martedì 25 marzo 2014
sabato 22 marzo 2014
CHE COS’È LA REGIA?
Lettera agli aspiranti registi di
Tecneke
Non è
facile cercare una definizione di regia che non sia vaga e generica. Mara Fazio
in “Regie teatrali” ci presenta il regista come “l’artista responsabile dell’intera
concezione dello spettacolo teatrale, coordinatore delle sue varie parti,
scene, costumi, interpretazione e organizzazione del dialogo, recitazione,
musica, luci, movimenti delle masse”.
Nel
suo libro presenta i grandi registi del Novecento, tra i quali Craig con l’attore
ridotto a una supermarionetta, passivo
esecutore degli ordini registici. Stanislavskij e il conflitto che nasce dalla
duplice anima dell’attore, che recita e insieme vive il personaggio, con un
regista che si fa quasi psicoterapeuta. E Mejerchol’d che impone il regista
dittatore, unico autore dello spettacolo. E poi Brecht, depositario non solo
del messaggio politico, ma anche della messa in scena delle proprie opere, da
non variare senza previa approvazione.
Insomma,
una formula univoca di regia non esiste. Ne esiste solo l’evoluzione storica. Esistono
i registi, più che la regia. A meno di degradarla a banale tecnica estetica e
di utilizzo dello spazio scenico: il regista come un vigile urbano benvestito.
In
senso moderno, la figura del regista nasce negli ultimi decenni dell’Ottocento;
ma già nel V secolo a.C. i tragediografi greci si occupavano della messa in
scena.
Ascoltiamo
che cosa ci dice Giorgio Strehler (archivio Piccolo Teatro: Strehler. Il regista
teatrale – “Perché ho scelto questo mestiere”, 1983).
“La
regia è un fatto critico che viene scritto con i mezzi della scena, con le
parole, con gli attori, con le voci, con i suoni, con le luci, con le scene. È
anche un fatto interpretativo, scientifico, sensibile.
(Il
regista) sa organizzare le cose che stiano insieme e che non si prevarichino
l’una con l’altra e che armonizzino l’una con l’altra. (…) Il regista deve
sapere recitare. (…) Il regista deve avere la capacità di capire se si può far
sì che un gruppo di persone possa recitare un certo lavoro e che ognuno di
questi abbia la possibilità di interpretare il personaggio che gli è assegnato.
Dopo di che deve spiegare agli attori il testo drammatico. Questo esame del
testo può protrarsi per giorni e giorni.”
Anche
qui, niente di specifico.
Balza
all’occhio quella nota: l’analisi del testo può durare giorni e giorni. E qui s’innesta
la questione della subordinazione drammaturgo-regista. In che senso va? Il
drammaturgo si pone al di sopra del regista o è il contrario? Strehler era
convinto che il regista dovesse, nella sua elaborazione personale, portare
tanto rispetto all’autore da assicurargli in ogni caso la fedeltà al testo.
Ma
ogni regia, anche la più aderente, è di per sé una contaminazione che rende il
testo qualcosa di diverso dallo stampato.
Qui,
non c’interessa.
Molti
registi avviano la messa in scena con l’analisi dettagliata, testarda e geniale
del testo. Ne ricavano, di solito, un testo proprio di cui vanno orgogliosi; e
considerano percorso un buon tratto di strada.
La
lettura, di solito, serve per capire.
E per definire personaggi e
situazioni. Spesso l’esegesi è assimilata alla rivelazione. Il regista scava nel testo e lo riporta a uno
splendore mitico.
In
realtà, ogni testo è elastico e proteiforme e si dona al lettore con la
vocazione ad assumere forme sempre diverse, all’infinito.
Voi,
giovani tecnekiani che affrontate le prime regie, non fatevi prendere da questa
frenesia di esploratori colonialisti. Analizzate il testo, scopriteci tutto
quello che riuscite a scoprire; ma non illudetevi che il teatro sia tutto lì.
Il
teatro non è sulla carta, ma sulla scena.
Vi presento
la mia idea di regia, voi fatene quello che vi pare.
Anzitutto,
da buoni dilettanti, non date in escandescenze per la scelta degli attori. Chi
c’è c’è, e a nessuno si chiedono i diplomi di scuola drammatica o gli stage o
le esperienze maturate. Distribuite le parti con buonsenso, in accordo con gli
attori. Da qui in avanti si fa appello al vostro senso di responsabilità e alla
vostra autorità. Ogni impasse si supera con una voce super partes, e dev’essere
la vostra. Siete registi, vi avvalete di un mandato. Siete lì per governare la
scena con intelligenza e sensibilità, e anche con decisione.
Potete
leggere il testo, se volete. Ma a mio parere è la lettura scenica che ci svela
davvero quanto, come e dove può risultare teatrale la parola scritta. Ed è
vedendo muoversi i personaggi che potete meglio identificarne corpo e anima.
Sopra un testo ci sui può fermare per l’eternità, ma molto di quel tempo sarà
stato tempo perso. Fate muovere gli attori con il copione in mano e la parola
scritta è costretta a misurarsi subito con lo spazio scenico. Sarà vostra cura
identificare i punti di forza del testo e le parti (quando è possibile farlo)
da ridurre. Ma questo non avviene a tavolino, bensì durante la messa in scena.
