Marta Osti ha elaborato la semplice scheda proposta agli spettatori, contenenti trenta parole da cerchiare a piacimento. La scelta vede ai primi posti: angoscia, repulsione, divertimento,
fastidio, rabbia, sconforto, compassione. Ci ritroviamo il mix spiazzante dei primi due spettacoli, soprattutto di MAMMA MAMMAZZA, quando molti spettatori non sapevano se fosse lecito ridere, e fino a che punto, dato che divertimento e dramma si contendevano la scena. Di sicuro il pubblico si è sentito coinvolto e ha vissuto lo spettacolo in modo conflittuale, ritrovandosi nell'animo sentimenti ed emozioni contrastanti.
Questo coinvolgimento non porta alla catarsi aristotelica, ma lascia un senso di disagio che diventa il ponte tra il teatro e la realtà. Il teatro diverte, affascina, stupisce, ma non distoglie dalla crudezza e dalla verità di una realtà quotidiana che molti spettatori preferirebbero ignorare.
Infatti, come era già accaduto per VERGINELLA, subito dopo nella graduatoria di parole troviamo speranza e incredulità.
Speranza perché, anche se non è esplicitata nel testo o nella rappresentazione, costituisce sempre un bisogno ineliminabile, quasi una sfaccettatura dell'istinto di sopravvivenza che ci tiene lontani dalla disperazione; e incredulità perché tutto quello che di orribile ci passano i mass media sembra essere meno efficace del teatro.
Di fronte a pedofilia, violenze in famiglia e sistemi sociali prevaricatori e schiavizzanti, le persone mostrano una mancanza di conoscenza poco realistica e una volontà di ignorare, a difesa di un Io con tendenze schizofreniche. La realtà è tale per come la vogliamo, non per come è.
Questa è la lettera di uno spettatore qualunque, non di un critico o di una persona di teatro.
Definire bello il quadro
“Guernica” di Pablo Picasso è banale, quanto potrebbe essere banale definire
gradevole “Arancia meccanica” di Kubirik, ma entrambi sono capolavori in quanto
esprimono splendidamente i concetti di odio e violenza.
Non mi aspettavo assolutamente
nulla di quanto ho visto prima di mettere
piede in teatro, e durante i primi quindici-venti minuti di
rappresentazione mi sono sentito particolarmente infastidito dal pesante
turpiloquio, come se io stesso non lo usassi continuamente tra amici e
colleghi, o come se non fossi abituato a sentirlo in televisione o al cinema.
Forse, agli attori di cellulosa, o a quelli che fanno visita via cavo nelle
nostre case, così astratti, tutto è concesso.
MA AGLI ATTORI DI TEATRO NO!
LORO, che sono cosi vicini allo
spettatore, così PALPABILI, NO!
LORO DEVONO COMPORTARSI BENE. LE
PAROLACCE NON SI DICONO.
Bel discorso da bigotto.
Ad un certo punto però, quatto
quatto, piano piano…
SLAM!
E’ arrivato lo schiaffo in faccia.
CHE MALE!
Simile allo schiaffo di un padre
che ti colpisce per farti capire.
OH! SVEGLIA,
scendi giù dalle nuvole: ieri un
padre ha buttato i due figli dalla finestra, l’altro giorno un baby sitter ha
violentato una bambina di tre anni, TRE ANNI CAZZO! Genitori che mandano le
figlie a prostituirsi per farsi due righe, ci si ammazza per un posto auto, si
muore a vent’anni per una pasticca. Il telegiornale ci fornisce un copione a
prova di censura…….
PERO’ SENZA PAROLACCE!
Credo di aver assistito a qualcosa
che non avevo mai visto prima:
ci sono film o rappresentazioni
teatrali che piacciono per quelle due
ore, ma poi non lasciano nulla; altri, che non riesci a toglierti dalla testa,
neppure quando torni a casa a dormire, e neppure il giorno dopo e quello dopo
ancora. “CANI CANI” è uno di questi.
La mia riflessione è fresca
fresca, sto scrivendo di notte, durante una pausa sul lavoro.
Impegno quotidianamente il cento
per cento della mia vita alla MIA famiglia, è il valore in cui credo di più in
assoluto, quindi pensa che colpo trovarmi di fronte a QUELLA famiglia.
Tatù: un lurido porco schifoso e incestuoso dal turpiloquio facile
(mondo sputo è quella che mi è piaciuta di più) interpretato in maniera
magistrale.
Chicce: uno schifo di madre, simbolo di uno stile “ velinista” che
sta distruggendo i migliori valori.
Burgo: cinico mercante di esseri umani, viscido.
Lo: Bastardo impotente che ha sostituito il suo pene con il
cannone, bambino che non vuole crescere e gioca ancora con le armi. Uff! quanti
ce ne sono in giro, poi se non è una pistola è una play station, ma il concetto
non cambia.
Canbet: la vera madre, lo si vede nell’istinto protettivo nei
confronti di cancion: PRENDI ME AL SUO POSTO MAMMA! Disposta a morire per
l’amato fratello.
Cancion: che affronta il tema della morte con struggente poesia e
che non viene rispettato neppure dopo morto.
Canfil: forse la più vittima fra tutte, che al contrario di Cancion
e Canbet non può neppure godere dell’amicizia-complicità tra fratello e
sorella, forse per questo li tradisce raccontando della gravidanza allo zio.
Toccante l’indifferenza con cui descrive a Canbet la morte di Cancion.
Non posso fare altro che
complimentarmi con tutti voi e confesso che mi spiace non aver assistito alle
altre due rappresentazioni della trilogia."
Maurizio Costa
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