venerdì 21 febbraio 2014

TEATRO IN GIOSTRA

Per Carnevale arrivano i baracconi. Passo davanti alla giostra dei bambini, il classico girotondo di cavalli, moto, auto e aerei. Non mi colpisce la musica (una canzoncina contemporanea, ma i ritmi sono sempre quelli) bensì la voce della ragazza che più o meno dice: “Bambini, siete pronti? Siamo in partenza, tutti in carrozza, si parte! È una voce rassicurante e cordiale, ma non accattivante; la voce di chi fa bene il proprio mestiere e basta; non intende conquistare i bambini e non si rivolge a nessuno di loro in particolare. 

Superato l’effetto Proust (quanta emozione, intabarrato sotto cappotto, sciarpa e cappello, le mani strette sul volante, lo sguardo imbarazzato fisso davanti a me con qualche occhiata di controllo verso i genitori… quanta emozione nel viaggio circolare stordito dalla musica, dalle scampanellate, magari da una sirena e su tutto la voce trionfante del giostraio! l’emozione del disorientamento: è realtà o fantasia? sto davvero pilotando un aereo?), mi dico: non sta facendo teatro, la ragazza? Teatro onesto, nel quale lei recita con convinzione e passione la propria parte, ma senza la pretesa di piacere a tutti. La sua è una proposta: si paga il biglietto e si sale sulla giostra. Da quel momento in poi, ognuno è libero di sognare come gli pare. Anche di piangere. Anche di dissentire gridando di volere scendere. Lei, in ogni caso, continua a recitare la propria parte, per niente condizionata dalle reazioni della clientela.

La sua onestà consiste nel non rendersi protagonista e nel non pretendere il protagonismo da nessuno dei suoi clienti. Chi vuole fare il giro da protagonista, lo faccia, ma per conto suo. C’è posto per tutti, ognuno viva l’esperienza a modo proprio.
Questo atteggiamento incrementa il fascino della giostra. Nessuno coinvolge i bambini più di tanto. Anche il gioco di afferrare il codino è facoltativo. C’è chi balza in su aggressivo e chi invece allunga la mano di poco, timido; e chi non si muove nemmeno, inchiodato sul sedile da un’emozione che gli strozza la gola.
C’è forse un pubblico, per la ragazza? No, nessun bambino fa caso a lei. Il bambino è catturato dall’amalgama sonoro-visivo-cinetico: musica, parole, rotazione, campanelli, sirene, brusio, traffico, clacson, il movimento delle mani sul volante, la torsione del capo per lanciare occhiate sulla gente tutto intorno… una sinestesia da overdose.

Quando un attore-narratore-intrattenitore-mattatore ecc. concentra su di sé lo spettacolo, crea una frattura violenta e deleteria con gli altri elementi scenici, costretti a fargli da cornice. Egli non collabora con la musica e la scenografia, ma si piazza alla ribalta e spinge tutto il resto indietro. Il suo protagonismo non avrebbe senso senza un pubblico e deve attivare una parte del pubblico e spesso solo alcuni elementi. Devi coinvolgerli per forgiare lo specchio in cui contemplarsi.
Ogni protagonismo ha bisogno di una spalla, che a suo modo è essa stessa protagonista, seppure di grado inferiore.
Questa prevaricazione dell’attore sugli altri elementi scenici tende a incrementare il consenso popolare (l’imbonitore che vuole più clienti) a spese della purezza e dell’onestà artistica. Egli oscura il teatro per imporre se stesso al pubblico e per compiacerlo e per tirarselo dalla propria parte. Si tratta quindi di un involgarimento. Se la ragazza della giostra si mettesse a ballare sopra una vetturetta, certo attirerebbe l’attenzione dei passanti, che per continuare a fare da spettatori pagherebbero volentieri un giro ai loro bambini. Ma i bambini sarebbero recalcitranti. Loro, che conoscono le sottigliezze dei giochi di immaginazione, rifiuterebbero una poesia lordata dalla volgarità del linguaggio quotidiano; e non vorrebbero più salire su un aereo perché lo vedrebbero con gli occhi disincantati dell’illusione infranta: un aereo finto che non vola.