Preparatevi, quindi, a un lavoro paziente che non viene condotto su “note di
regia” prefissate e rigide, ma secondo un processo incessante di
improvvisazione, approfondimento, chiarimento, scoperta…
Non
fate l’errore di valutare l’efficacia attoriale concentrandovi sulla psicologia
del personaggio e sull’abilità interpretativa. Finireste per cadere nel
consueto teatro mimetico che tanto annoia e delude, una copia meno iridescente
della realtà. Sedetevi in un giardino pubblico o nell’atrio di una stazione e
guardatevi in giro con occhi teatrali, assistete a uno spettacolo inimitabile
con le sue gag, i pieni emotivi, le scene drammatiche.
Non
vi basta il testo per fare teatro. Non vi bastano gli attori. Vi ci vogliono
gli elementi che purtroppo sono considerati di contorno. O trattati con le
attenzioni di un antiquario che colloca un pezzo pregiato facendo ricorso al
proprio buon gusto; e vietando di farne uso.
Avete
bisogno, anzitutto, della musica.
Ma
non di musica di sottofondo. Non esiste la musica di sottofondo, in teatro! In
teatro la musica è movimento e danza.
Quando
fate leggere un testo, riecheggiate la recitazione dentro di voi
accompagnandola con una musica-ritmo. Non ci può essere parola recitata senza
un’idea musicale che le dia corpo!
Questa
prima idea di parola che fa la musica e di musica che fa la parola dovete poi
concretizzarla con una scelta musicale adeguata alla vita che volete creare
sulla scena. Non abbiate paura di ricorrere a suoni elettronici, ritmi
inusuali, effetti sonori… e provate a costruirvi da voi la colonna sonora, sia
ricorrendo a strumenti dal vivo sia con elaborazioni musicali al computer.
La
parola è dunque ritmo. E il ritmo ci spinge verso la danza.
Tutto
questo ci fa ripartire dallo spazio scenico.
Anzitutto,
delimitatelo. Esso si trasforma in uno spazio-chiuso-universo nel quale trovate
tutto quanto vi serve e nel quale gli attori vivono per tutta la durata della
rappresentazione. Da parte mia, preferisco che essi non lascino mai lo
spazio-scena. Non ha senso, per un interprete, abbandonare il proprio universo.
Dove va? Dietro le quinte a bere una sorsata d’acqua? A rilassarsi? Assurdo.
Uscire dallo spazio-scena significa infrangere la sfera del mondo alieno creato
per la rappresentazione.
Come
avete analizzato il testo, analizzate il vostro spazio. Fatelo conoscere agli
attori. Ne percorrano i confini, lo attraversino, lo memorizzino. Lo spazio può
essere lineare o complesso. Mediante pedane, teli e fondali, potete creare due
piani verticali; e anche due orizzontali. Rifuggite, però, dalle soluzioni complicate
e cervellotiche. Preservate la semplicità sempre, limitando ogni strutturazione
all’essenziale e all’intuibile senza mediazioni intellettuali.
Nello
spazio ponete gli oggetti necessari.
Essi
possono essere congruenti con lo spazio, come le citate pedane; oltre alle
quali ci sono sedie o cubi o tavoli. Vedeteli in funzione del corpo dell’attore.
Come può fare uso di una sedia? Fate giocare gli attori con gli elementi di
completamento dello spazio. Essi sono mobili e consentono continue variazioni
di dimensioni e significati. Un fondale trasparente crea uno spazio arretrato misterioso,
quasi un mondo del sogno e dell’immaginazione; ma posso farlo ruotare in modo
da presentare al pubblico due settori come due stanze, o due mondi affiancati.
Un
attore in piedi su una sedia o un tavolo sconvolge lo spazio, crea una ricca
potenzialità di situazioni diverse.
Non
pensate agli oggetti di scena per come essi sono nella realtà.
Come
avete lasciato che le parole si facessero condurre dalla musica e la musica
dalle parole, lasciate ora che anche gli oggetti vi parlino.
Osservate
una sedia e domandatele: che cosa puoi
fare per me?che cosa puoi fare per gli attori? Con la giusta disposizione d’animo,
la sedia vi risponderà.
Osservate
il vostro spazio scenico e consideratelo non come una fotografia, ma come un
mondo vivente.
Ragionate sull’ecosistema teatrale. Ogni elemento presente è
vivo, e ogni essere vivente (dalla sedia alla musica all’attore) è oggetto e
soggetto degli altri esseri. Tutto è interattivo. La vita (l’efficacia
spettacolare) di ognuno dipende dall’equilibrio dinamico instauratosi nel
sistema.
Se un
elemento è carente, tutto l’insieme ne soffre.
Non
ignorate, quindi, le potenzialità espressive di tutto ciò che vedete sulla
scena. Spremete il più possibile da ogni elemento, cercando e ricercando con un’improvvisazione
appassionata e divertita.
