venerdì 25 aprile 2014

GENEALOGIA DEL TEATRO

Presso i greci, l’identità e il valore di una persona dipendevano dal genere e dalle origini. Donne e bambini erano svalutati (“La vita di un uomo vale più dell’esistenza di mille donne” afferma Ifigenia ad Aulide scegliendo di sacrificarsi per consentire agli uomini di partire per la guerra; e a Tauride dichiara: “In una casa, se scompare il maschio se ne avverte la mancanza; una donna conta poco.” In Medea però il coro dice: “Il giudizio comune sulle donne muterà; verrà esaltata la mia vita, onorato il nostro sesso. Finirà lo strepito delle voci infamanti”) e gli uomini si presentavano più come figlio di che come autore di. La discendenza e la provenienza venivano prima delle imprese e degli onori accumulati.
Clitennestra, in “Ifigenia in Aulide”, domanda ad Agamennone: “Mi è noto l’uomo al quale hai concesso Ifigenia: ma vorrei conoscerne la stirpe e la patria.”
Penteo dice a Dioniso, nelle “Baccanti”: “Comincia col dirmi da chi discendi.”
Il Coro chiede a Edipo, in “Edipo a Colono”: “Di che sangue sei, viaggiatore, di che padre?”

Quando si consulta una storia del teatro, si rimane un poco delusi dalle informazioni relative alle sue origini. Il teatro viene fatto nascere, in modo a volte confuso e misterioso, dal culto tributato a Dioniso. Si cita il ditirambo, il canto danzato in suo onore. Si riportano passi di Aristotele e di pochi altri. Sorgono domande. Come e dove era nato il ditirambo? Chi era Dioniso? Per quale motivo è stato considerato il dio del teatro? Se ricostruiamo la sua genealogia, ci avviciniamo anche alla genealogia del teatro? Nello spirito dell’antropologia teatrale di Barba, mi metto alla ricerca delle radici di Dioniso, con l’augurio che l’identità storica del teatro si faccia meno sfocata.
I primi studiosi della misteriosa divinità negano la non grecità di Dioniso, come fa Walter Otto nei cenni preliminari del suo “Dioniso” per “… dimostrare quanto antica fosse la consuetudine dei Greci con la religione dionisiaca e quanto poco persuasive le tesi della sua immigrazione dalla Tracia o dalla Frigia.”
E James Frazer ne “Il ramo d’oro” scrive, a proposito delle origini di Dioniso: “Non dobbiamo pensare che questi popoli occidentali (che abitavano le coste e le isole dell’Egeo) avessero preso in prestito dall’antica civiltà orientale la concezione di un dio morto e risorto (…). Più probabilmente, le analogie riscontrabili sotto questo aspetto fra le religioni orientali e quelle occidentali sono semplicemente ciò che noi, sia pure erroneamente, chiamiamo coincidenze fortuite, effetto di cause simili che agiscono su menti umane, ugualmente simili, in paesi diversi e sotto diversi cieli.”
Robert Graves, ne “I miti greci”, fa viaggiare Dioniso secondo quello che è l’itinerario, come vedremo più avanti, delle sue origini: Tracia, Lidia, Grigia, Egitto, India… “Il filo conduttore della mistica storia di Dioniso è il diffondersi del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale. Il vino non fu inventato dai Greci; pare che fosse dapprima importato in giare da Creta.”
Il terzo capitolo del “Dioniso” di Karl Kerenyi è intitolato “Il nucleo cretese del mito di Dioniso”. Ritroviamo a Creta gli elemti tipici del culto dionisiaco: miele, uva, edera, maschera, capra, toro, falloforia, serpente, morte e resurrezione del fanciullo, danza… E sacrificio, sparagmòs, l’indistruttibilità della vita nella distruzione stessa. Il culto è legato alla zoè contrapposta alla bios; la vita infinita contrapposta alla vita finita; il tempo dell’anima, come scrive Plotino, durante il quale la zoè  passa da un bios all’altro, all’infinito. Il ciclo di vita e morte, per cui Dioniso è rappresentato insieme ad Arianna, dea ctonia, dea del Labirinto, dell’emergere dal caos alla forma della danza, dalla mancanza di orientamento all’uscita nella luce. Lo Zagreo cretese è Zeus-Dioniso, il precursore di entrambi gli dei greci.
Da Creta già Erodoto ci aveva portato in Egitto, facendo rilevare la somiglianza del mito e del rito di Osiride con quello di Dioniso. Osiride, dio degli inferi e della fertilità, anche lui ucciso e smembrato e poi risorto, anche lui strettamente legato all’elemento femminile.

