Nell’introduzione all’ultimo libro dell’antropologo
Victor Turner (1920-1983) “Dal rito al teatro”, Stefano De Matteis sviluppa il
concetto di dramma sociale. Esso comprende conflitti interpersonali, interfamiliari,
classisti, razziali, territoriali, ideologici, internazionali… e va quindi
dalle incomprensioni coniugali alle guerre fra stati.
“L’antropologia della performance è stata coniata
dall’antropologo Victor Turner. Dopo le sue ricerche tra gli Ndembu in Africa,
dove individua il fenomeno del dramma sociale, si occupa di tutte quelle
espressioni e di quei linguaggi – come i tanti generi di performance – in cui
si mostrano e si discutono gli aspetti critici
della vita: si tratta di elaborazioni che mettono in scena o semplicemente
mostrano i momenti drammatici dell’esistenza, così come può esserlo un dramma
di Shakespeare, rispetto alle storie che l’hanno ispirato. Importante, per la
definizione dell’antropologia della performance, è la collaborazione che Turner
ebbe con Richard Schechner, regista e teorico del teatro americano” (da
Wikipedia).
Un antropologo, quindi, che vede la stretta connessione
tra il rito e il teatro.
Lo sviluppo del dramma sociale
avviene secondo le seguenti fasi: infrazione, crisi, azione riparatrice,
reintegrazione o riconoscimento dello scisma. L’esito, quindi, non è scontato. Il
dramma può sfociare in una riconciliazione, ma anche in una rottura netta e
definitiva che dà origine a un’altra famiglia, a un altro gruppo, a un’altra
religione, a un altro stato e così via. Ogni struttura socialmente accettata e
difesa può generare un’antistruttura sostenuta da una communitas (associazione spontanea fondata non su considerazioni
politico-economiche e sulla gerarchizzazione sociale, ma sull’uguaglianza e
sulla comunione d’intenti, con strategie creative e innovative) che opera per analizzare,
giudicare e modificare lo status quo.
Afferma Turner che “il dramma
sociale è una sfida perpetua a tutte le aspirazioni alla perfezione
dell’organizzazione sociale e politica”. Da un lato, quindi, l’illusione che la
società sia perfetta e possa durare, dall’altro forme di critica e opposizione
che perseguono le riforme o la rivoluzione.
Materia per l’antropologo Max Gluckman
che scrive: “Il rituale ha il fine di mascherare i profondi conflitti che sono
sorti”. Il suo pensiero fa parte della scuola di Manchester, critica verso il
funzionalismo che definiva la società come un sistema funzionale ai bisogni
fondamentali dell’uomo: “la funzione della magia è quella di ritualizzare l’ottimismo”.
Secondo invece Gluckman, la sfera
religiosa e magica è uno degli strumenti per sedare le tensioni interne. E per
impedire ogni modifica sociale.
Dall’enciclopedia Treccani alla
voce “Religione”.
“b) Il funzionalismo
Negli stessi anni i sociologi
andavano sviluppando un particolare tipo di analisi funzionalistica della
religione. Il paradigma funzionalistico, ispirato al modello dell’organismo
biologico, si basava sui seguenti postulati: che la società costituisce un’unità,
che le sue istituzioni forniscono un contributo essenziale al mantenimento
della coesione sociale e che tali istituzioni, in virtù di questa funzione,
sono indispensabili. (…) Secondo Robert Merton, (però), è indispensabile per l’analisi
sociologica distinguere tra funzioni manifeste e funzioni latenti. (…)
Un esempio di queste funzioni
latenti delle credenze religiose è dato dai rituali di ribellione nell’Africa
sudorientale studiati dall’etnologo inglese Max Gluckman (v., 1953). Egli
analizza un rito per propiziare il raccolto, che si svolgeva ogni anno in
primavera tra gli Zulu, la cui caratteristica saliente era il sovvertimento dei
ruoli maschili e femminili. J.G. Frazer - che al pari di Tylor adottava un’interpretazione
intellettualistica della religione - aveva ricondotto questo tipo di rituale al
pensiero magico proprio dei popoli primitivi. Gluckman però restava scettico di
fronte a questa spiegazione. Al suo occhio di etnologo non poteva sfuggire il
fatto che tra gli Zulu covavano conflitti sociali tra uomini e donne. Richiamandosi
alla nozione aristotelica di catarsi, egli affermò che la funzione del rito era
quella di scaricare l’aggressività delle donne e quindi di ripristinare la
stabilità sociale. La ribellione rituale può aver luogo solo all’interno di un
ordine sociale che non viene posto in discussione, ed è quindi ben lontana da
una rivoluzione sociale. Ciò che appare come un rivolgimento è in realtà
funzionale alla conservazione dell’ordine sociale. (…) Alla luce di questa
critica al funzionalismo classico un allievo di Gluckman, Victor Turner, ha
reinterpretato anche il rituale di ribellione descritto in precedenza. Agli
occhi di Turner la gerarchia sociale è fondamentalmente precaria, in quanto
contrasta con l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini - la communitas, come
egli la definisce. I rituali di ribellione pertanto sono sempre anche esercizi
mentali per un’autentica rivoluzione. (…) I rituali di ribellione, si può
concludere, non hanno una funzione esclusivamente catartica, ma possono
diventare il modello di un nuovo ordine politico.”