Vedete
bene che il regista è l’occhio esterno, una figura che si rende indispensabile
per gli attori, chiusi nello spazio scenico. Ma capite che egli non è l’onnisciente,
non è il genio che sa e comanda, non è colui che nella propria mente ha già
tutto lo spettacolo. Quello è il regista estetico, di solito narcisista e
scontato. Il regista di cui parliamo è il curatore di un universo che si va
formando. Sta a lui crearvi e mantenervi la vita. E per farlo ha bisogno non
solo degli attori, ma di ogni elemento, sia pure solo un fazzoletto, inserito
nel pianeta scenico. Egli ascolta, traduce, sceglie, accosta, fonde in un’unica
immagine musicale danzata la ricca babele di lingue diverse in cui si esprimono
gli attori, le sedie, i teli, i costumi, le percussioni…
Buon
lavoro.
lunedì 10 marzo 2014
IL TEATRO NEI MISTERI ELEUSINI
Parlare di teatro vero
e proprio riguardo ai Misteri Eleusini è azzardato e improprio, ma cercare
negli antichi misteri riferimenti che conducano a un teatro in forma di “peste”
come annuncia Artaud penso che sia lecito.
Siamo alla fine
dell’età del bronzo, più o meno dal 1600 a.C. fino al 396 d.C., quando il
tempio fu distrutto dai Visigoti ariani di Alarico, in nome di un Cristianesimo
che da tempo aveva cominciato l’epurazione e la distruzione o la riconversione
di tutto quanto fosse pagano.
I misteri attraversano
quindi l’età micenea, il medioevo ellenico, la grecia classica, l’ellenismo,
l’età repubblicana di Roma e quella imperiale. Un lungo percorso. La segretezza
imposta agli adepti e la consueta distruzione delle fonti rende esile e
frammentaria la documentazione, ma a volte l’intuizione e la suggestione sono
più fecondi di una cronaca dettagliata. Esse infatti consentono di interagire
non solo a livello razionale, ma usufruendo della potenzialità immaginativa che
stabilisce nessi inusitati.
Si fa derivare la
tragedia greca, e quindi la prima forma di teatro, dal ditirambo, una
performance corale di poesia, musica e danza in onore di Dioniso. Si
attribuisce ad Arione di Metimna (vissuto a cavallo del 600 a.C.) il merito di
avere perfezionato il testo creando uno schema metrico. Dai racconti di Erodoto
e di Egino sappiamo che ebbe un grande successo perfino all’estero, in Sicilia;
e che si esibiva con corona d’alloro e costume di scena: egli declamava
suonando la lira e il coro riecheggiava e commentava le sue parole. Viene
ricordato anche per essere stato salvato dai pirati per mezzo di un delfino
mandato da Apollo. Egli, per distrazione (era un poeta!), lo lasciò morire
sulla spiaggia dove si era arenato; ma al delfino sarà poi eretto un sepolcro e
sarà concesso dagli dei di vivere in eterno come costellazione (anche ad
Arione, insieme a Orfeo: la Lira).
Qualche decina di anni
dopo, Tespi non si limitò a cantare il ditirambo ma, con l’inserimento di un
prologo, del dialogo con il coro e con una struttura più narrativa, lo trasformò
in un’opera rappresentata nel 534, durante le feste in onore di Dioniso. Solone,
tuttavia, non gradì quella nuova forma espressiva non più strettamente legata
alla cerimonia sacra: “Se noi onoriamo la menzogna nei nostri spettacoli, la
ritroveremo nelle nostre promesse più sacre”. A Tespi non rimase che lasciare
Atene con un carro che trasportava l’attrezzatura teatrale: la prima forma di
teatro di strada. Delle sue opere ci rimangono solo i titoli: Le gare per
Pelia, Penteo, I giovinetti e I sacerdoti. Dopo di lui, gli amici e allievi
Frinico (inventore della tragedia di argomento storico e il primo a inserire
personaggi femminili; “La presa di Mileto” gli costò una multa di 1000 dracme o
per avere sconvolto il pubblico fino alle lacrime o per le sue posizioni
filopersiane) e Pratina (il primo a comporre drammi satireschi), insieme a
Cherilo (gareggiò con Eschilo in occasione della settantesima Olimpiade, quando
le impalcature di legno per gli spettatori crollarrono), divulgarono le sue
idee e apportarono miglioramenti. Di centinaia di drammi satireschi ci rimane
solo “Il Ciclope” di Euripide, con coro di satiri e parodia del celebre
episodio dell’Odissea. Lo schema riprende quello della tragedia, ma il
linguaggio si fa più colloquiale e anche scurrile; l’ambientazione fa
riferimento a banchetti e legami sentimentali. Con Eschilo (525-456 a.C.) nacque
la tragedia così come oggi la conosciamo, nelle varianti stilistiche e
ideologiche apportate poi da Sofocle ed Euripide.
Commedia letteralmente significa “canto del villaggio”. Questa
forma teatrale sarebbe nata dalle cerimonie per la fecondità della terra, in
cui si trasportava in corteo un simbolo fallico. Durante la cerimonia, i
coristi camuffati da animali scambiavano battute salaci con il pubblico.
Questo, d’altronde, accadeva anche durante le processioni per recarsi ai
santuari dove si svolgevano i Misteri: sacro e profano si mescolavano rispecchiando
la vita degli dei. Gli abitanti dell’Olimpo non erano entità contemplative, ma
frementi di desideri: gradivano guerre, banchetti e sesso quanto i fumi delle
vittime sacrificate sugli altari.
Tutto questo, in
sintesi, ci narra di come si sia formata la forma letteraria del teatro. Esso
nasce da formule rituali, da inni danzati in onore di un dio estesi poi agli
eroi, da celebrazioni divine condotte in forma prima monodica e poi dialogica.
