Presso
i greci, l’identità e il valore di una persona dipendevano dal genere e dalle
origini. Donne e bambini erano svalutati (“La vita di un uomo vale più dell’esistenza
di mille donne” afferma Ifigenia ad Aulide scegliendo di sacrificarsi per
consentire agli uomini di partire per la guerra; e a Tauride dichiara: “In una
casa, se scompare il maschio se ne avverte la mancanza; una donna conta poco.”
In Medea però il coro dice: “Il giudizio comune sulle donne muterà; verrà
esaltata la mia vita, onorato il nostro sesso. Finirà lo strepito delle voci
infamanti”) e gli uomini si presentavano più come figlio di che come autore
di. La discendenza e la provenienza venivano prima delle imprese e degli
onori accumulati.
Clitennestra,
in “Ifigenia in Aulide”, domanda ad Agamennone: “Mi è noto l’uomo al quale hai
concesso Ifigenia: ma vorrei conoscerne la stirpe e la patria.”
Penteo
dice a Dioniso, nelle “Baccanti”: “Comincia col dirmi da chi discendi.”
Il
Coro chiede a Edipo, in “Edipo a Colono”: “Di che sangue sei, viaggiatore, di
che padre?”
Quando
si consulta una storia del teatro, si rimane un poco delusi dalle informazioni
relative alle sue origini. Il teatro viene fatto nascere, in modo a volte
confuso e misterioso, dal culto tributato a Dioniso. Si cita il ditirambo, il
canto danzato in suo onore. Si riportano passi di Aristotele e di pochi altri. Sorgono
domande. Come e dove era nato il ditirambo? Chi era Dioniso? Per quale motivo è
stato considerato il dio del teatro? Se ricostruiamo la sua genealogia, ci
avviciniamo anche alla genealogia del teatro? Nello spirito dell’antropologia
teatrale di Barba, mi metto alla ricerca delle radici di Dioniso, con l’augurio
che l’identità storica del teatro si faccia meno sfocata.
I
primi studiosi della misteriosa divinità negano la non grecità di Dioniso, come
fa Walter Otto nei cenni preliminari del suo “Dioniso” per “… dimostrare quanto
antica fosse la consuetudine dei Greci con la religione dionisiaca e quanto
poco persuasive le tesi della sua immigrazione dalla Tracia o dalla Frigia.”
E
James Frazer ne “Il ramo d’oro” scrive, a proposito delle origini di Dioniso:
“Non dobbiamo pensare che questi popoli occidentali (che abitavano le coste
e le isole dell’Egeo) avessero preso in prestito dall’antica civiltà
orientale la concezione di un dio morto e risorto (…). Più probabilmente, le
analogie riscontrabili sotto questo aspetto fra le religioni orientali e quelle
occidentali sono semplicemente ciò che noi, sia pure erroneamente, chiamiamo
coincidenze fortuite, effetto di cause simili che agiscono su menti umane,
ugualmente simili, in paesi diversi e sotto diversi cieli.”
Robert
Graves, ne “I miti greci”, fa viaggiare Dioniso secondo quello che è
l’itinerario, come vedremo più avanti, delle sue origini: Tracia, Lidia,
Grigia, Egitto, India… “Il filo conduttore della mistica storia di Dioniso è il
diffondersi del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale.
Il vino non fu inventato dai Greci; pare che fosse dapprima importato in giare
da Creta.”
Il
terzo capitolo del “Dioniso” di Karl Kerenyi è intitolato “Il nucleo cretese
del mito di Dioniso”. Ritroviamo a Creta gli elemti tipici del culto
dionisiaco: miele, uva, edera, maschera, capra, toro, falloforia, serpente,
morte e resurrezione del fanciullo, danza… E sacrificio, sparagmòs, l’indistruttibilità
della vita nella distruzione stessa. Il culto è legato alla zoè
contrapposta alla bios; la vita infinita contrapposta alla vita finita;
il tempo dell’anima, come scrive Plotino, durante il quale la zoè passa da un bios all’altro,
all’infinito. Il ciclo di vita e morte, per cui Dioniso è rappresentato insieme
ad Arianna, dea ctonia, dea del Labirinto, dell’emergere dal caos alla forma della
danza, dalla mancanza di orientamento all’uscita nella luce. Lo Zagreo cretese
è Zeus-Dioniso, il precursore di entrambi gli dei greci.