Spesso i riti di ribellione si
presentano in forma ludico-simbolica, come il flash mob delle donne contro la
violenza e la parata teatrale quando porta per le strade il dissenso e l’alternativa.
“Il rito - scrive De Matteis - accoglie e assume i conflitti e le crisi,
dimostrandoli simbolicamente e mascherandoli nella sua forma, diversamente dal teatro
che svela i conflitti e mostra le zone oscure dell’individuo e il malessere
sociale.”
E aggiunge: “Dagli anni sessanta
le strade del teatro si biforcano chiaramente in due, una imitativa e una
produttiva. La prima risente del sociale, offre consolazioni attraverso
convenzionalismi stereotipati, la seconda rielabora frammenti di realtà.
Entrambe riflettono, una con compiacimento, una con cinismo. La seconda, quella
più vicina agli esempi riportati da Turner, individua, rielabora, produce
esperienze, si sottrae dallo spettacolo, tenta di ricollegare i fili di
tradizioni tramontate, ne riscopre il principio attivo e cerca luoghi dove è
possibile ancora fare esperienze e creare eventi. Fa molto di più che
riflettere, mette in crisi e crea corti circuiti: produce cultura e chiama in
causa, direttamente, lo spettatore.” Afferma Turner che “il teatro nutrito
dalla civiltà non si limita a riflettere la società, piuttosto produce società”.
In conclusione, il rituale esprime
un malessere sociale, e lo fa nel tentativo di risolverlo al suo interno, per
riaffermare l’unità e la coesione della società. Esso, tuttavia,
rappresentandolo simbolicamente, funge da allenamento per un reale scontro che
ribadisca il conflitto e lo risolva con il cambiamento, opponendo alla
struttura di società un’antistruttura di communitas.
Ascoltiamo ancora De Matteis: “Le
radici del teatro sono dunque nel dramma sociale. (…) C’è perciò nel teatro
qualcosa del carattere d’indagine, di giudizio e persino di punizione proprio
della prassi legale, e qualcosa del carattere sacrale, mitico, numinoso,
addirittura ‘sovrannaturale’ dell’azione religiosa, a volte fino ad arrivare al
sacrificio”. E qui dovremmo rileggere Grotowski.
Esaminiamo, oltre al rito di
ribellione, il rito di passaggio. Scrive Turner:
“Van Gennep, come è noto,
distingue tre fasi nel rito di passaggio: la separazione, la transizione e
l’incorporazione. La prima fase, la separazione, delimita nettamente lo spazio
e il tempo sacri da quelli profani o secolari (…). Questa fase implica un
comportamento simbolico (in particolare simboli che rovesciano o invertono
cose, relazioni e processi secolari) che rappresenta il distacco dei soggetti
rituali (novizi, aspiranti, neofiti o iniziandi) dal loro precedente status
sociale. (…) Nel corso della fase intermedia di transizione, che Van Gennep
chiama “margine” o “limen” (che significa soglia in latino), i soggetti rituali
attraversano un periodo e una zona di ambiguità, una sorta di limbo sociale che
con gli status sociali e le condizioni culturali profani a esso precedenti o
successivi ha in comune pochissimi attributi, benché a volte di importanza
cruciale. La terza fase, che Van Gennep chiama aggregazione o incorporazione,
comprende fenomeni e azioni simbolici che rappresentano il raggiungimento da
parte dei soggetti della loro nuova posizione, relativamente stabile e ben
definita, nel complesso della società.”