Se si rompe l’incantesimo del tutt’uno di voce, musica, canto, movimento e visione; se uno di questi elementi tradisce gli altri asservendoli al proprio successo… il teatro si riduce a spettacolo e lo spettacolo senza teatro lo fanno già tutti i giorni i barzellettieri dei bar, le pettegole della piazza, i politici e gli istrioni della televisione.
Il bambino va in giostra non per farsi vedere dagli adulti e dai coetanei assiepati intorno e nemmeno per ascoltare che cosa dice la signorina al microfono; solo per godere di un’armonia emozionante e non casuale, di cui usufruire senza obbligo né invadenza.
Il teatro non ha bisogno né di protagonismo né di pubblico.

E la giostra giura e gira. È uno dei miti dell’infanzia. E gira e gira… È un rito che si ripete. Uguale nella sostanza, diverso solo nei dettagli: invece che il camion dei pompieri ora salgo sulla slitta. E mi viene da pensare alle origini misteriose del teatro. Si ripete alla nausea che è nato dal mito e dal rito e molti giurano dalla religione. Eh, sì, perché la religione deve entrare dappertutto.
Ma se fosse il contrario? Se fossero mito e rito a essere nati dal teatro? E, di conseguenza, anche la religione?
Quando l’uomo ”primitivo” (che mistero questo uomo primitivo a cui si può aggiudicare di tutto) ha elaborato la realtà come distinzione tra sé e il mondo (un processo simile a quello infantile) e ha cercato la comunicazione con il mondo sia dentro di sé come condivisione sia fuori di sé come molteplicità di forme viventi, che cosa ha fatto? Ha imitato il passo saltellante degli uccelli e ha danzato; ha imitato i versi degli animali e ha cantato; ha glorificato la caccia o la vittoria in battaglia e ha raccontato.
Ha fatto il teatro.
E poi ci ha costruito dentro i miti, i riti, le religioni, tutto quello che ci volete mettere.

E questo è un altro capitolo.

venerdì 14 febbraio 2014

CENTO DONNE A MEZZOMERICO













Che ci fanno più di cento donne per le strade di Mezzomerico, un paese di 1200 abitanti? Tutte vestite di nero con un una squillante nota rossa? Perché portano una sedia? Dove vanno? Vanno in piazza a fare “One Billion Rising – Fermati a pensare, fermati a ballare”.

La sedia è quella sulla quale per migliaia di anni le donne si sono sedute in attesa degli uomini di casa, la cui vita era fuori. La sedia per pulire le verdure, rammendare, allattare il neonato. La sedia per invecchiare. La sedia per mangiare in un angolo, quasi di nascosto. Ma anche la sedia per scambiare chiacchiere con le vicine sulle soglie o nel cortile. Ma non è pesante da portare? Certo, ma le donne sono forti. Sono forti da migliaia di anni. Ecco, raggiungono la piazza del municipio. Si siedono. Fanno un cerchio largo, così possono guardarsi in faccia. Donne che guardano donne. Che cosa avranno da dirsi? Si dicono il silenzio. C’è dentro tutto. Una musica ipnotica le trasporta in altri luoghi, in altre epoche, in altri scenari… eppure ovunque si vada e in qualunque tempo della storia ecco che questo silenzio ipnotico racconta le stesse cose: stuprata ammazzata picchiata schernita insultata rifiutata umiliata cacciata. Non sono belle cose. Quando una voce di uomo rompe il silenzio, vuole esprimere una partecipazione: fermati a guardare il dolore delle donne la paura e l’umiliazione la solitudine fermati e ascolta la solitudine il dolore delle donne la paura e l’umiliazione fermati a pensare alla paura e all’umiliazione alla solitudine al dolore delle donne fermati a pensare.

Le donne si alzano, lasciano la sedia vuota: via, via, bisogna muoversi, cambiare; ma sulla sedia rimane un fazzoletto rosso, una ferita. Ci si scambia il posto, io occupo la tua sedia e tu la mia, siamo donne, possiamo farlo, abbiamo una storia comune. Di nuovo sedute. Chi si ferma a osservare cento donne sedute in silenzio, nerovestite con una goccia di sangue, percepisce una potenza nascosta che si esprime nella comprensione e nella pietà, nella condivisione e nell’ostinazione a cercare la via della giustizia, e infine nella determinazione a ripetere agli uomini: basta, basta.