Da
Creta già Erodoto ci aveva portato in Egitto, facendo rilevare la somiglianza
del mito e del rito di Osiride con quello di Dioniso. Osiride, dio degli inferi
e della fertilità, anche lui ucciso e smembrato e poi risorto, anche lui
strettamente legato all’elemento femminile.
Quali
elementi pseudo teatrali ci si presentano, in questa fase, prima che venissero
elaborati la tragedia e il dramma satiresco?
Anzitutto
la danza, eseguita dapprima in forma circolare e poi sempre più elaborata con
schieramenti frontali, a spirale, incrociati, e con esibizioni a coppie e
singole. Ma oltre alla danza si attuavano già piccole performance drammatiche
in vari ambiti cultuali. Durante le processioni, con scherzi e provocazioni
verbali, di genere salace. Durante i misteri, e i primi furono gli Eleusini, di
provenienza cretese. Gli officianti si mascheravano per impersonare la divinità
e ne recitavano la vita e le imprese. In Egitto era lo stesso faraone a
praticare l’Osirizzazione per esempio nel Dramma di Abido, recitando vita e
morte del dio. La drammatizzazione era consentita
solo a lui, nessun altro poteva interpretare sulla scena. Questo uso
politico-religioso del teatro ne impedì la nascita e l’evoluzione, dimostrando
come tutte le forme di assolutismo siano sterili.
Quando
si afferma che gli “attori” recitavano vita e imprese degli dei, non dobbiamo
dimenticare la motivazione di ogni teogonia, strutturata sul bisogno di
comprendere e di condividere la realtà, di ordinarla secondo schemi sia
razionali sia emotivi, e di scandagliare l’uomo mettendolo in relazione con l’universo.
I
riti espressi con danza, canti e racconti drammatizzati sono sia espressione
sia analisi e come tali necessitano di interpreti e poi di spettatori. Il
teatro nasce quando l’officiante si svincola dal significato religioso (è
quello che avviene nell’evoluzione della tragedia da Eschilo a Euripide) e
rende significativa la performance sul piano umanistico, concentrandosi sulle cronache
terrene, sulle dinamiche psichiche e sulle relazioni dell’uomo con il mondo.
Ma
torniamo a Dioniso, il cui viaggio all’indietro nel tempo non si ferma alla
civiltà minoica, ma procede fino al neolitico, spostandosi da un continente all’altro.
In “Siva
e Dioniso”, con sottotitolo “La religione della natura e dell’eros”, Alain Daniélou
ci accompagna nell’esplorazione delle prime divinità indiane, che tanta
affinità hanno con Dioniso. La presentazione in copertina dice: “Separando l’uomo
dalla natura e dfal divino, l’Occidente ha perduto la propria tradizione. Daniélou
scopre nelle credenze e nei rituali dell’Occidente una stretta affinità con lo
Shivaismo e mostra come molti elementi della perduta tradizione occidentale
possano essere facilmente spiegati con l’aiuto dei testi e dei riti preservati
in India.”
Nel
5000 a.C. lo shivaismo si diffonde in tutta l’area mediterranea fino al Portogallo.
Shiva è un dio complesso e contradditorio come lo è Dioniso. Inevitabile,
quando si intende rappresentare la vita nella sua realtà oggettiva, contessuta con
la morte, aspirazione di pace in una realtà di violenza incessante, ritmo di
germogliazione-appassimento, luce e buio, sopra e sotto. E prima di Shiva?