Esso trova origine sia nel komos mascherato, quando i partecipanti a un
corteo esprimente convivialità ed ebbrezza interpellavano in tono provocatorio
e derisorio i passanti, preparando lo sviluppo del dramma satiresco e della
commedia; sia nel kommos, canto lirico solista o corale che esprimeva
dolore o orrore, l’acme della dimensione tragica (Archiloco: “Io so intonare il
bel canto di Dioniso Signore, il ditirambo, quando nell’animo sono folgorato
dal vino”).
Scribe Burkert in “La
religione greca”: “Durante la processione verso Eleusi, all’imboccatura di una
critica strettoia presso il ponte sul ruscello chiamato Rheitoi, sedevano
personaggi travestiti in modo grottesco, che spaventavano e prendevano in giro
i passanti. Anche in occasione delle feste dei Dionysia la città era
attraversata da carri di persone tripudianti, da cui la gente sulla strada
veniva grossolanamente insultata. (…) Come l’elemento solenne, così anche
l’estremamente non solenne, il ridicolo-osceno è contrapposto al quotidiano:
tra i due elementi si sprigiona una tensione quasi raddoppiata, che dà alla
festa una più ampia dimensione. Così vi sono anche sacrifici, in cui si esige
esattamente l’antitesi al silenzio sacro usuale: selvagge bestemmie o finti
lamenti.”
Arturo Graf in “Il
mito in Grecia” parla di due filoni nelle ipotesi sulla nascita della tragedia:
“Quelle ritualistiche da una parte, che fissano il punto di partenza nel culto
di Dioniso o degli eroi; e quelle storiche letterarie dall’altra, che partono
dal ditirambo”. Questa seconda ipotesi è quella adottata da Aristotele, che fa
nascere la tragedia dai poeti ditirambici e la commedia dal culto di Dioniso,
come scrive nella “Poetica”. “Nata dunque la tragedia all’inizio
dall’improvvisazione (sia essa sia la commedia da quelli che guidavano il coro:
la prima dal ditirambo, mentre la seconda dalle processioni falliche che ancor
oggi sono rimaste in uso in molte città)…”.
Scrive ancora Burkert:
“I festeggiamenti dionisiaci sono riconoscibili dalle selvagge esclamazioni:
soprattutto euhoì (evoe nella trascrizione latina), ma anche thtìambe,
dithìrambe. (…) Il grido collettivo conduce alla soglia dell’estasi; non appena
i Greci se ne resero conto sul piano linguistico s’iniziò a parlare di dei
personali, antropomorfi.” (E qui si apre il capitolo dell’entusiasmo,
ossia del dio dentro, con protagoniste le Muse e l’ispirazione-invasamento del
poeta-profeta).
“Il danzatore,
sopraffatto alla fine dalla stanchezza, si sente libero e guarito non solo
dalla sua follia, ma anche da tutto ciò che prima lo aveva oppresso: è questa
la purificazione con la follia, la purificazione con la musica,
che avrà in seguito un ruolo tanto importante nelle discussioni sull’effetto
catartico della tragedia.”
In conclusione, tutto
cooperava per aprire un varco nel quotidiano, per accedere a un’altra realtà,
per attingere a forze superiori grazie al camuffamento (biacca e fuliggine,
maschere in stoffa e corteccia o stucco di satiri e di animali, travestimenti
femminili… con effetti osceni, orrendi, comici), all’invasamento, alla
trasformazione di sé in altro.
Il credente, per
avvicinarsi alla dimensione del divino, e per sentirsi più simile agli dei, e
per ricercare un linguaggio più adeguato, e un’apparenza che lo allontanasse
dallo stato di inferiorità umano, si mascherava, camuffava volto e voce rifacendosi
ai suoni della natura, ri-costruiva il corpo con movenze a imitazione di quelle
animali, attingeva alle energie fisico-sessuali, trovava impeto nell’ebbrezza,
fissava una soglia da oltrepassare… E poteva così dialogare con gli dei.
Il credente, per
pregare, si faceva attore.
Se la dimensione
religiosa si fosse dissolta, che cosa gli sarebbe rimasto? La recitazione
finalizzata non più a un dialogo con gli dei, ma con gli uomini.
Solo l’ex credente ateo
completa la trasformazione in attore. Altrimenti, rimane un fedele orante.
Ma non possiamo legare
la nascita del teatro solo a elaborazioni letterarie (ditirambo) e ai cortei
(komos). A che cosa era finalizzato il ditirambo? A quale luogo era indirizzato
il corteo?
Abbiamo già visto che
il ditirambo, nato come celebrazione del dio, si è allargato a celebrazione del
semidio e dell’eroe, secondo una parabola che lo porta fino all’uomo. È la
stessa parabola della tragedia: dal rapporto assoluto con la divinità espresso
da Eschilo, alla crisi di Sofocle, fino alla scelta di Euripide di “portare lo
spettatore sulla scena”, come ci dice Nietzsche che lo incolpa di dare il colpo
di grazia alla tragedia con la complicità del razionalismo di Socrate.
Ma questo uomo dove
va? Dove lo porta il corteo accompagnato dall’aulos?
Una delle mete più
significative è il telesterion, ossia il luogo dell’iniziazione; per
esempio, all’interno del santuario di Eleusi, dove si celebravano i Misteri.