Riferendoci al teatro, la fase
della separazione è caratterizzata dalla preparazione dell’attore, che si
appresta ad assumere un ruolo diverso dal quotidiano e a vivere in una realtà
che infrange i limiti di spazio e tempo, oltre a utilizzare un
luogo-palcoscenico che assume connotati diversi da quelli fisici. L’attore si
stacca dalla realtà sociale e anche dal pubblico, che pur partecipando all’evento
è relegato in una sfera diversa, nella quale la razionalità intesa come
presenza critica impedisce di condividere l’esperienza di acting scenico. La
separazione è accentuata da trucco, maschera e costume, oltre che da una
gestione del corpo inusuale, legata all’espressività di caratteri e alla sintonia
ritmica e spaziale con la messa in scena.
La fase finale, di aggregazione e
incorporazione, parte dall’applauso, con il quale il pubblico segnala la rottura
delle sfere che distinguevano il luogo chiuso della drammaturgia da quello
altrettanto chiuso della platea (che rimane tale anche nei casi di
coinvolgimento diretto dello spettatore, permanendo sempre una netta distinzione
tra lui e l’attore, una diversità legata soprattutto a due diverse esperienze, profonda
e totale quella dell’attore, solo estetica e intellettuale quella dello
spettatore) e continua con l’invito agli interpreti a mostrarsi per come sono
in realtà, non più personaggi ma artisti, concludendosi con l’operazione di
espressione critica ed estetica sullo spettacolo, da condividere con altri
spettatori. Ciò che fino a poco prima ha goduto della liminalità per allungare
sulla realtà sguardi coraggiosi e ribelli, ora subisce il tentativo di essere
fagocitato dal sistema sociale che è onnivoro e cinico, votato solo al proprio
tornaconto, privo di valori stabili e assoluti. Non v’è liminalità rivoluzionaria
che il sistema non riesca a conglobare in sé spegnendone ogni velleità
riformista. “Ciò che ha successo e si vende è buono e ciò che fa fiasco e non
conquista il pubblico è cattivo. L’unico valore è quello commerciale. La
scomparsa della vecchia cultura ha implicato la scomparsa del vecchio concetto
di valore. L’unico valore che esiste ora è quello fissato dal mercato” scrive
Mario Vargas Llosa in “La civiltà dello spettacolo”.
Il teatro deve diffidare del
pubblico, dal quale deve prendere le distanze. Deve farsi rito in sé e per sé,
e offrirsi agli spettatori senza possibilità di esserne influenzato, lontano
dalle dinamiche di successo-insuccesso. Un rito che rimane quindi incompleto,
poiché l’esito di riconciliazione con il mondo sociale non viene preso in
considerazione. Ciò che veramente fa il teatro non è l’applauso, ma la
condizione di liminalità che si determina nelle prove senza pubblico e durante
la rappresentazione con il pubblico.
Ilo passaggio di grado e di ruolo
avviene già con la recitazione e non ha bisogno di crismi sociali.
“L’essenza della liminalità consiste
nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella
ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione
possibile, per quanto bizzarra.”
L’attività entro il limen, al di qua o al di là della soglia
(a seconda del punto di vista), non è di per sé fautrice di illuminazioni e
cambiamenti. Scrive Turner: “Le fasi liminali di una società tribale invertono
ma normalmente non sovvertono lo status quo, la forma strutturale della società
stessa; il capovolgimento rende evidente ai membri di una comunità che
l’alternativa al cosmos è il caos, e che quindi farebbero meglio a tenersi
stretto il cosmos, cioè l’ordine tradizionale della cultura, anche se è loro
consentito per brevi periodi divertirsi da matti a essere caotici, in qualche
saturnale o lupercale o charivari o orgia istituzionalizzata.”
