Un inno alla democrazia?
Ritengo metodologicamente corretto, per avviare un
percorso di definizione della tragedia greca, prendere le mosse dalla prima
tragedia completa a noi pervenuta, i “Persiani” di Eschilo. Essa raccoglie
l’eredità degli autori precedenti (Tespi, Frinico, Pratina) e pone le basi per
elaborazioni successive da parte dei futuri tragediografi; i quali avrebbero dato
contributi sia nella continuità sia nella discontinuità. Qualcosa accomuna la
prima di Eschilo all’ultima tragedia di Euripide, le “Baccanti”: il rapporto di
Atene con l’Asia, un rapporto tra apollineo e dionisiaco, fra democrazia e
dittatura, fra media virtus e
sfrenatezza.
Nei Persiani è subito chiaro che tra Susa e Atene c’è
un’enorme differenza di gestione del potere. In Persia il potere assoluto è
nelle mani di uno solo, che si presenta al popolo non come suo servitore, ma
come dio in terra, un faraone africano o un maharaja asiatico; in Grecia è in
atto un processo che dal feudalesimo aristocratico porta alla democrazia,
veicolata anche dal potere di uno solo, ma illuminato e non assoluto. La regina
Atossa domanda chi sia il signore dei greci e il Coro risponde, con suo
stupore, che “si gloriano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo
sudditi”.
Il cambiamento (che Eschilo esprimerà nell’Orestiade,
sacrificando però l’autonomia della donna), dalla giustizia sommaria della faida
medievale all’aeropago, tribunale della polis, definisce il potere non come
decisione del singolo o della famiglia, non come genos, ma come deliberazione fondata su leggi volute dalla
comunità, come ethos.
Un processo che riguarda quindi la gestione del
popolo nella giustizia, secondo le leggi che gli uomini elaborano in accordo
con la volontà degli dei.
Serse ha peccato di hibris, di tracotanza, presumendo di potere contare solo sul
proprio giudizio e non su quello divino espresso negli oracoli. La sua impresa
è destinata al fallimento perché non ha ascoltato gli dei e ha ignorato la
volontà del popolo.
Il Messaggero afferma: “I numi proteggono la città
della dea Pallade. (…) Un genio vendicatore o un maligno demone apparso da
chissà dove condusse all’estremo disastro.” Alla regina non resta che prendere
atto della verità: “Le ostilità degli dei mi abbagliano gli occhi.”
Serse non deve quindi fare i conti con i propri
strateghi o con le proprie decisioni errate, ma con il potere incentrato su una
sola persona che si eleva al di sopra degli dei, e pretende di governare sul
mondo intero e perfino sull’Olimpo. Le conseguenze sono disastrose per lui, ma
foriere di nuove prospettive di libertà e democrazia per i popoli sottomessi
(sempre che non incorrano in altre incrinature del patto tra uomini e dei,
fondato sull’ascolto della volontà divina e sull’accettazione della condizione
umana).
Recita il Coro: “Singhiozza, ora, o suolo d’Asia
tutto deserto. (…) I popoli d’Asia non più obbediranno alle leggi persiane… né
al suolo prostrati si lasceranno tiranneggiare: la potenza del re è dileguata.
Né più la lingua dei sudditi è stretta in catene, e il popolo liberamente si
sfrena a parlare ora ch’è sciolto il giogo dell’oppressione”.
In questo primo ambito, la tragedia greca parla al
popolo di libertà e democrazia, di giustizia e rispetto degli dei. Dal 534,
anno in cui Pisistrato inaugura le Grandi Dionisie, un altro spazio di
discussione pubblica è a disposizione degli ateniesi, oltre all’agorà: quello
del teatro. Uno spazio di presentazione, riflessione e problematizzazione di
grandi temi sociali e politici. Il progresso è condiviso e sollecitato dal
popolo, non è nelle mani di uno o di pochi.
La rappresentazione dei Persiani, opera vincitrice
delle Dionisie, è del 472. Pochi anni dopo, tra il 458 e il 456, giunge
all’apice il conflitto tra l’ideologia conservatrice di Cimone, fautore di un
governo aristocratico, e la spinta democratica di Pericle.
Gli dei governano ancora Atene, ma dopo l’esaltazione
per la sconfitta della Persia, si profilano i tempi incerti del conflitto con
Sparta. Atene sarà coinvolta per un lungo periodo nelle guerre del Peloponneso.
La devozione agli dei non è sufficiente per assicurare pace e benessere. La
democrazia scricchiola, Atene non è più il centro del mondo, il breve periodo
della tragedia ha fine. Democrazia e libertà sono solo un sogno? No, ma
rivelano una labilità che costringe l’uomo a una fatica incessante per
tutelarle.
