Lettera agli aspiranti registi di
Tecneke
Non è
facile cercare una definizione di regia che non sia vaga e generica. Mara Fazio
in “Regie teatrali” ci presenta il regista come “l’artista responsabile dell’intera
concezione dello spettacolo teatrale, coordinatore delle sue varie parti,
scene, costumi, interpretazione e organizzazione del dialogo, recitazione,
musica, luci, movimenti delle masse”.
Nel
suo libro presenta i grandi registi del Novecento, tra i quali Craig con l’attore
ridotto a una supermarionetta, passivo
esecutore degli ordini registici. Stanislavskij e il conflitto che nasce dalla
duplice anima dell’attore, che recita e insieme vive il personaggio, con un
regista che si fa quasi psicoterapeuta. E Mejerchol’d che impone il regista
dittatore, unico autore dello spettacolo. E poi Brecht, depositario non solo
del messaggio politico, ma anche della messa in scena delle proprie opere, da
non variare senza previa approvazione.
Insomma,
una formula univoca di regia non esiste. Ne esiste solo l’evoluzione storica. Esistono
i registi, più che la regia. A meno di degradarla a banale tecnica estetica e
di utilizzo dello spazio scenico: il regista come un vigile urbano benvestito.
In
senso moderno, la figura del regista nasce negli ultimi decenni dell’Ottocento;
ma già nel V secolo a.C. i tragediografi greci si occupavano della messa in
scena.
Ascoltiamo
che cosa ci dice Giorgio Strehler (archivio Piccolo Teatro: Strehler. Il regista
teatrale – “Perché ho scelto questo mestiere”, 1983).
“La
regia è un fatto critico che viene scritto con i mezzi della scena, con le
parole, con gli attori, con le voci, con i suoni, con le luci, con le scene. È
anche un fatto interpretativo, scientifico, sensibile.
(Il
regista) sa organizzare le cose che stiano insieme e che non si prevarichino
l’una con l’altra e che armonizzino l’una con l’altra. (…) Il regista deve
sapere recitare. (…) Il regista deve avere la capacità di capire se si può far
sì che un gruppo di persone possa recitare un certo lavoro e che ognuno di
questi abbia la possibilità di interpretare il personaggio che gli è assegnato.
Dopo di che deve spiegare agli attori il testo drammatico. Questo esame del
testo può protrarsi per giorni e giorni.”
Anche
qui, niente di specifico.
Balza
all’occhio quella nota: l’analisi del testo può durare giorni e giorni. E qui s’innesta
la questione della subordinazione drammaturgo-regista. In che senso va? Il
drammaturgo si pone al di sopra del regista o è il contrario? Strehler era
convinto che il regista dovesse, nella sua elaborazione personale, portare
tanto rispetto all’autore da assicurargli in ogni caso la fedeltà al testo.
Ma
ogni regia, anche la più aderente, è di per sé una contaminazione che rende il
testo qualcosa di diverso dallo stampato.
Qui,
non c’interessa.
Molti
registi avviano la messa in scena con l’analisi dettagliata, testarda e geniale
del testo. Ne ricavano, di solito, un testo proprio di cui vanno orgogliosi; e
considerano percorso un buon tratto di strada.
La
lettura, di solito, serve per capire.
E per definire personaggi e
situazioni. Spesso l’esegesi è assimilata alla rivelazione. Il regista scava nel testo e lo riporta a uno
splendore mitico.
In
realtà, ogni testo è elastico e proteiforme e si dona al lettore con la
vocazione ad assumere forme sempre diverse, all’infinito.
Voi,
giovani tecnekiani che affrontate le prime regie, non fatevi prendere da questa
frenesia di esploratori colonialisti. Analizzate il testo, scopriteci tutto
quello che riuscite a scoprire; ma non illudetevi che il teatro sia tutto lì.
Il
teatro non è sulla carta, ma sulla scena.
Vi presento
la mia idea di regia, voi fatene quello che vi pare.
Anzitutto,
da buoni dilettanti, non date in escandescenze per la scelta degli attori. Chi
c’è c’è, e a nessuno si chiedono i diplomi di scuola drammatica o gli stage o
le esperienze maturate. Distribuite le parti con buonsenso, in accordo con gli
attori. Da qui in avanti si fa appello al vostro senso di responsabilità e alla
vostra autorità. Ogni impasse si supera con una voce super partes, e dev’essere
la vostra. Siete registi, vi avvalete di un mandato. Siete lì per governare la
scena con intelligenza e sensibilità, e anche con decisione.
Potete
leggere il testo, se volete. Ma a mio parere è la lettura scenica che ci svela
davvero quanto, come e dove può risultare teatrale la parola scritta. Ed è
vedendo muoversi i personaggi che potete meglio identificarne corpo e anima.
Sopra un testo ci sui può fermare per l’eternità, ma molto di quel tempo sarà
stato tempo perso. Fate muovere gli attori con il copione in mano e la parola
scritta è costretta a misurarsi subito con lo spazio scenico. Sarà vostra cura
identificare i punti di forza del testo e le parti (quando è possibile farlo)
da ridurre. Ma questo non avviene a tavolino, bensì durante la messa in scena.