E poi esplode “Break the Chain”, ma è un’esplosione tenera e armonica. L’aria del crepuscolo è accarezzata dai movimenti fluidi, cento donne ballano, il ritmo aumenta, ci si passa una sensazione di vita che riaffiora comunque con l’energia di un germoglio o di una fioritura nella palude della prepotenza bruta. Cento donne ballano per dire sì alla vita, sì alla giustizia. Cento donne ballano in tutto il mondo. Su tutto il pianeta milioni di donne ballano per rompere le catene.

lunedì 3 febbraio 2014

IL TEATRO COME RITO DI PASSAGGIO INCOMPLETO

Nell’introduzione all’ultimo libro dell’antropologo Victor Turner (1920-1983) “Dal rito al teatro”, Stefano De Matteis sviluppa il concetto di dramma sociale. Esso comprende conflitti interpersonali, interfamiliari, classisti, razziali, territoriali, ideologici, internazionali… e va quindi dalle incomprensioni coniugali alle guerre fra stati.
“L’antropologia della performance è stata coniata dall’antropologo Victor Turner. Dopo le sue ricerche tra gli Ndembu in Africa, dove individua il fenomeno del dramma sociale, si occupa di tutte quelle espressioni e di quei linguaggi – come i tanti generi di performance – in cui si mostrano e si discutono gli aspetti critici della vita: si tratta di elaborazioni che mettono in scena o semplicemente mostrano i momenti drammatici dell’esistenza, così come può esserlo un dramma di Shakespeare, rispetto alle storie che l’hanno ispirato. Importante, per la definizione dell’antropologia della performance, è la collaborazione che Turner ebbe con Richard Schechner, regista e teorico del teatro americano” (da Wikipedia).
Un antropologo, quindi, che vede la stretta connessione tra il rito e il teatro.

Lo sviluppo del dramma sociale avviene secondo le seguenti fasi: infrazione, crisi, azione riparatrice, reintegrazione o riconoscimento dello scisma. L’esito, quindi, non è scontato. Il dramma può sfociare in una riconciliazione, ma anche in una rottura netta e definitiva che dà origine a un’altra famiglia, a un altro gruppo, a un’altra religione, a un altro stato e così via. Ogni struttura socialmente accettata e difesa può generare un’antistruttura sostenuta da una communitas (associazione spontanea fondata non su considerazioni politico-economiche e sulla gerarchizzazione sociale, ma sull’uguaglianza e sulla comunione d’intenti, con strategie creative e innovative) che opera per analizzare, giudicare e modificare lo status quo.
Afferma Turner che “il dramma sociale è una sfida perpetua a tutte le aspirazioni alla perfezione dell’organizzazione sociale e politica”. Da un lato, quindi, l’illusione che la società sia perfetta e possa durare, dall’altro forme di critica e opposizione che perseguono le riforme o la rivoluzione.
Materia per l’antropologo Max Gluckman che scrive: “Il rituale ha il fine di mascherare i profondi conflitti che sono sorti”. Il suo pensiero fa parte della scuola di Manchester, critica verso il funzionalismo che definiva la società come un sistema funzionale ai bisogni fondamentali dell’uomo: “la funzione della magia è quella di ritualizzare l’ottimismo”.
Secondo invece Gluckman, la sfera religiosa e magica è uno degli strumenti per sedare le tensioni interne. E per impedire ogni modifica sociale.