Mircea Eliade, in
“Storia delle credenze e delle idee religiose”, scrive che sul far della sera i
pellegrini entravano nel cortile esterno del santuario. Una parte della notte
era dedicata alle danze e ai canti in onore delle dee. Il giorno successivo i
misti digiunavano e offrivano sacrifici. Quindi, con le torce in mano,
imitavano Demetra vagante alla ricerca di Persefone. I pellegrini recitavano
una parte drammatica: la perdita della figlia, la perdita dell’estate, la
perdita della vita con la discesa nell’Ade; e poi una resurrezione a metà: il
ciclo vitale distinto in mesi improduttivi e mesi fecondi, alternanza di vuoto
e abbondanza, dolore e gioia.
Questo ci ricorda la
recita del faraone nel dramma Memfitico, quando impersonava Osiride. Ora, però,
il teatro sacro non è più riservato al dio-regnante, ma è praticato dal popolo;
e non è scolpito in una forma immutabile, ma si trasforma nel tempo. E,
soprattutto, si laicizza. In senso davvero democratico. Ai Misteri, infatti,
potevano accedere tutti, dallo schiavo all’aristocratico; e il senso di ciò era
che di fronte agli dei gli individui perdevano le loro connotazioni sociali.
Il filosofo Proclo ci
dice che i misti incontravano la prima genesi, vedendo apparire dinanzi a loro
dèi dagli aspetti molteplici e dalle molteplici forme. E questo avveniva nel
telesterion, al quale le colonne davano un senso labirintico. Non si
apprendeva, ma si guardava e si subiva la suggestione.
La nascita di
Iacco/Bacco da Persefone: “…lo ierofante in persona… che si è reso impotente
con la cicuta e si è staccato da ogni generazione carnale, di notte ad Eleusi,
in mezzo alla luce delle fiaccole, nel compiere il rituale dei grandi ed
ineffabili misteri, grida e urla proclamando: Brimò, la Signora, ha generato il
sacro fanciullo Brimos…” (Ippolito, Confutazione).
“Gli dèi presentano
molteplici forme, spesso mutando apparenza. Talvolta presentano una fiamma di
forma indeterminata, talvolta una fiamma in forma di uomo, talvolta in altra
forma. E ciò ci è trasmesso dalla mistagogia di origine divina” (Proclo).
Lo stesso autore
ribadisce in un altro passo: “Per gli stessi motivi, nelle più sante delle
iniziazioni, dinanzi alla presenza di un dio, simboli di demoni ctoni appaiono
e spettacoli che turbano coloro che vengono iniziati… Così gli dèi ordinano di
non guardarli prima di prima di essere fortificati dalle forze che vengono
dalle iniziazioni.”
E scrive Plutarco: “Prima
vi sono delle cose a caso, penosi ritorni, inquietanti cammini interminati
attraverso le tenebre. Poi, prima del termine, il fragore è al colmo, il
brivido, il tremito, il sudore freddo, lo spavento. Ma poi una meravigliosa
luce si offre agli occhi, si passa in puri luoghi e in praterie, dove risuonano
voci e danze. Parole sacre e divine apparizioni ispirano un religioso rispetto.”
Anche Apuleio ci dà
una testimonianza: “Raggiunsi il confine della morte, dopo aver varcato la
soglia di Proserpina fui condotto attraverso tutti gli elementi, e ritornai
indietro. A metà della notte vidi un sole lampeggiante di fulgida luce. Mi
presentai al cospetto degli dèi inferi e degli dèi superni, e proprio da vicino
li venerai.”
Niente a che fare,
quindi, con il socratismo tanto detestato da Nietzsche che attribuisce al
filosofo e ad Euripide la fine della tragedia.
“… il socratismo
estetico, la cui legge suprema suona a un dipresso: Tutto deve essere razionale
per essere bello, come proposizione parallela al principio socratico: solo chi
sa è virtuoso”.
“Per opera sua
(Euripide) l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli
spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i
tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce
coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura (…) Prendeva ora a
parlare la mediocrità cittadina.”
Quel “teatro” d’iniziazione
nei Misteri veicolava il cambiamento, da una vita materiale a una spirituale,
dall’oscurità alla verità, dall’assurdità al significato della vita.
“…e Demetra a tutti
mostrò i riti misterici,
a Trittolemo e a
Polisseno, e inoltre a Diocle,
i riti santi, che non
si possono trasgredire né apprendere
né proferire: difatti
una grande attonita e atterrita reverenza
per gli dèi impedisce
la voce.
Felice colui, tra gli
uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose:
chi invece non è stato
iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte
non avrà mai un uguale
destino, da morto, nelle umide tenebre
marcescenti di
laggiù.” (Omero, Inno a Demetra, 476-482)
A esso sembra voler
tornare Artaud: “Tutti i mezzi scientifici utilizzabili sulla scena saranno
adoperati per dare l’equivalente delle vertigini del pensiero o dei sensi.
Echi, riflessi, apparizioni, manichini, slittamenti, tagli netti, dolori,
sorprese, ecc. Con tali mezzi contiamo di ritrovare la paura e i suoi complici”
(A. Artaud, Il teatro e il suo doppio).