Preparatevi, quindi, a un lavoro paziente che non viene condotto su “note di
regia” prefissate e rigide, ma secondo un processo incessante di
improvvisazione, approfondimento, chiarimento, scoperta…
Non
fate l’errore di valutare l’efficacia attoriale concentrandovi sulla psicologia
del personaggio e sull’abilità interpretativa. Finireste per cadere nel
consueto teatro mimetico che tanto annoia e delude, una copia meno iridescente
della realtà. Sedetevi in un giardino pubblico o nell’atrio di una stazione e
guardatevi in giro con occhi teatrali, assistete a uno spettacolo inimitabile
con le sue gag, i pieni emotivi, le scene drammatiche.
Non
vi basta il testo per fare teatro. Non vi bastano gli attori. Vi ci vogliono
gli elementi che purtroppo sono considerati di contorno. O trattati con le
attenzioni di un antiquario che colloca un pezzo pregiato facendo ricorso al
proprio buon gusto; e vietando di farne uso.
Avete
bisogno, anzitutto, della musica.
Ma
non di musica di sottofondo. Non esiste la musica di sottofondo, in teatro! In
teatro la musica è movimento e danza.
Quando
fate leggere un testo, riecheggiate la recitazione dentro di voi
accompagnandola con una musica-ritmo. Non ci può essere parola recitata senza
un’idea musicale che le dia corpo!
Questa
prima idea di parola che fa la musica e di musica che fa la parola dovete poi
concretizzarla con una scelta musicale adeguata alla vita che volete creare
sulla scena. Non abbiate paura di ricorrere a suoni elettronici, ritmi
inusuali, effetti sonori… e provate a costruirvi da voi la colonna sonora, sia
ricorrendo a strumenti dal vivo sia con elaborazioni musicali al computer.
La
parola è dunque ritmo. E il ritmo ci spinge verso la danza.
Tutto
questo ci fa ripartire dallo spazio scenico.
Anzitutto,
delimitatelo. Esso si trasforma in uno spazio-chiuso-universo nel quale trovate
tutto quanto vi serve e nel quale gli attori vivono per tutta la durata della
rappresentazione. Da parte mia, preferisco che essi non lascino mai lo
spazio-scena. Non ha senso, per un interprete, abbandonare il proprio universo.
Dove va? Dietro le quinte a bere una sorsata d’acqua? A rilassarsi? Assurdo.
Uscire dallo spazio-scena significa infrangere la sfera del mondo alieno creato
per la rappresentazione.
Come
avete analizzato il testo, analizzate il vostro spazio. Fatelo conoscere agli
attori. Ne percorrano i confini, lo attraversino, lo memorizzino. Lo spazio può
essere lineare o complesso. Mediante pedane, teli e fondali, potete creare due
piani verticali; e anche due orizzontali. Rifuggite, però, dalle soluzioni complicate
e cervellotiche. Preservate la semplicità sempre, limitando ogni strutturazione
all’essenziale e all’intuibile senza mediazioni intellettuali.
Nello
spazio ponete gli oggetti necessari.
Essi
possono essere congruenti con lo spazio, come le citate pedane; oltre alle
quali ci sono sedie o cubi o tavoli. Vedeteli in funzione del corpo dell’attore.
Come può fare uso di una sedia? Fate giocare gli attori con gli elementi di
completamento dello spazio. Essi sono mobili e consentono continue variazioni
di dimensioni e significati. Un fondale trasparente crea uno spazio arretrato misterioso,
quasi un mondo del sogno e dell’immaginazione; ma posso farlo ruotare in modo
da presentare al pubblico due settori come due stanze, o due mondi affiancati.
Un
attore in piedi su una sedia o un tavolo sconvolge lo spazio, crea una ricca
potenzialità di situazioni diverse.
Non
pensate agli oggetti di scena per come essi sono nella realtà.
Come
avete lasciato che le parole si facessero condurre dalla musica e la musica
dalle parole, lasciate ora che anche gli oggetti vi parlino.
Osservate
una sedia e domandatele: che cosa puoi
fare per me?che cosa puoi fare per gli attori? Con la giusta disposizione d’animo,
la sedia vi risponderà.
Osservate
il vostro spazio scenico e consideratelo non come una fotografia, ma come un
mondo vivente.
Ragionate sull’ecosistema teatrale. Ogni elemento presente è
vivo, e ogni essere vivente (dalla sedia alla musica all’attore) è oggetto e
soggetto degli altri esseri. Tutto è interattivo. La vita (l’efficacia
spettacolare) di ognuno dipende dall’equilibrio dinamico instauratosi nel
sistema.
Se un
elemento è carente, tutto l’insieme ne soffre.
Non
ignorate, quindi, le potenzialità espressive di tutto ciò che vedete sulla
scena. Spremete il più possibile da ogni elemento, cercando e ricercando con un’improvvisazione
appassionata e divertita.
Vedete
bene che il regista è l’occhio esterno, una figura che si rende indispensabile
per gli attori, chiusi nello spazio scenico. Ma capite che egli non è l’onnisciente,
non è il genio che sa e comanda, non è colui che nella propria mente ha già
tutto lo spettacolo. Quello è il regista estetico, di solito narcisista e
scontato. Il regista di cui parliamo è il curatore di un universo che si va
formando. Sta a lui crearvi e mantenervi la vita. E per farlo ha bisogno non
solo degli attori, ma di ogni elemento, sia pure solo un fazzoletto, inserito
nel pianeta scenico. Egli ascolta, traduce, sceglie, accosta, fonde in un’unica
immagine musicale danzata la ricca babele di lingue diverse in cui si esprimono
gli attori, le sedie, i teli, i costumi, le percussioni…
Buon
lavoro.
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