Dall’enciclopedia Treccani alla voce “Religione”.
“b) Il funzionalismo
Negli stessi anni i sociologi andavano sviluppando un particolare tipo di analisi funzionalistica della religione. Il paradigma funzionalistico, ispirato al modello dell’organismo biologico, si basava sui seguenti postulati: che la società costituisce un’unità, che le sue istituzioni forniscono un contributo essenziale al mantenimento della coesione sociale e che tali istituzioni, in virtù di questa funzione, sono indispensabili. (…) Secondo Robert Merton, (però), è indispensabile per l’analisi sociologica distinguere tra funzioni manifeste e funzioni latenti. (…)
Un esempio di queste funzioni latenti delle credenze religiose è dato dai rituali di ribellione nell’Africa sudorientale studiati dall’etnologo inglese Max Gluckman (v., 1953). Egli analizza un rito per propiziare il raccolto, che si svolgeva ogni anno in primavera tra gli Zulu, la cui caratteristica saliente era il sovvertimento dei ruoli maschili e femminili. J.G. Frazer - che al pari di Tylor adottava un’interpretazione intellettualistica della religione - aveva ricondotto questo tipo di rituale al pensiero magico proprio dei popoli primitivi. Gluckman però restava scettico di fronte a questa spiegazione. Al suo occhio di etnologo non poteva sfuggire il fatto che tra gli Zulu covavano conflitti sociali tra uomini e donne. Richiamandosi alla nozione aristotelica di catarsi, egli affermò che la funzione del rito era quella di scaricare l’aggressività delle donne e quindi di ripristinare la stabilità sociale. La ribellione rituale può aver luogo solo all’interno di un ordine sociale che non viene posto in discussione, ed è quindi ben lontana da una rivoluzione sociale. Ciò che appare come un rivolgimento è in realtà funzionale alla conservazione dell’ordine sociale. (…) Alla luce di questa critica al funzionalismo classico un allievo di Gluckman, Victor Turner, ha reinterpretato anche il rituale di ribellione descritto in precedenza. Agli occhi di Turner la gerarchia sociale è fondamentalmente precaria, in quanto contrasta con l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini - la communitas, come egli la definisce. I rituali di ribellione pertanto sono sempre anche esercizi mentali per un’autentica rivoluzione. (…) I rituali di ribellione, si può concludere, non hanno una funzione esclusivamente catartica, ma possono diventare il modello di un nuovo ordine politico.”

Spesso i riti di ribellione si presentano in forma ludico-simbolica, come il flash mob delle donne contro la violenza e la parata teatrale quando porta per le strade il dissenso e l’alternativa. “Il rito - scrive De Matteis - accoglie e assume i conflitti e le crisi, dimostrandoli simbolicamente e mascherandoli nella sua forma, diversamente dal teatro che svela i conflitti e mostra le zone oscure dell’individuo e il malessere sociale.”

E aggiunge: “Dagli anni sessanta le strade del teatro si biforcano chiaramente in due, una imitativa e una produttiva. La prima risente del sociale, offre consolazioni attraverso convenzionalismi stereotipati, la seconda rielabora frammenti di realtà. Entrambe riflettono, una con compiacimento, una con cinismo. La seconda, quella più vicina agli esempi riportati da Turner, individua, rielabora, produce esperienze, si sottrae dallo spettacolo, tenta di ricollegare i fili di tradizioni tramontate, ne riscopre il principio attivo e cerca luoghi dove è possibile ancora fare esperienze e creare eventi. Fa molto di più che riflettere, mette in crisi e crea corti circuiti: produce cultura e chiama in causa, direttamente, lo spettatore.” Afferma Turner che “il teatro nutrito dalla civiltà non si limita a riflettere la società, piuttosto produce società”.
In conclusione, il rituale esprime un malessere sociale, e lo fa nel tentativo di risolverlo al suo interno, per riaffermare l’unità e la coesione della società. Esso, tuttavia, rappresentandolo simbolicamente, funge da allenamento per un reale scontro che ribadisca il conflitto e lo risolva con il cambiamento, opponendo alla struttura di società un’antistruttura di communitas.
Ascoltiamo ancora De Matteis: “Le radici del teatro sono dunque nel dramma sociale. (…) C’è perciò nel teatro qualcosa del carattere d’indagine, di giudizio e persino di punizione proprio della prassi legale, e qualcosa del carattere sacrale, mitico, numinoso, addirittura ‘sovrannaturale’ dell’azione religiosa, a volte fino ad arrivare al sacrificio”. E qui dovremmo rileggere Grotowski.

