della società. Il suo è un vero e proprio mestiere e con i
collaboratori ha relazioni puramente professionali.
Nel secondo caso, il tempo viene
strutturato in modo frettoloso e non approfondito, invitato a divorare sé
stesso per condurre il più in fretta possibile là dove si ritiene che si trovi
l’unica cosa desiderabile.
Ne nasce un
confitto: più il tempo accelera più si fa passato, riducendo la potenzialità
del futuro. Il presente si fa angoscioso. Diventa difficoltoso stabilire
relazioni funzionali e serene con le persone, con gli oggetti e con le
attività. Niente può dare soddisfazione quando l’illusione, la speranza
ossessiva, la fede in qualcosa di trascendente capace di dare un significato al
tutto e di assicurare la felicità.
In alcuni momenti la
durata è convulsa, in altri rallentata fino a potersi definire comatosa. Essa
non dipende dalle relazioni sociali o dalla tassonomia delle attività, ma dalla
sua funzionalità nei riguardi delle aspettative.
C’è un progetto di
vita al quale si subordina ogni altra cosa. C’è quindi anche un settorialismo,
una specializzazione che limita lo sviluppo dell’attenzione e dell’interesse
verso altri campi.
DRAMMATURGIA DELLA
DURATA FINALIZZATA
Le convenzioni
vengono stravolte, in quanto i dialoghi devono essere impregnati di ideologia,
fede, messaggio, dottrina… La realtà subisce una semplificazione, la scena si
fa didascalica. Non conta tanto l’espressione individuale, quanto quella di
gruppo o di componente sociale. Il livello artistico viene subordinato all’efficacia
della comunicazione. Si fa leva sulla razionalità o su emozioni e sentimenti
semplici e ben definiti. Il linguaggio può fare uso di retorica, iperbole, allegoria,
invettiva, enfasi… Il livello politico o religioso della rappresentazione soffoca
quello artistico. Il drammaturgo-profeta
è impegnato in una missione ora tra piccoli gruppi sociali ora a favore dell’umanità
intera. Con i collaboratori fonda un gruppo che è comunità, in cui le esigenze
personali vengono in apparenza subordinate agli obiettivi primari. Egli è
portatore di rivelazione.
Nel terzo caso, il tempo è il nemico.
Esso invita attimo dopo attimo alla comunicazione e all’attività, quando invece
si ritiene che non vi nulla da dire e che non valga la pena di fare niente. Il
tempo svuotato si vendica creando un effetto durata infinita, in cui perdersi
come in un delirio. Si cerca l’obnubilamento e si evitano tutte le occasioni di
coinvolgimento. S’instaura un livello massimo di interiorizzazione, e il
conflitto nasce dal voler vivere ogni cosa in prima persona e dal rifiuto di
vivere. Tutto viene riportato a sé stessi senza voler dare una risposta mentale
o fisica, a parte le reazioni inconsulte e spropositate. Si vuole vivere senza
vita e si cozza contro l’impossibilità di rendersi assenti in vita.
DRAMMATURGIA DELLA
DURATA INSENSATA
Il drammaturgo non
intende fare uso di un linguaggio codificato. E nemmeno subordinare il
linguaggio a un messaggio, un’invettiva, una critica. La sua scena può essere
fuori del tempo e in uno spazio non identificabile. I suoi personaggi sono emblematici.
L’urgenza del dire prevale sulla sistematicità dei contenuti. L’approfondimento
è vissuto come inutile e dannoso all’efficacia estetica.
Il tempo subisce
deformazioni dovute a scelte impulsive e giustificate solo dal fatto di essere
scaturite dalla sua creatività. Il drammaturgo non sviluppa il controllo su sé
stesso e sulla propria produzione. Vive l’autocritica come attacco alla propria
integrità.
Il drammaturgo-artista
ha difficoltà di relazioni con tutti, dal regista all’attore, dal critico al pubblico.
Ciò di cui non vuole prendere coscienza è che al di sotto delle formule
provocatorie, originali, avanguardistiche, innovatrici… ci sia in realtà un
vuoto di vita.
Nel quarto caso, il tempo non è vissuto
come flusso unidirezionale uniforme e continuo, ma come categoria dell’esistere
legata allo spazio, alla percezione, allo stato d’animo, alla comunicazione. Come
per magia il tempo perde ogni rigidità e il flusso ininterrotto può rallentare,
mettersi in pausa, o accelerare quasi a comando. Nel nuovo flusso del tempo le
metamorfosi della materia non sono vissute come declino e deterioramento, ma
come compenetrazione del tutto nell’uno e dell’uno nel tutto.
L’inevitabilità
temporale della vita è vissuta con serenità e se ne fa anzi motivo di
comprensione allargata. La scansione come accettazione elimina l’ansia e
instaura reciprocità: l’uomo che si inchina al tempo, vede il tempo inchinarsi
a lui.
La durata delle
cose non è quindi opprimente o svuotata, ma sempre ricca di significati. Ciò
che si scopre e si accetta è un grado di comprensione più alto di ogni singola
ideologia. La spiegazione degli eventi non è storica, né geometrica. Si rifiuta
la facile razionalizzazione e si accetta la dimensione della non-sapienza e del
mistero, senza però proiettarlo nel divino.
DRAMMATURGIA DELLA
MISURA
Il drammaturgo-narratore scansiona l’opera
secondo un tempo interiore interconnesso con la realtà. Egli, più che
spiegarla, vuole raccontarla facendo uso di tutte le potenzialità linguistiche.
Evita quindi di farsi limitare dalla coerenza storico-geografica del
personaggio, rifiutando un linguaggio mimetico che più che vivo lo renderebbe fotocopia
del reale. Insieme al personaggio cerca modalità ritmico-espressive per
raccontarsi. Lo scorrere naturale del tempo non impone obblighi, se non quello
di dare coerenza espressiva alla vicenda. Il tempo ora sembra fermarsi, ora
subisce brusche accelerate; oppure si rende assente e poi ricompare per
rassicurare lo spettatore. Le chiacchiere da salotto vengono prosciugate e le
parole selezionate ignorando le convenzioni. I personaggi raccontano sé stessi
senza bisogno di didascalie e il loro fraseggiare non risulta mai inutile o ridondante.
La narrazione non ha lo scopo di rassicurare lo spettatore e di fargli da
ninna- nanna, ma di scuoterlo, di emozionarlo, di riportare l’attenzione persa
sul cuore della questione, di interessarlo ad aspetti nuovi, di toglierlo dall’apatia
e dall’atteggiamento freddo, distaccato, acritico.
La narrazione è emozionante,
ma non si fa travolgere dalle emozioni. La misura è nelle parti, nella dizione,
negli effetti, anche quando la scena è violenta e impressionante.
La misura è
equilibrio e armonia, espressi attraverso la libertà d’espressione, il gioco, l’invenzione
linguistica. Essa mostra uno sguardo disincantato sul mondo, spietato come le
lenti di un obiettivo, empatico come quello di una madre, ardito e concreto
come quello di un padre.
Il drammaturgo,
infine, dilata il tempo fino a concepirlo nella sua totalità. Ogni evento si
pone fuori della storia e allo stesso tempo si fa sintesi di tutta la storia
umana. Non scrive di salotto, ma di pianeta.
La sua scansione è
piena di vita perché prende l’avvio dalla morte.