Lo spirito della tragedia
greca ha dunque attinto a quello dei Misteri: un rapporto con il divino non
elaborato sui dogmi dei libri sacri e nemmeno sul razionalismo o sull’ottimismo
di chi ritiene che la mente umana non abbia limiti. Ascoltiamo ancora
Nietzsche: “L’elemento ottimistico, una volta penetrato nella tragedia, è
destinato a invaderne a poco a poco le regioni dionisiache e a spingerla
necessariamente alla distruzione di sé - fino al salto mortale nello spettacolo
borghese. (…) Come appare ora, di fronte a questo nuovo mondo scenico
socratico-ottimistico, il coro e in genere l’intero sostrato
musicale-dionisiaco della tragedia? Come qualcosa di fortuito, come una
reminiscenza dell’origine della tragedia, di cui si può benissimo fare a meno.
(…) La dialettica ottimistica scaccia la musica
dalla tragedia con la sferza dei suoi sillogismi, cioè distrugge
l’essenza della tragedia, che si può interpretare unicamente come una
manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione
visibile della musica, come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca.”
La tragedia come dimensione
dionisiaca che risveglia non la mente, ma le potenzialità inespresse al si
sotto e al di sopra della mente; la tragedia come parola che si fa musica e musica
che è parola ed esprime l’indicibile; la tragedia come visione pessimistica del
mondo, votato al dolore e all’impotenza; la tragedia, infine, come iniziazione,
limen oltre il quale si estende la dimensione superumana degli dei e
della consapevolezza nella verità realistica; come Mistero di cui si fa
esperienza, non conoscenza; con la paura, la sofferenza, e la metamorfosi in altro
da sé.
Eppure… basta questo a
comprendere l’essenza della tragedia?
Penso che la sua
essenza non si trovi tanto nella crisi del dionisiaco in favore dell’umano e
del razionalismo quanto nell’inganno di fondo che sta alla base dei Misteri e
di ogni riferimento divino.
La tragedia è tale
perché si spinge verso la verità.
Che altro facevano, i
pellegrini di Eleusi, se non quello che fanno oggi i credenti che vanno a La
Mecca, a Lourdes o a Varanasi? Compiono un viaggio di speranze e di illusioni.
Cercano la guarigione, l’illuminazione, la comprensione, la santificazione, la
soglia per l’eternità, l’immortalità… e trovano un labirinto in cui perdersi che
altro non è se non un palcoscenico. Per loro si allestisce uno spettacolo
suggestivo e ipnotico, crudele e fantasioso. Essi vedono gli dei, parlano con
gli dei, elevano se stessi al livello della divinità, fraternizzano con la
divinità, si assicurano una vita soddisfacente e un aldilà accogliente.
Anche il teatro è
finzione, ma è una finzione consapevole e responsabile che intende strappare
via i veli che ricoprono la verità e mostrarla nella sua nudità tragica. La
verità non è bella quanto le statue greche. Essa è piagata, consunta, afflitta,
disillusa, cinica, eppure compassionevole e solidale. Essa è tragica. In ciò
che appare orrendo e riprovevole la tragedia scopre una bellezza straordinaria,
superiore a quella estetica fondata sul falso. La stessa bellezza della natura
selvaggia.
In questo sta la
tragicità della tragedia.
Nella scoperta che gli
dei non esistono, che l’uomo è solo, che le sofferenze umane non hanno fine,
che dopo la morte vi è un mistero ultraindividuale, che l’individuo è insignificante,
che le storie individuali hanno senso solo se inserite nel flusso irrazionale
della vita umana e solo se la vita umana è armonizzata con la vita del mondo.
Il percorso
Eschilo-Sofocle-Euripide è un percorso doloroso di presa di coscienza che cerca
una sintesi ancora da definire tra l’apollineo e il dionisiaco nietzschiani.
Di nuovo Artaud:
“O riusciremo a
tornare a quel concetto superiore di poesia, e di poesia teatrale, che è alla
base dei miti raccontati dai grandi tragici antichi; a ritrovare un’idea
religiosa del teatro, cioè ad arrivare, senza razionalizzazioni, senza inutili
contemplazioni, senza vaghi sogni, a una presa di coscienza e anche di possesso
di certe forze dominanti, di certe nozioni che determinano ogni cosa; e, poiché
le nozioni, quando sono efficaci contengono in sé le loro energie, a ritrovare
in noi quelle energie che in fin dei conti creano l’ordine e accrescono il
valore della vita – o non ci resterà altro che lasciarci andare senza indugi e
senza reazioni, riconoscendo di essere ormai definitivamente destinati al
disordine, alla carestia, al sangue, alla guerra e alle epidemie. (…) Propongo
perciò un teatro in cui immagini fisiche violente frantumino e ipnotizzino la
sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze
superiori. Un teatro che, abbandonando la psicologia, racconti lo
straordinario, metta in scena conflitti naturali, forze naturali e sottili, e
si presenti anzitutto come un’eccezionale forza di derivazione. Un teatro che
provochi trances.”
E per concludere:
“Il teatro deve farsi
uguale alla vita, non alla vita individuale, a quell’aspetto individuale della
vita in cui trionfano i CARATTERI, ma a una sorta di vita liberata, che spazza
via l’individualità umana e in cui l’uomo non è più che un riflesso. Creare
Miti, ecco il vero oggetto del teatro, esprimere la vita nel suo aspetto
universale, immenso, ed estrarre da questa vita immagini con cui saremmo lieti
di riconoscerci.”