Conosciamo bene il teatro che
assomiglia al carnevale, alla scampanata, alla goliardata, alla parata gioiosa
e al corteo dionisiaco, alla chiassata dei chierici vaganti, alle fantasie dei
saltimbanchi eccetera. Un’esibizione liberatoria, in netto contrasto con le richieste
di compostezza e serietà del ruolo sociale. Questo circo, questo dimenarsi e
cantare, sbraitare e inveire, provocare e dileggiare, questo ballare in modo
sfrenato, questo canto osceno… viene biasimato, ma non impedito. Esso rassicura
i “benpensanti”sulla solidità del cosmos contro il caos.
“Per alcuni la liminalità può
essere l’apice dell’insicurezza, l’irruzione del caos nel cosmos, del disordine
nell’ordine, anziché il luogo in cui il bisogno creativo trova soddisfazione.
La liminalità può essere il luogo della malattia, della disperazione, della
morte, del suicidio, il luogo dove i ben definiti legami e vincoli sociali
normativi crollano, senza che nulla venga a sostituirli (…) La liminalità è
insieme più creativa e più distruttiva della norma strutturale. Essa si fa
antistruttura nella communitas.”
Ma mettiamo meglio a fuoco il
concetto di liminalità nei riti di passaggio (per esempio dall’infanzia all’età
adulta).
“Nella liminalità, le relazioni
sociali profane possono essere interrotte, i diritti e gli obblighi precedenti
sono sospesi, e può sembrare che l’ordine sociale sia stato sovvertito, ma a
titolo di compensazione i sistemi cosmologici (come oggetto di uno studio
approfondito) possono acquistare un’importanza centrale per i novizi, che sono
posti dagli anziani, mediante il rito, il mito, il canto, l’apprendimento di un
linguaggio segreto, e vari generi simbolici non verbali quali la danza, la
pittura, il modellare la creta, l’intagliare il legno, il mascherarsi ecc., di
fronte a schemi e strutture simboliche che equivalgono a insegnamenti sulla
struttura del cosmos e sulla loro cultura intesa come parte e prodotto di esso,
nella misura in cui entrambi sono definiti e compresi, implicitamente o
esplicitamente.”
Nella liminalità, quindi, in
questa fase di sospensione dei ruoli e dei poteri sociali, e di sovvertimento
dell’ordine delle cose, si gusta un assaggio di anarchia creativa, che può
condurre a scoperte fondamentali per il rapporto dell’individuo (contrapposto alla
persona-maschera) con il mondo e la società; o che può essere ricondotto alla
quotidianità pre-liminare nella quale ritrovare la tranquillità e la sicurezza
del cosmos forgiato dagli dei e dagli uomini di potere.
“Il fatto che il teatro sia così vicino alla vita, pur rimanendo
distante da essa quel tanto che basta per farle da specchio, fa di esso la
forma più adatta per il commento o metacommento di un conflitto, poiché la vita
è conflitto (…) Senza i contrari non c’è
progresso, come dice Blake, non foss’altro che nel senso che vita e morte,
eros e thanatos, Yin e Yang, sono, per citare Freud, eterni antagonisti.”
Il teatro può quindi avere inizio
con le medesime modalità del rito: la separazione dalla realtà circostante e l’assunzione
di una maschera in un luogo chiuso che segni il tempo e lo spazio di un mondo
diverso dal quotidiano. Esso si sviluppa nella dimensione della liminalità, dove
ogni sovvertimento è possibile e auspicabile. Infine, può uscire dalla liminalità
e reintegrarsi nel mondo con aspettative legate ad applauso, recensione,
successo artistico ed economico; oppure può rimanere nella liminalità negata ai
non adepti, mistero condivisibile solo con l’esperienza diretta, e non
giudicabile da osservatori esterni del mondo reale, dato che adottano criteri
relativi alla struttura e non all’antistruttura generata dalla communitas degli attori. “L’uomo cresce
attraverso l’antistruttura e conserva attraverso la struttura” scrive ancora
Turner.
Solo rimanendo nel conflitto “le
radici del teatro sono nel dramma sociale” come afferma De Matteis. E solo
facendosi rito di simboli universali esso si sottrae alla dimensione del
divertimento da consumo.
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