Ho citato, all’inizio, le “Baccanti” come termine di
confronto con i “Persiani”. Anche nell’opera di Euripide troviamo il confronto
tra un re greco, Penteo, e il potente “inviato” di un dio straniero, Dioniso,
dagli usi e costumi diversi. Anch’egli è un conquistatore come Serse: “E poi,
una volta rimesse in ordine le cose qui, mi dirigerò verso un’altra terra.” Penteo
riconosce in lui il meteco, lo
straniero; ma più che diffidenza e repulsa prova curiosità e addirittura ne
subisce il fascino ambiguo: “Hai i capelli sciolti, provano che non frequenti
palestre, ti scendono lungo le guance, accendono i desideri. Hai la pelle
bianca e vuoi averla bianca, stai all’ombra, eviti i raggi del sole: dai la
caccia ad Afrodite, con la tua bellezza.”
Si profila uno scontro tra una divinità dalle origini
misteriose (tutto ciò che era ambiguo, misterioso, eccessivo era orientale) e
la stabilità politica, sociale e religiosa della Grecia. Uno scontro tra Asia
ed Europa, come nei Persiani. A Penteo la vittoria pare semplice e immediata:
imprigiona lo straniero e si mette in caccia delle donne di Tebe impazzite,
divenute Baccanti. Ma Euripide opera un ribaltamento: non è l’Asia a peccare di
hibris, ma la Grecia, dato che Penteo
si oppone ai riti di un dio. Lo sconfitto sarà quindi lui. L’Asia, con i suoi
misteri e le sue esuberanze, ha partita vinta sull’Europa razionale e civile.
Ma è davvero così? Euripide rimescola sempre le carte. Che cosa rimane, alla
fine? Non la gioia del trionfo, ma il lutto per un orribile massacro, la
profanazione del rapporto sacro tra madre e figlio, la desolazione delle donne
rinsavite, l’angoscia perché il rapporto dell’uomo con gli dei non è per niente
chiaro e fecondo, ma può portare distruzione e dolore.
Non c’è un piano provvidenziale, dichiara Euripide.
C’è solo un mondo assurdo contro il quale l’umanità tenta di opporsi confidando
nelle leggi e nel progresso, ma invano. La democrazia può finire come le donne
di Tebe: in un branco selvaggio che pratica lo sparagmos e smembra animali vivi, che divora carne cruda, che
distrugge i villaggi, che rapisce i bambini, che uccide. Istituite da un
tiranno, Pisistrato, nelle Grandi Dionisie le tragedie non risultano certo un’operazione
governativa di demagogia. Esse non rafforzano il potere del momento, ma ne
mettono sempre in discussione le fondamenta e le modalità operative. In molti
personaggi erano ravvisabili i potenti, operazione che per noi risulta
difficile o impossibile. Attraverso vicende mitiche, il tragediografo
rifletteva e faceva riflettere sui valori fondamentali e sull’operato dei
politici. La tragedia greca non rifletteva quindi una cultura di Stato, al
contrario. Essa spesso indispettì politici, religiosi e anche il popolo, quando
risultava innovativa fino all’eresia o all’eversione.
Eschilo
Un processo di umanizzazione?
Da Eschilo a Euripide è facile riscontrare come le
vicende umane siano regolate dapprima dagli dei, poi da eroi eccezionali,
infine siano di totale pertinenza degli uomini comuni che dagli dei devono
aspettarsi, più che soccorso, ostacoli e malevolenze. “Chi con tutto il cuore
canta epinici a Zeus, otterrà la sapienza perfetta. È lui che avvia i mortali
sul cammino della saggezza.” Così scrive Eschilo nell’Agamennone. E nel finale
della trilogia, nelle Eumenidi: “Siate felici, felici nel florido possesso
della ricchezza. Chi sta sotto le ali di Pallade il Padre lo rispetta.”
Dagli dei, dice Eschilo, viene la sapienza per
governare con giustizia e anche per assicurare al popolo il benessere. Solo
assecondando gli dei Atene può essere esempio di florida pace. Zeus (è quasi un
monoteismo) è sempre presente per guidare l’uomo e per assicurarsi che non
superi i propri limiti, non pecchi di hibris
e si assoggetti ad ananke, la
necessità.
Un piano salvifico che risulta più nascosto e meno
comprensibile a Sofocle.
Nell’Aiace fa dire ad Atena: “Ero io! Col suo
cervello malato, ossessionato, io lo frustavo, l’affondavo nella trappola cupa.”