“Non so chi ha
sostenuto che tutti gli individui in quanto individui sono comici e pertanto
non tragici: da ciò si potrebbe dedurre che i Greci in generale non potevano
tollerare individui sulla scena tragica” (Nietzsche, “La nascita della
tragedia).
lunedì 3 marzo 2014
L’ATTORE, IL PERSONAGGIO E IL BASTARDO
Ci troviamo nella sala prove di un grande teatro; o
anche di uno sconosciuto teatro di provincia. Intorno al tavolo siedono il
regista e gli attori. Gettano le basi per la messa in scena di “Edipo re” di Sofocle.
Il regista, assistito magari dal dramaturg, si è preparato con scrupolo e
caparbietà. Ha letto, ha visionato, ha ascoltato, ha riflettuto, ha scoperto,
ha avuto illuminazioni, ha partorito, si è rassicurato sulla propria identità e
sull’apporto originale del proprio teatro.
Su Edipo si sono espresse le migliori menti della
drammaturgia, della psicanalisi, della filosofia, della sociologia… e così via.
E lui, il bastardo, se l’è sempre filata dalla porta posteriore, non facendosi
ingabbiare da nessun genio delle umane scienze e delle umane arti.
Ma chi è Edipo? Un personaggio. Che cos’è un
personaggio? Nessuno, nei termini dell’anagrafe umana. In nessun database
civico troverete mai scritto Edipo di Sofocle, nato tra il 430 e il 420 a.C. ad
Atene.
Edipo non nasce solo da un tragediografo del V secolo
avanti Cristo, ma dalle opere di Eschilo e dai compositori di ditirambi e inni,
dal Mito e dai Misteri; nonché dal tempo e dai luoghi dell’autore, e dalle sue
esperienze di vita; e dalle sue aspettative e perfino dai rielaboratori
successivi, e anche dai traduttori.
Un Edipo, insomma, che non è figlio di nessuno ed è figlio
di tutti e di chissà chi: un bastardo.
Ma non solo per questo Edipo è un bastardo. La sua vera
natura bastarda si forma molto dopo la sua nascita, quando si mette a viaggiare
nello spazio e nel tempo, facendo soste presso gli artisti e gli scienziati.
“Ma chi ha detto che il teatro è fatto per illustrare
caratteri, per risolvere conflitti d’ordine umano e passionale, d’ordine
attuale e psicologico, come quelli che infestano il nostro teatro
contemporaneo?” scrive Artaud. E, più avanti, categorico: “Dovremmo farla
finita con la psicologia. (…) Basta una volta per tutte con queste
manifestazioni di un’arte chiusa, egoista e personale”.
Più chiaro di così!
Di questo voglio scrivere qui, di un personaggio
trattato come individuo da individui che presumono di poterlo conoscere meglio
e più di quanto esso non conosca se stesso.
Il nostro regista presenta alla compagnia il “suo”
Edipo innovatore e rivoluzionario, orgoglioso delle soluzioni interpretative.
Egli pone Edipo sul tavolo autoptico e lo fa a pezzi. Il personaggio-vittima,
novello Dioniso, dovrebbe rinascere una prima e una seconda e magari una terza volta come Dioniso stesso
detto Trigonos (nato da Semele, Zeus e dalle proprie membra disarticolate dai
Titani). Ahimé, forse non succede. Forse le resurrezioni appartengono più al
mito che alla nostra esperienza. Edipo continua a essere Edipo, un bastardo
senza carta d’identità, di natura insondabile.
A pensarci più a fondo, però, si può anche dire che
egli risorge dal proprio mistero innumerevoli volte, tante quante sono le
interpretazioni drammaturgiche o psicologiche. Ma questa caterva di rinascite
come può portare a un individuo dai carattere definiti che era proprio quello
che tutti cercavano?
La violenza delle autopsie e delle identità false
pesa, più che illuminare, sui vari Edipo, Otello, Amleto, Medea… e diventa un
gioco di libero amore che dissemina la terra di bastardi, ognuno dei quali è
caparbiamente definito il vero erede dal suo creatore.
È un discorso estremo, e non del tutto condiviso
nemmeno dal sottoscritto, poiché la libertà di visualizzare la realtà
(materiale e metafisica) a modo proprio è più che legittima. Esso serve per
giungere al cuore della questione: l’istituzionalizzazione di un’opzione tra
mille, la quale si accaparra meriti e risorse.
Il teatro è così, il teatro si fa così, il teatro è
regia, il teatro è personaggio, il teatro è grande attore, il teatro… Qui finisce
che nel mondo, oltre alla pletora di bastardi nati dall’inquietante unione tra
attore e personaggio, ruffiano il regista, dilaga la marea dei teatri bastardi,
nati dagli amori incestuosi del testo con il placet del pubblico, dell’autore
con la politica, del genio con i mass media, del regista con lo stabile e così
via.