Esaminiamo, oltre al rito di ribellione, il rito di passaggio. Scrive Turner:
“Van Gennep, come è noto, distingue tre fasi nel rito di passaggio: la separazione, la transizione e l’incorporazione. La prima fase, la separazione, delimita nettamente lo spazio e il tempo sacri da quelli profani o secolari (…). Questa fase implica un comportamento simbolico (in particolare simboli che rovesciano o invertono cose, relazioni e processi secolari) che rappresenta il distacco dei soggetti rituali (novizi, aspiranti, neofiti o iniziandi) dal loro precedente status sociale. (…) Nel corso della fase intermedia di transizione, che Van Gennep chiama “margine” o “limen” (che significa soglia in latino), i soggetti rituali attraversano un periodo e una zona di ambiguità, una sorta di limbo sociale che con gli status sociali e le condizioni culturali profani a esso precedenti o successivi ha in comune pochissimi attributi, benché a volte di importanza cruciale. La terza fase, che Van Gennep chiama aggregazione o incorporazione, comprende fenomeni e azioni simbolici che rappresentano il raggiungimento da parte dei soggetti della loro nuova posizione, relativamente stabile e ben definita, nel complesso della società.”

Riferendoci al teatro, la fase della separazione è caratterizzata dalla preparazione dell’attore, che si appresta ad assumere un ruolo diverso dal quotidiano e a vivere in una realtà che infrange i limiti di spazio e tempo, oltre a utilizzare un luogo-palcoscenico che assume connotati diversi da quelli fisici. L’attore si stacca dalla realtà sociale e anche dal pubblico, che pur partecipando all’evento è relegato in una sfera diversa, nella quale la razionalità intesa come presenza critica impedisce di condividere l’esperienza di acting scenico. La separazione è accentuata da trucco, maschera e costume, oltre che da una gestione del corpo inusuale, legata all’espressività di caratteri e alla sintonia ritmica e spaziale con la messa in scena.

La fase finale, di aggregazione e incorporazione, parte dall’applauso, con il quale il pubblico segnala la rottura delle sfere che distinguevano il luogo chiuso della drammaturgia da quello altrettanto chiuso della platea (che rimane tale anche nei casi di coinvolgimento diretto dello spettatore, permanendo sempre una netta distinzione tra lui e l’attore, una diversità legata soprattutto a due diverse esperienze, profonda e totale quella dell’attore, solo estetica e intellettuale quella dello spettatore) e continua con l’invito agli interpreti a mostrarsi per come sono in realtà, non più personaggi ma artisti, concludendosi con l’operazione di espressione critica ed estetica sullo spettacolo, da condividere con altri spettatori. Ciò che fino a poco prima ha goduto della liminalità per allungare sulla realtà sguardi coraggiosi e ribelli, ora subisce il tentativo di essere fagocitato dal sistema sociale che è onnivoro e cinico, votato solo al proprio tornaconto, privo di valori stabili e assoluti. Non v’è liminalità rivoluzionaria che il sistema non riesca a conglobare in sé spegnendone ogni velleità riformista. “Ciò che ha successo e si vende è buono e ciò che fa fiasco e non conquista il pubblico è cattivo. L’unico valore è quello commerciale. La scomparsa della vecchia cultura ha implicato la scomparsa del vecchio concetto di valore. L’unico valore che esiste ora è quello fissato dal mercato” scrive Mario Vargas Llosa in “La civiltà dello spettacolo”.

Il teatro deve diffidare del pubblico, dal quale deve prendere le distanze. Deve farsi rito in sé e per sé, e offrirsi agli spettatori senza possibilità di esserne influenzato, lontano dalle dinamiche di successo-insuccesso. Un rito che rimane quindi incompleto, poiché l’esito di riconciliazione con il mondo sociale non viene preso in considerazione. Ciò che veramente fa il teatro non è l’applauso, ma la condizione di liminalità che si determina nelle prove senza pubblico e durante la rappresentazione con il pubblico.
Ilo passaggio di grado e di ruolo avviene già con la recitazione e non ha bisogno di crismi sociali.
“L’essenza della liminalità consiste nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra.”
L’attività entro il limen, al di qua o al di là della soglia (a seconda del punto di vista), non è di per sé fautrice di illuminazioni e cambiamenti. Scrive Turner: “Le fasi liminali di una società tribale invertono ma normalmente non sovvertono lo status quo, la forma strutturale della società stessa; il capovolgimento rende evidente ai membri di una comunità che l’alternativa al cosmos è il caos, e che quindi farebbero meglio a tenersi stretto il cosmos, cioè l’ordine tradizionale della cultura, anche se è loro consentito per brevi periodi divertirsi da matti a essere caotici, in qualche saturnale o lupercale o charivari o orgia istituzionalizzata.”
Conosciamo bene il teatro che assomiglia al carnevale, alla scampanata, alla goliardata, alla parata gioiosa e al corteo dionisiaco, alla chiassata dei chierici vaganti, alle fantasie dei saltimbanchi eccetera. Un’esibizione liberatoria, in netto contrasto con le richieste di compostezza e serietà del ruolo sociale. Questo circo, questo dimenarsi e cantare, sbraitare e inveire, provocare e dileggiare, questo ballare in modo sfrenato, questo canto osceno… viene biasimato, ma non impedito. Esso rassicura i “benpensanti”sulla solidità del cosmos contro il caos.

