venerdì 10 agosto 2012

SE MUORE UN ARLECCHINO - LE POESIE


"Se muore un Arlecchino" contiene anche tredici poesie, in coda ai capitoli. Albino Guidi... "scriveva solo quando un improvviso solletico mentale gli faceva trattenere il respiro, nell’attesa di trasformare in parole l’impressione prepotente, visione sfocata di un paesaggio inesplorato." 


Questo canto è in un giardino
breve:
uno sguardo per guardare,
il silenzio da ascoltare.
Tanto incanto in questo lieve
spiumare di fronda in fronda,
meteora il lucherino.
L’estensione dell’esistente
è così grande in questo
niente:
di stagione in stagione,
vi si perde la ragione.

Ièra on omo, on omo basso,
co la testa no pì alta del so casso.
El voleva comandare tuti quanti,
par decreto del Signor e tuti i santi.
Ièra on om providenziale,
on crociato contro el male,
e la zente l’ha gridà:
questo sì che ben ci va!
Xe vegnuo in la mia casa
e go dito: oh che tu fasa
che ‘l padrone qua son io?
M’ha svardato come un dio
svarda bieco na criatura,
po’ m’ha fatto portar via
da’ sui sbirri e casa mia
n’han butato giù le mura.


Fidati di me, disse l’uomo, ti fidi di me?
Dici cose strane, cose terribili.
Fidati di me, come io mi sono fidato di lui
così tu fidati di noi, d’altronde tu sai chi è lui.
Dici cose terribili, che mi spaventano.
Fidati, lo dice lui.
Devo mentire anche a mio figlio?
Sempre, se ne trai vantaggio, anche a te stesso.
Devo dunque ingannare mia moglie?
Tutti ingannano tutti, tu fallo per primo, e ne trai
vantaggio.
Fingermi amico e solidale? Fingermi comprensivo e promettere
tutto il mio aiuto?
Sempre, prometti sempre, qualunque cosa.
Cose terribili.
Fidati di lui.
Accusare mio figlio? Svergognare mia moglie?
Chiunque, se ti è d’ostacolo. Tu bada solo
alla tua convenienza.
Pugnalare alle spalle è terribile.
Fidati.
Devo odiare? Considerare gli altri burattini
da manovrare a mio piacimento? Disprezzare? E tagliare la testa a chi
a chi si oppone? E vedere me stesso lassù, in cima al mondo, un dio?
Fidati di lui, che già sta lassù.
E comandare isterico se cade una foglia che io non voglia? Così
così devo diventare, un dio folle?
Fidati di noi.
E poi io, tu, lui… che cosa faremo lassù, ci sbraneremo? E loro
quaggiù, loro…
Fidati, loro non contano niente.


Ci vuole un vento forte, di tempesta
che sibili sconquasso, fragoroso.
I suoi artigli con moto vorticoso
afferrino costoro di cui basta,
non si tollera più la guasta casta:
il limite han passato, sia finita.
Li portino lassù tra terra e cielo,
dove l’aria non ha miasmi, è pulita,
e di colpo dagli occhi strappi il velo
che li ha resi ottimati vincitori
e non sono che feccia truffatori.
Stan nudi sulle nubi e impenitenti
si proclamano già santi e innocenti
e allora dopo il vento una bufera
dalla voce fatale, forte e fiera
li porti via per sempre, e poi sia festa.


Ripongo la legna. A quella stagionata cade la corteccia,
l’abitano cimici e ragni, secca e polverosa la solcano
gallerie di piccole creature scomparse chissà dove.
Di mezza stagione, il tepore del camino è svelto
e più intenso l’aroma che mi segue in casa,
come aprire la porta sui boschi di abeti. La
ripongo sotto la tettoia “ci verranno i topini” mi dice il vicino
generale in pensione, e io: “c’è posto per tutti”.
Tornano verdoni cinciallegre pettirossi
a spiare se ho messo acqua e becchime
contro l’inverno di fame di gelo.
Saremo di nuovo insieme: loro folletti di rami e d’aria,
io sguardo alla finestra, nel mio nido assediato dal mondo.


Ho visto ed era buio
on omo nero, on omo bruto.
E d’intorno, ed eran mute,
cento e mille v’eran d’ombre,
le sue anime perdute.
Lalalà lalalà,
cento e mille et una lama
son brillate alla mia gola.
La mia vita, ch’era sola,
s’è piovuta via col sangue
a fare on lago, ‘l sangue mio.
Così è morto on senza dio.


Siedi accanto a me, sorella
volto esangue,
nati insieme e da quel giorno
mi segui passo passo, ombra
cui non serve il sole.
Raccontami di te e del tuo potere
di annichilire mondi in lenti autunni,
schiantare i fili d’erba dei respiri
e fare i mondi desolati
in cui cerchiamo pace.


Marinar che vai a vela,
cosa vedi che ti sgela?
È ‘l mio cor, era ghiacciato,
mò lo sento innamorato.
La sirena co ‘l suo pianto
m’ha robbato in on incanto.
Or mi porta in fondo al mare
a morire, e questo è amore.


Una gazza mi zampetta in petto,
là dove dicono cuore
faccia rima con amore.
Tronfia, crudele occhietto,
a beccate scava un vuoto
di dolore.
E il giorno muore.


L’Arlechin perde i colori, a uno a uno
glieli strappano dal cuore.
Li vedi là alla deriva
dove l’onda muore,
sulla chiglia rugginosa
di una nave incagliata,
nell’acqua fangosa.
Marinai ebbri
berciano una canzone sbracata, uno sbraita
spara ai pesci! spara ai pesci!
e così fa il compare.
Ta ta ta ta ta!
Spara al mare e al cielo,
spara ai sogni sulle nubi e sotto l’onda:
colpisce l’Arlechin
che affonda.
Oh, l’Arlechin ferito!
Non ha più nemmeno voce,
non ha più nemmeno vita: la sua
commedia è finita.


È piombato giù dal cielo
on puer bellissim, da mirare,
che m’implora, gli occhi boni:
“Famme entrare,
ch’el mio pare me vol morto.”
Io allora apro la porta.
Tutti i zorni e anco le notti
bussa e bussa e bussa ancora,
el Signor che me rintrona:
“Damme l’agnolo a morir!”.
E io canto ‘sta canzon
del parón, e del patir.


Vola in alto, sopra i miasmi,
sopra gli esseri striscianti,
sopra quelli che si uccidono:
stanno in basso i servitori,
tra i padroni e i loro complici.
Vola sopra le parole,
che di buone non ce n’è,
sopra i traffici e i commerci,
vola in mezzo a chi ha ali buone:
l’aria è limpida e lo sguardo
va lontano.
Vola in aurea solitudine:
tutto illumina.


Il giardino si spegne alla sera,
ma l’uccello non smette di cantare.
Ha le ali e potrebbe volare,
ma non vola e non smette di cantare.
Non c’è niente
di più tragico e triste.
Dalla foglia che annera
l’uccello canta, insiste, si dispera e,
solo, si confonde alla sera. Grumo di buio
che canta, sono chiuse tutte le porte.
Forse lo ascolta la luna,
che ha solo mari asciutti e valli morte.





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