In conclusione, diciamo a Edipo: “So che sei Edipo,
ma non so chi sei, come tu non sai chi sono io. Tuttavia, possiamo incontrarci,
e parlarci, senza che l’uno soverchi e soffochi l’altro. O senza che le
reciproche nature vengano deformate. Rispetto la tua integrità arcana, mi
armonizzo con il tuo dolore e le tue
necessità; e ti chiedo di fare altrettanto. Tu sei voce che non muta, ma che ha
infiniti tremolii e sfumature armoniche. Sei gesto d’immaginazione, movimento
che si sviluppa nel vuoto, solitudine cristallina di una storia finita. Che
cosa puoi fare tu per me? Nient’altro che esistere con le imperfezioni che il
tempo ti ha scavato dentro; e d’altronde, nemmeno io sono ciò che ero e ciò che
sarò. Che cosa posso fare io per te? Inserirti in un ecosistema scenico, dove
tu possa trovare gli strumenti per amplificare la tua voce senza che venga
distorta da una volontà estranea. La tua voce diventa la mia e la uso con
rispetto, libero però di legarla a un tempo presente e a un io presente. Ti do
uno spazio, ti do strumenti musicali, teli, oggetti, luci… Ti do un mondo
scenico in cui vivere. Tu non sei Edipo individuo, ma sei Edipo suoni, Edipo
danze, Edipo visioni, Edipo parole. Così come io non sono uno e basta, ma uno
che respira aria, che nasce e poi muore senza mai uscire dall’universo, e che
ora suona e ascolta, muove e danza, crea visioni e cammina dentro una visione.
Non ti do un’identità, ti do un mondo in cui vivere.”
RADICI PARTIGIANE
Da Tradate, il mio paese natio, mi scrive Gian Paolo Cisotto con riferimento a "Il più bello di tutti i fratelli", il testo teatrale che ho scritto sulla mia famiglia al tempo del Fascismo e sulla morte di mio zio Aquilino, partigiano. Intende inserire il testo in un libro sulla storia locale che sta scrivendo e io ne sono felice. Per di più svolge un lavoro accurato di chiosatore per chiarire o approfondire non solo i termini dialettali in veneto, ma i riferimenti storici e ambientali.
La sua ricerca mi regala nuovi frammenti di un mosaico incompleto e confuso, dato che mia madre non ha mai voluto raccontare nei dettagli un episodio che ha segnato la sua vita. Aquilino era il fratello a lei più caro, per la sua dolcezza e la sua forza nel farsi partigiano. A lei purtroppo toccò di andare a Rescaldina, con una corsa affannosa in bicicletta, per verificare la veridicità di una voce: avevano ucciso dei partigiani. Lei forse sapeva che lui doveva recarsi da quelle pareti e infatti lo trovò là, ucciso dai fascisti.
Ecco che cosa mi manda Cisotto nell'ultima email: la targa a Rescaldina, una cronaca trovata nella biblioteca, la fotografia di quello che era stato il cortile in cui sono nato e vissuto fino ai cinque anni (tutto è stato abbattuto per fare un parcheggio).
L'emozione mi ha spinto a riaprire la scatola delle "reliquie", le poche cose rimaste di mio zio che mia madre ha conservato come si conservano l'amore e la tragedia nel cuore. Alla sua morte, ne sono diventato il commosso detentore. Che cosa contiene la scatola? La cintura, sulla quale lei diceva ci fosse il suo sangue. Un crocifisso, che non so se inserito da lei o se appartenuto allo zio. Le partecipazioni del funerale. Fotografie. I soldi che aveva in tasca. Un portaritratti. Articoli di giornale. Il "lutto cittadino" (dell'anno seguente, dopo la Liberazione). Una santa Veronica. Sua o di mia madre. Veronica è la versione latina del greco Berenice, Berenike, dal macedone fere nike, cioè che porta vittoria. Un codice partigiano? Mia madre con santa Veronica non ha mai avuto niente a che fare. Poi un biglietto strano, tre righe su un pezzetto di carta strappato: "Villa Mariani - presso la stazione - ore 18." Un messaggio? Un appuntamento per un'azione partigiana? Infine, due articoli di giornale. Il primo del "Corriere prealpino" del 26 maggio 1945. Ecco il testo:
"Cronaca dei funerali di tre Patrioti. Tradate. Da Rescaldina, luogo del loro martirio, i corpi dei nostri tre Partigiani: Rossini Carlo, Bruselin Aquino, Crestani §Ferdinando, sono stati trasportati a Tradate. Le onoranze funebri che la popolazione ha tributato ai giovani Caduti, oltre ad essere stata una grande dimostrazione plebiscitaria di cordoglio hanno assunto un carattere di una vera manifestazione patriottica. Tutto il popolo era presenta ai funerali e con esso il C.L.N., le autorità, il Comando Piazza, i Comandanti delle tre Brigate di stanza a Tradate, un picchetto armato dei Patrioti ed altri Enti. Dal Municipio dove i feretri erano rimasti esposti al pubblico il funerale è sfilato per le vie principali del paese, portati a spalla dai loro compagni Patrioti. Dopo il rito religioso sul piazzale della Chiesa, il compagno Lanzanie, il dott. Ronchi, hanno ricordato il Caduto De Angelis Vincenzo che riposa nel nostro cimitero, ed hanno rivolto l'ultimo saluto ai patrioti caduti."
Sul foglio parrocchiale "La Concordia" del maggio 1945 si scrive:
"In onore ai nostri Patrioti. Rossini Carlo, Bruselin Aquino, De Angelis Vincenzo, e poi di Mascheroni Angelo, in diverse domeniche del mese di Maggio furono fatti funerali solenni colla partecipazione di tutta la popolazione tradatese, collegi e scuole: le salme, poste sul camions, parte a spalle furono portate per le vie principali del paese: sul piazzale della Chiesa Parrocchiale furono pronunciati brevi discorsi d'occasione: le Messe di suffragio vennero cantate nella settimana con grande intervento di devoti."
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