Rudra, il dio della natura selvaggia, detto l’Urlatore. Siamo tra il neolitico
e l’età del rame. Dall’animismo si passa alle divinità legate alla natura:
Pasupati, il signore degli animali; e Parvati, la signora delle montagne; a
Creta si chiamano Zagreo e Cibele. Una società matriarcale, casa e terre
appartengono alle donne, l’eredità avviene tra madre e figlia; l’uomo è il
fecondatore che s’interessa alla guerra e al gioco, o alle elaborazioni filosofiche.
Chi ,
dunque, Shiva? È il vagabondo nudo che danza il mondo, colui che insidia le
donne, il portatore di vita e di distruzione, l’asociale, l’anarchico che si fa
gioco dei potenti, colui che compie i miracoli…
Ecco
come è presentato nei Veda:
“Il
capo dei brahmani si rivolse al re delle montagne. Ho sentito dire che vuoi
dare in sposa a Siva tua figlia, tenera come un fiore di loto, divinamente
bella, in sommo grado perfetta. Ma questo Siva non ha dimora, non ha
conoscenti. È malfatto, è privo di meriti. Vive nei luoghi di cremazione.
Sembra un incantatore di serpenti. È soltanto uno yogi che vive nudo. Le sue
membra sono deformi. I suoi unici ornamenti sono dei serpenti. Ignoriamo il
nome della sua famiglia, la sua casta, le sue origini. È un ragazzo che si
comporta male, senza un mestiere. Ha il corpo cosparso di cenere. È irascibile
e senza giudizio. Nessuno ne conosce l’età. I suoi capelli irsuti sono in
disordine. È il compagno di tutti i buoni a nulla. Non è che un medicante che
segue una cattiva inclinazione e si oppone sistematicamente ai comandamenti dei
Veda” (A. Danielou, Siva e Dioniso, Ubaldini,
pag. 76).
Shiva
ci presenta il mondo così com’è, non come si vorrebbe che fosse; e il divino
come coesistenza degli opposti. Gli elementi che lo contraddistinguono? Toro,
fallo (linga), ariete, serpente, danza estatica, labirinto, sacrifici di
animali, cortei chiassosi…
Insomma,
in questo andare indietro nel tempo abbiamo incontrato radici sempre più
profonde del dionisismo, dal Medio Oriente a Creta all’Egitto fino all’India
prima del 5000 a.C.
Riscontriamo
che Dioniso eredita i seguenti elementi: la connessione con la natura e il riferimento
a montagne, boschi, grotte; l’uomo-animale (minotauro, satiro che in prima
istanza era uomo-cavallo); il fallo portato in corteo (falloforia); la mania,
la follia estatica espressa nella danza con la quale si esprime l’”entusiasmo”,
il dio in me; il sacrificio dell’animale, lo smembramento-sparagmos (di tutti e
tre gli dei) e il pasto di carne cruda; il ciclo vita-morte; il disprezzo per
le leggo sociali; mithos superiore a logos; feste (Grandi Dionisie); musica, danza,
canto… declamazione (ditirambo).
Ma
tutto questo che cosa c’entra con il teatro?
Orienta,
suggerisce, ispira, motiva, finalizza, riordina.
In
modo anche ingenuo, ecco alcune suggestioni.
ANIMISMO.
In ogni dio c’è dell’animale, in ogni animale c’è dell’umanità, in ogni uomo
c’è il divino. Se sostituiamo gli oggetti di scena agli animali e l’arte, la
technè, agli dei, inseriamo l’attore in un universo gerarchizzato fondato
sull’interdipendenza. Teatro: eliminiamo l’antropocentrismo e restituiamo
dignità e importanza fondamentale agli elementi “secondari” rispetto all’attore
e al regista: oggetti di scena, scenografia, musica, coreografia, danza…
MASCHERA.