La dea è dentro Aiace e lo manovra con il solo scopo di farlo impazzire, di
farlo vergognare di se stesso al punto da spingerlo al suicidio. Aiace ha
ignorato il potere degli dei, quando ha affermato: “Faccio a meno di loro.
Credo in me stesso.” Il peccato di tracotanza c’è, ma la pena divina è
proporzionata alla spacconata? Gli dei sono troppo crudeli, infieriscono sugli
uomini senza pietà. Sofocle fa dire a Odisseo: “Noi esseri umani che siamo? Spettri,
impalpabile ombra.”
Il rapporto tra gli uomini e gli dei è necessario, ma
incomprensibile. Gli dei sono distanti dall’uomo e all’uomo non resta che
accettare il dolore inspiegabile provocato dai loro interventi. Dalla fede
certa di Eschilo a un germoglio di agnosticismo che ancora non si sviluppa.
Trovando difficile raccordarsi all’Olimpo, Sofocle si concentra sugli uomini,
approfondendone le motivazioni e le aspirazioni. A differenza di Eschilo, che
badava più all’evolversi della vicenda verso un finale significativo che al
personaggio, Sofocle sviluppa la psicologia dei suoi protagonisti, solitari e
impotenti, abbandonati dagli uomini e dagli dei nonostante un passato eroico
(Eracle) o la dedizione assoluta a un ideale di giustizia (Antigone).
Ma il ruolo di “umanista” spetta a Euripide.
Se Sofocle ha fondato la religiosità delle tragedie
soprattutto sugli oracoli, Euripide svaluta gli indovini come Calcante facendo
dire ad Achille: “Che razza d’uomo è un indovino, che enuncia poche verità e
molte menzogne, se gli va bene, e, se non gli va bene, non se ne cura?” La
comunicazione tra gli uomini e gli dei è interrotta e quando c’è può risultare
falsa.
“Vedo ciò che fanno gli dei. Innalzano ciò che non
vale nulla e abbattono ciò che ha fortuna” dice Ecuba. Oreste, nell’Ifigenia in
Tauride, chiarisce il pensiero: “Impera il disordine in cielo e in terra”. L’Olimpo
è quindi specchio deformante dell’umanità e anche gli dei si ritrovano in un
caos (soprattutto razionale, poiché è con la filosofia di Anassagora, il cui nous mette ordine nell’universo; e di Socrate,
l’indagatore sofistico, che Euripide definisce il proprio approccio). Per
sondare le profondità della psiche e per comprendere il comportamento umano non
c’è bisogno degli dei, utilizzati come deus
ex machina per una soluzione veloce del plot. La scrittura, alta in
Eschilo, si abbassa a livello dell’uomo, uomo non più eroe, ma fattore di
identificazione per il pubblico. Uomo riconoscibile nei suoi tratti di vita
quotidiana, uomo ateniese di tutti i giorni che proprio per questo turba di più
gli spettatori, tanto da negare a Euripide l’empio le vittorie alle Dionisie. Non
è meglio evadere dalla realtà con la fede negli dei soprannaturali che vedere
sulla scena il marito adultero, la madre figlicida, la moglie gelosa fino all’omicidio,
la follia del fanatismo religioso, le viltà dei potenti? E le donne che la
vincono sugli uomini e che dovrebbero avere in Atene una dignità civile ben
diversa?
“Qualcuno sostiene ancora che gli dei vivono nel
cielo? No, lassù non vive nessuno, proprio nessuno; a meno che non si sia
sciocchi e si voglia prestare fede alle leggende del tempo antico”. Queste
incredibili parole sono pronunciate da Bellerofonte in un frammento dell’opera
perduta di Euripide. Forse, più che perduta, è stata bandita (in U.Albini, Euripide
o dell’invenzione, Garzanti 2000, pag. 145).
Sofocle
Educazione popolare e consenso?
