Sono le venti, una sera calda, estiva. Il giardino è un trionfo. Io, al trionfo, strappo erbacce in continuazione. Bagno i vasi, trapianto il goyi, metto a dimore le due cimicifughe e i due ibisco cinesi di Betti. Ho raccolto zucchine, cetrioli e rucola. Finite le bacche di amelanchier, ho ancora ribes rosso e nero, i lamponi e le fragole; e proprio stamattina ho mangiato i primi mirtilli. Stanno crescendo le banane dell'asimina, il pawpaw dei nativi americani; i fichi, le pere e le prugne. Generoso, il mio giardino. Ci saranno poi le nespole e i cachi.
Ogni giorno faccio il giro delle piante, dei cespugli, dei fiori... e non parlo loro, no. Come non parlo con gli animali. come cerco di parlare poco con gli umani. Le guardo, le penso, mi sforzo di intuire le loro necessità: terreno, concime, pacciamatura, acqua, ombra o sole, potatura...
Insieme alle piante, dentro di me porto la scrittura. Finalmente il quarto libro di Albino si è sbloccato. Sono a due terzi e mi dà soddisfazioni. Se sia un buon libro o meno non lo so, qualcuno me lo dirà. Non ci scrivo per molte ore al giorno, non serve. La scrittura intensa sfibra, ma soprattutto deve essere prima rimuginata, in modo che esca dalla tastiera già pronta per la stampa.
Osservo le piante, le controllo. Osservo le pagine scritte e opero un controllo continuo, in ogni ora del giorno. ripenso agli eventi, ai personaggi, alle emozioni cedute alla pagina e che dalla pagina dovrebbero poi trasmettersi al lettore. Un libro lo faccio così, portandolo in me anche quando vado in paese in bicicletta, o mentre mangio e guardo la televisione, e anche mentre leggo cose di teatro (leggo, cambio direzione, penso, sogno, il libro si fa avanti in ogni situazione, prepotente).
Vado a letto e sogno il libro; mi sveglio al mattino e sogno il libro. Tanta elaborazione mentale (niente di sturm und drang, tutto è lento e pacato) fa sì che quando mi siedo davanti al portatile, nella veranda a nord, su cui sta piovendo un tramonto di velluto che indora le piante grasse e le succulente (tra gli ultimi acquisti, un baobab alto venti centimetri che sta fogliando, un'emozione), le parole ci siano già, pronte a splendere, nere e fitte come formiche impietrite nell'estasi, sullo schermo.
E parola dopo parola la fatica sottile ed estenuante fa scalare pagine, e poi capitoli; e quando arriverò alla fine dirò a me stesso: finalmente, ma con un dispiacere acuminato.
Dovrò andare subito in cerca di un altro libro. Ogni spazio temporale vuoto di scrittura è come terra incolta, la guardo e mi dico: lì bisogna che ci pianti qualcosa. altrimenti, la terra non ha senso. e così la vita, se non incido parole su questo fondo bianco marmoreo, una lapide.
Il libro s'intitola I PIACERI DELLO SCUDO E DEL PORPORA.
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