Dicevano gli indù: come nella foresta non devi nominare la tigre, così nella
vita non devi nominare dio. L’uomo non deve nominarlo e non può vederlo. Chi lo
vede, rimane fulminato. Il dio deve essere mascherato e lo si fa con gli
epiteti. La maschera vela la potenza divina e consente all’uomo di praticare la
devozione. La maschera rappresenta il dio: maschera di Dioniso su colonna con
mantello. La maschera trasforma il dio in qualcosa di accessibile e trasforma
un oggetto in dio. La maschera trasforma. La maschera nasconde, spaventa e
mette in comunicazione con la divinità. L’uomo che indossa la maschera si
trasforma. La maschera consente all’uomo di uscire da se stesso e di diventare
altro. Due tipi di maschera: una materiale, da indossare; l’altra virtuale,
solo mentale e fisica. I bambini e gli anziani non hanno difficoltà a
“mascherarsi”, dato che nel primo caso sono in esplorazione del mondo e
vogliono uscire da sé, nel secondo caso l’anziano vuole uscire da sé in quanto
sé sgradito, alla ricerca di una nuova giovinezza. L’adolescente è concentrato
invece su di sé e stenta ad assumere altre identità, dato che la propria è
fragile. L’adulto teme che l’uscita da sé metta in crisi il ruolo sociale.
Teatro: il nostro attore deve limare l’ego in favore di un sé non a uso e
consumo degli spettatori, ma del proprio io che allarga così la visuale e si
mette in comunicazione con il mondo dell’immaginazione e con la realtà
universale.
DANZA ESTATICA.
Indù, egizi, cretesi e greci stabilivano un contatto con gli dei utilizzando
una musica ipnotica (flauti, cembali, percussioni) e una danza che portasse
all’estenuazione fisica e psichica (mania). Abbiamo l’esempio delle tarantate.
Il divino era inteso come realtà in contrasto e opposizione con il mondo
sociale, impregnata del mondo animale e vegetale, di sesso e sensualità. Lo scopo
di danze, musiche, bevande inebrianti e sostanze allucinogene era di squarciare
il velo della realtà sociale e accedere al mondo del mito e del divino. Teatro:
si elimina ogni rapporto “reale” con il pubblico, che è visto lontano,
spettrale, e ci si concentra sull’azione scenica, ribaltando la realtà. Non è
reale la platea, ma il palcoscenico, e questo non significa certo naturalismo o
verismo. Significare accettare per vera l’immaginazione. Il mithos è di nuovo
superiore al logos.
TRASMIGRAZIONE.
L’anima è un’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri e rinasce in corpi
diversi. Teatro: l’attore non interpreta nel senso di immedesimarsi
psicologicamente in un altro individuo, costringendosi a fare anzitutto lo
psicologo. Egli si apre all’anima del personaggio e si dichiara disponibile ad
accoglierla. Per farlo, deve considerare il personaggio come “persona”
teatrale, non reale. Una specie di dio che non può essere nominato e guardato
nella sua essenza. Il rapporto avviene per epiteti e mediante l’accesso alla
diversa realtà in cui vivono gli dei, e quindi i personaggi del dramma. Solo
inserendosi nel dovuto modo nell’ecosistema scenico, solo accettando la propria
interrelazione con gli elementi del teatro l’attore può accedere al “santuario”
degli dei, dei personaggi.
MISTERI.
L’iniziazione ai misteri, consistente nella conoscenza e nell’esperienza del
contatto con il divino, cambiava la vita e assicurava l’immortalità dell’anima.
Lo scopo era di avvicinare la divinità all’uomo, in modo che i confini fossero
sempre più labili e che l’uomo potesse aspirare a farsi simile a dio. Vedi i
semidei e gli eroi con le assunzioni in cielo. Teatro: l’uomo che si trasforma
in attore subisce un’iniziazione per diventare personaggio, ossia il dio della
scena. Sulla scena non ci sono quindi più uomini, nemmeno attori. Essi hanno
subito una metamorfosi in personaggi-dei.
RITI. La
processione prepara il cambiamento. Sia che ci si rechi al luogo all’aperto
deputato al sacrificio o al santuario o al tempio dell’iniziazione ai misteri,
essa appare come un trasferimento-metamorfosi da uno stato iniziale basso a uno
finale alto. Teatro: gli attori accedono al palcoscenico portando alcuni
oggetti di scena, allestiscono la scena come luogo di rito-sacrificio e
compiono atti benaugurali (per esempio, spargono petali o accendono incenso).