Pisistrato, dunque, offre visibilità ai tragediografi
nelle Grandi Dionisie. A loro sono riservati gli ultimi tre giorni, dopo le
gare dei ditirambi e delle commedie. Tutta la popolazione è spinta a
partecipare. I ricchi detengono la coregia, pagano per tutti; fare parte dei
declamatori di ditirambi o degli interpreti o del coro è un onore. Verso il
luogo delle rappresentazioni muove un lungo corteo alla cui testa ci sono gli
orfani di guerra mantenuti dalla città, le vergini, i bambini… e davanti a
tutti le autorità civili e religiose. Inni e sacrifici inaugurano le Dionisie,
che sono un’offerta agli dei. La città sceglie e paga l’autore. Può l’autore
non corrispondere a tante attenzioni? Certo. Fa il suo dovere, rivitalizzando
il mondo dei miti che costituisce le fondamenta di Atene e che già comincia a
scricchiolare. La sacralità del mito è infranta dallo stesso trattamento che
gli riservano i tragediografi. Ognuno ne fornisce versioni personali ed è
proprio questo che fa spettacolo e desta la curiosità del pubblico: in scena c’è
Elena, ma come sarà questa Elena? Già il passato offre una varietà sconfinata
di varianti legate a tempi e luoghi diversi. Ma questa libertà d’autore è
libertà espressiva, non c’è dubbio. Tanto che sia Eschilo sia Euripide sono
accusati di empietà. Euripide, soprattutto, desta sospetti di non allineamento
alle politiche civiche; è anche amico di Socrate; frequenta filosofi con idee
eretiche; collabora con giovani musicisti rivoluzionari. L’utilizzo del mito,
tuttavia, non è dissacrante in senso spregiativo. Esso viene rispettato per la
sua potenza di indagine, conoscenza e comunicazione. Già nel V secolo esso
rischiava di essere imprigionato in strutture narrative fini a se stesse, una
serie di favole senza più incidenza sulla realtà. I tragediografi lo
riutilizzano per fare luce sull’animo umano e sulla storia.
Le Dionisie erano un collante sociale, non c’è dubbio.
La polis si raccoglieva intorno alla propria storia e celebrava se stessa. Ma
non si può parlare di teatro di regime. I tre artisti più che un consenso hanno
prodotto un dissenso; ma si tratta di quel dissenso fecondo e democratico che
consente alle idee di circolare e che stimola la produzione di idee sempre
nuove. Non per niente Atene è stata per
lungo tempo all’avanguardia nel campo del pensiero, della scienza, della
politica e dell’arte. Non per niente tutto questo è ancora vitale e offre
continui stimoli a pensatori e artisti.
L’educazione popolare si è realizzata non nell’esaltazione
della verità di regime, ma nell’osare critiche nei riguardi del regime stesso, del
mondo ormai anacronistico degli aristocratici, di una religione messa sempre
più in crisi dalla filosofia, dell’emarginazione femminile, della presunta infallibilità
della giustizia…
I tragediografi hanno avviato un processo
irrefrenabile, quello della rivisitazione del mondo attraverso l’arte. Hanno sviluppato
il ditirambo dedicato agli dei e l’hanno trasformato nel teatro fatto per gli
uomini.
Euripide
Teatro tragico o teatro totale?
La tragedia greca è purtroppo diventata elemento di
studio nei licei e occasione di rappresentazione spettacolare e turistica,
relegata in un ambito elitario quando invece è nata per essere comunicazione
universale, rivolta a tutti. Molti di coloro che la mettono in scena lo fanno
con la cautela e il timore di chi ha a che fare con oggetti di culto. Oppure si
rifanno a un’antichità stereotipata, senza scorgerne la vitalità sempre attuale.
Trattare la tragedia da tragedia può essere sviante.
Nelle tragedie del quinto secolo ritroviamo il mondo
epico dell’Iliade, ma scopriamo anche i meccanismi della commedia. Ci sono le
danze rituali, ma anche le sperimentazioni delle prime forme di teatro-danza. C’è
la recitazione mimetica, quella che facilita la catarsi; ma gli attori in più
cantano, in forme sia monodiche sia corali. Se in Eschilo la dimensione interpretativa
è ancora ieratica (ma “spettacolare”), da Sofocle in poi il teatro dà fondo a
tutte le proprie risorse: fondali e scenografie, colpi di scena e macchine, innovazioni
interpretative e registiche.
Abbiamo di fronte un teatro totale che può riservare ancora
sorprese in fase di messa in scena, purché si consenta alle opere dei tre
tragediografi di rivivere secondo le potenzialità inespresse, che non avranno
mai fine. Se il teatro è nato dal ditirambo, e prima ancora dalla danza
cantata, è lì che bisogna tornare. Alla musica, seguendo l’intuizione di
Nietzsche. Ma non alla melodia suggestiva o al tappeto di sottofondo o alla
composizione che entra in competizione con la drammaturgia. Musica che non
accompagni la parola, ma con la quale si unisca in uno scambio reciproco di
espressività, musica che sia una traslitterazione del movimento, musica insomma
come fusione di parola e movimento.
Anche la tragedia greca deve sottostare ad ananke, la necessità: è destino che essa
continui a vivere.
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