Ci troviamo nella sala prove di un grande teatro; o
anche di uno sconosciuto teatro di provincia. Intorno al tavolo siedono il
regista e gli attori. Gettano le basi per la messa in scena di “Edipo re” di Sofocle.
Il regista, assistito magari dal dramaturg, si è preparato con scrupolo e
caparbietà. Ha letto, ha visionato, ha ascoltato, ha riflettuto, ha scoperto,
ha avuto illuminazioni, ha partorito, si è rassicurato sulla propria identità e
sull’apporto originale del proprio teatro.
Su Edipo si sono espresse le migliori menti della
drammaturgia, della psicanalisi, della filosofia, della sociologia… e così via.
E lui, il bastardo, se l’è sempre filata dalla porta posteriore, non facendosi
ingabbiare da nessun genio delle umane scienze e delle umane arti.
Ma chi è Edipo? Un personaggio. Che cos’è un
personaggio? Nessuno, nei termini dell’anagrafe umana. In nessun database
civico troverete mai scritto Edipo di Sofocle, nato tra il 430 e il 420 a.C. ad
Atene.
Edipo non nasce solo da un tragediografo del V secolo
avanti Cristo, ma dalle opere di Eschilo e dai compositori di ditirambi e inni,
dal Mito e dai Misteri; nonché dal tempo e dai luoghi dell’autore, e dalle sue
esperienze di vita; e dalle sue aspettative e perfino dai rielaboratori
successivi, e anche dai traduttori.
Un Edipo, insomma, che non è figlio di nessuno ed è figlio
di tutti e di chissà chi: un bastardo.
Ma non solo per questo Edipo è un bastardo. La sua vera
natura bastarda si forma molto dopo la sua nascita, quando si mette a viaggiare
nello spazio e nel tempo, facendo soste presso gli artisti e gli scienziati.
“Ma chi ha detto che il teatro è fatto per illustrare
caratteri, per risolvere conflitti d’ordine umano e passionale, d’ordine
attuale e psicologico, come quelli che infestano il nostro teatro
contemporaneo?” scrive Artaud. E, più avanti, categorico: “Dovremmo farla
finita con la psicologia. (…) Basta una volta per tutte con queste
manifestazioni di un’arte chiusa, egoista e personale”.
Più chiaro di così!
Di questo voglio scrivere qui, di un personaggio
trattato come individuo da individui che presumono di poterlo conoscere meglio
e più di quanto esso non conosca se stesso.
Il nostro regista presenta alla compagnia il “suo”
Edipo innovatore e rivoluzionario, orgoglioso delle soluzioni interpretative.
Egli pone Edipo sul tavolo autoptico e lo fa a pezzi. Il personaggio-vittima,
novello Dioniso, dovrebbe rinascere una prima e una seconda e magari una terza volta come Dioniso stesso
detto Trigonos (nato da Semele, Zeus e dalle proprie membra disarticolate dai
Titani). Ahimé, forse non succede. Forse le resurrezioni appartengono più al
mito che alla nostra esperienza. Edipo continua a essere Edipo, un bastardo
senza carta d’identità, di natura insondabile.
A pensarci più a fondo, però, si può anche dire che
egli risorge dal proprio mistero innumerevoli volte, tante quante sono le
interpretazioni drammaturgiche o psicologiche. Ma questa caterva di rinascite
come può portare a un individuo dai carattere definiti che era proprio quello
che tutti cercavano?
La violenza delle autopsie e delle identità false
pesa, più che illuminare, sui vari Edipo, Otello, Amleto, Medea… e diventa un
gioco di libero amore che dissemina la terra di bastardi, ognuno dei quali è
caparbiamente definito il vero erede dal suo creatore.
È un discorso estremo, e non del tutto condiviso
nemmeno dal sottoscritto, poiché la libertà di visualizzare la realtà
(materiale e metafisica) a modo proprio è più che legittima. Esso serve per
giungere al cuore della questione: l’istituzionalizzazione di un’opzione tra
mille, la quale si accaparra meriti e risorse.
Il teatro è così, il teatro si fa così, il teatro è
regia, il teatro è personaggio, il teatro è grande attore, il teatro… Qui finisce
che nel mondo, oltre alla pletora di bastardi nati dall’inquietante unione tra
attore e personaggio, ruffiano il regista, dilaga la marea dei teatri bastardi,
nati dagli amori incestuosi del testo con il placet del pubblico, dell’autore
con la politica, del genio con i mass media, del regista con lo stabile e così
via.
In conclusione, diciamo a Edipo: “So che sei Edipo,
ma non so chi sei, come tu non sai chi sono io. Tuttavia, possiamo incontrarci,
e parlarci, senza che l’uno soverchi e soffochi l’altro. O senza che le
reciproche nature vengano deformate. Rispetto la tua integrità arcana, mi
armonizzo con il tuo dolore e le tue
necessità; e ti chiedo di fare altrettanto. Tu sei voce che non muta, ma che ha
infiniti tremolii e sfumature armoniche. Sei gesto d’immaginazione, movimento
che si sviluppa nel vuoto, solitudine cristallina di una storia finita. Che
cosa puoi fare tu per me? Nient’altro che esistere con le imperfezioni che il
tempo ti ha scavato dentro; e d’altronde, nemmeno io sono ciò che ero e ciò che
sarò. Che cosa posso fare io per te? Inserirti in un ecosistema scenico, dove
tu possa trovare gli strumenti per amplificare la tua voce senza che venga
distorta da una volontà estranea. La tua voce diventa la mia e la uso con
rispetto, libero però di legarla a un tempo presente e a un io presente. Ti do
uno spazio, ti do strumenti musicali, teli, oggetti, luci… Ti do un mondo
scenico in cui vivere. Tu non sei Edipo individuo, ma sei Edipo suoni, Edipo
danze, Edipo visioni, Edipo parole. Così come io non sono uno e basta, ma uno
che respira aria, che nasce e poi muore senza mai uscire dall’universo, e che
ora suona e ascolta, muove e danza, crea visioni e cammina dentro una visione.
Non ti do un’identità, ti do un mondo in cui vivere.”
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