“Per alcuni la liminalità può essere l’apice dell’insicurezza, l’irruzione del caos nel cosmos, del disordine nell’ordine, anziché il luogo in cui il bisogno creativo trova soddisfazione. La liminalità può essere il luogo della malattia, della disperazione, della morte, del suicidio, il luogo dove i ben definiti legami e vincoli sociali normativi crollano, senza che nulla venga a sostituirli (…) La liminalità è insieme più creativa e più distruttiva della norma strutturale. Essa si fa antistruttura nella communitas.”
Ma mettiamo meglio a fuoco il concetto di liminalità nei riti di passaggio (per esempio dall’infanzia all’età adulta).
“Nella liminalità, le relazioni sociali profane possono essere interrotte, i diritti e gli obblighi precedenti sono sospesi, e può sembrare che l’ordine sociale sia stato sovvertito, ma a titolo di compensazione i sistemi cosmologici (come oggetto di uno studio approfondito) possono acquistare un’importanza centrale per i novizi, che sono posti dagli anziani, mediante il rito, il mito, il canto, l’apprendimento di un linguaggio segreto, e vari generi simbolici non verbali quali la danza, la pittura, il modellare la creta, l’intagliare il legno, il mascherarsi ecc., di fronte a schemi e strutture simboliche che equivalgono a insegnamenti sulla struttura del cosmos e sulla loro cultura intesa come parte e prodotto di esso, nella misura in cui entrambi sono definiti e compresi, implicitamente o esplicitamente.”

Nella liminalità, quindi, in questa fase di sospensione dei ruoli e dei poteri sociali, e di sovvertimento dell’ordine delle cose, si gusta un assaggio di anarchia creativa, che può condurre a scoperte fondamentali per il rapporto dell’individuo (contrapposto alla persona-maschera) con il mondo e la società; o che può essere ricondotto alla quotidianità pre-liminare nella quale ritrovare la tranquillità e la sicurezza del cosmos forgiato dagli dei e dagli uomini di potere.
“Il fatto che il teatro  sia così vicino alla vita, pur rimanendo distante da essa quel tanto che basta per farle da specchio, fa di esso la forma più adatta per il commento o metacommento di un conflitto, poiché la vita è conflitto (…) Senza i contrari non c’è progresso, come dice Blake, non foss’altro che nel senso che vita e morte, eros e thanatos, Yin e Yang, sono, per citare Freud, eterni antagonisti.” 

Il teatro può quindi avere inizio con le medesime modalità del rito: la separazione dalla realtà circostante e l’assunzione di una maschera in un luogo chiuso che segni il tempo e lo spazio di un mondo diverso dal quotidiano. Esso si sviluppa nella dimensione della liminalità, dove ogni sovvertimento è possibile e auspicabile. Infine, può uscire dalla liminalità e reintegrarsi nel mondo con aspettative legate ad applauso, recensione, successo artistico ed economico; oppure può rimanere nella liminalità negata ai non adepti, mistero condivisibile solo con l’esperienza diretta, e non giudicabile da osservatori esterni del mondo reale, dato che adottano criteri relativi alla struttura e non all’antistruttura generata dalla communitas degli attori. “L’uomo cresce attraverso l’antistruttura e conserva attraverso la struttura” scrive ancora Turner.

Solo rimanendo nel conflitto “le radici del teatro sono nel dramma sociale” come afferma De Matteis. E solo facendosi rito di simboli universali esso si sottrae alla dimensione del divertimento da consumo.