RITI DI
PASSAGGIO. Il rito di passaggio, di solito dall’età infantile a quella
adulta, serve a mostrare la differenza tra il caos e l’ordine sociale.
L’iniziando viene spaventato, espulso dalla società, costretto a prove dure,
tormentato, istruito. E infine viene riaccettato come rinato. Durante la fase
di sospensione dei ruoli sociali egli è anche libero di folleggiare o compiere
atti vandalici. Alla fine, comunque, la sua scelta sarà per la sicurezza, la
protezione e l’ordine sociali. Teatro: la drammaturgia non porta a termine il
rito. Essa si ferma nell’area mediana, quella in apnea, dato che il suo compito
non è di esaltare la società, ma di diventarne lo specchio critico.
CICLO
VITA-MORTE. Tutto è ciclico. L’avvicendarsi del giorno e della notte, delle
stagioni, della fortuna e della sfortuna, del benessere e del malessere, della
gioia e della’infelicità, della vita e della morte. In sintesi, un avvicendarsi
di buio e luce, di silenzio e suoni, di immobilità e movimenti. Teatro: la vita
sulla scena si manifesta con cicli incessanti di luminosità, movimento, suono.
Ciò che termina dà inizio ad altro e mai ci può essere un’impressione di
“vuoto”.
NARRATORI.
L’aedo era pervaso di entusiasmo, aveva il dio in sé. Per stabilire un rapporto
con il dio ci si avvaleva della musica e della danza. Teatro: la parola
quotidiana non è degna del dio-personaggio. Essa va quindi “santificata” con la
musica e con il movimento.
PROTAGONISMO.
Nei Tantra il numero uno non ha significato in natura. Dallo zero si passa al
due, ossia alla relazione. Non esiste un protagonista assoluto che non dipenda
dagli altri. Teatro: no al grande attore, no al teatro di regia, no alla
ricerca del successo personale, no alla dipendenza dal pubblico e dalla
critica. Il teatro è ECOSCENICO. Teatro come SCENISMO, sinergia, confluenza,
relazioni, sistema vivente, organismo.
Per tentare una sintesi:
- rapporto
animistico con la natura; rapporto espressivo con l’ambiente scenico secondo un
ciclo di vita-morte
- uscire
da sé verso il dio: aedo, profeta, danza estatica; contro il principium
individuationis
- la maschera
virtuale per stabilire la comunicazione con il dio; enthusiasmos, il dio in me;
e il dio è musica, movimento, ritmo
- no
allo psicologismo riduttivo
- l’attore
media tra il personaggio, la società e gli archetipi espressi nei miti (“fare
anima” di Hillman)
- l’immedesimazione
nel personaggio non è un passaggio da un individuo all’altro, ma una
dilatazione dell’individuo nell’anima mundi
- il teatro racconta
la realtà così com’è (Shiva-Dioniso), non come si vorrebbe che fosse, e lo fa
con l’immaginazione: mithos contro logos
- il teatro
opera in un luogo circoscritto o in un percorso; esso è di genere tragico o
comico; solo il teatro comico prevede una reale interazione con il pubblico
- esso parte
dalla musica, si esprime in una danza cantata e recitata; la parola quotidiana
va sacralizzata con la musica e il movimento, anche se solo interiori
- esso
dissente dall’ordinamento sociale, al quale contrappone un’armonia più alta
- la
rappresentazione è un rito di iniziazione-passaggio incompleto, fissata nella
fase intermedia di anarchia
Ulteriore sintesi:
- l’uscita
da se stessi per mettersi in comunicazione con gli dei
- la
prevalenza del mithos sul logos
- la
precedenza della musica e della danza sulla parola
- la
prevalenza del dionisiaco sull’apollineo
- l’attivazione
della scena come ecosistema