Quali elementi pseudo teatrali ci si presentano, in questa fase, prima che venissero elaborati la tragedia e il dramma satiresco?
Anzitutto la danza, eseguita dapprima in forma circolare e poi sempre più elaborata con schieramenti frontali, a spirale, incrociati, e con esibizioni a coppie e singole. Ma oltre alla danza si attuavano già piccole performance drammatiche in vari ambiti cultuali. Durante le processioni, con scherzi e provocazioni verbali, di genere salace. Durante i misteri, e i primi furono gli Eleusini, di provenienza cretese. Gli officianti si mascheravano per impersonare la divinità e ne recitavano la vita e le imprese. In Egitto era lo stesso faraone a praticare l’Osirizzazione per esempio nel Dramma di Abido, recitando vita e morte del dio. La drammatizzazione  era consentita solo a lui, nessun altro poteva interpretare sulla scena. Questo uso politico-religioso del teatro ne impedì la nascita e l’evoluzione, dimostrando come tutte le forme di assolutismo siano sterili.
Quando si afferma che gli “attori” recitavano vita e imprese degli dei, non dobbiamo dimenticare la motivazione di ogni teogonia, strutturata sul bisogno di comprendere e di condividere la realtà, di ordinarla secondo schemi sia razionali sia emotivi, e di scandagliare l’uomo mettendolo in relazione con l’universo.
I riti espressi con danza, canti e racconti drammatizzati sono sia espressione sia analisi e come tali necessitano di interpreti e poi di spettatori. Il teatro nasce quando l’officiante si svincola dal significato religioso (è quello che avviene nell’evoluzione della tragedia da Eschilo a Euripide) e rende significativa la performance sul piano umanistico, concentrandosi sulle cronache terrene, sulle dinamiche psichiche e sulle relazioni dell’uomo con il mondo.
Ma torniamo a Dioniso, il cui viaggio all’indietro nel tempo non si ferma alla civiltà minoica, ma procede fino al neolitico, spostandosi da un continente all’altro.

In “Siva e Dioniso”, con sottotitolo “La religione della natura e dell’eros”, Alain Daniélou ci accompagna nell’esplorazione delle prime divinità indiane, che tanta affinità hanno con Dioniso. La presentazione in copertina dice: “Separando l’uomo dalla natura e dfal divino, l’Occidente ha perduto la propria tradizione. Daniélou scopre nelle credenze e nei rituali dell’Occidente una stretta affinità con lo Shivaismo e mostra come molti elementi della perduta tradizione occidentale possano essere facilmente spiegati con l’aiuto dei testi e dei riti preservati in India.”
Nel 5000 a.C. lo shivaismo si diffonde in tutta l’area mediterranea fino al Portogallo. Shiva è un dio complesso e contradditorio come lo è Dioniso. Inevitabile, quando si intende rappresentare la vita nella sua realtà oggettiva, contessuta con la morte, aspirazione di pace in una realtà di violenza incessante, ritmo di germogliazione-appassimento, luce e buio, sopra e sotto. E prima di Shiva? Rudra, il dio della natura selvaggia, detto l’Urlatore. Siamo tra il neolitico e l’età del rame. Dall’animismo si passa alle divinità legate alla natura: Pasupati, il signore degli animali; e Parvati, la signora delle montagne; a Creta si chiamano Zagreo e Cibele. Una società matriarcale, casa e terre appartengono alle donne, l’eredità avviene tra madre e figlia; l’uomo è il fecondatore che s’interessa alla guerra e al gioco, o alle elaborazioni filosofiche.
Chi , dunque, Shiva? È il vagabondo nudo che danza il mondo, colui che insidia le donne, il portatore di vita e di distruzione, l’asociale, l’anarchico che si fa gioco dei potenti, colui che compie i miracoli…
Ecco come è presentato nei Veda:
“Il capo dei brahmani si rivolse al re delle montagne. Ho sentito dire che vuoi dare in sposa a Siva tua figlia, tenera come un fiore di loto, divinamente bella, in sommo grado perfetta. Ma questo Siva non ha dimora, non ha conoscenti. È malfatto, è privo di meriti. Vive nei luoghi di cremazione. Sembra un incantatore di serpenti. È soltanto uno yogi che vive nudo. Le sue membra sono deformi. I suoi unici ornamenti sono dei serpenti. Ignoriamo il nome della sua famiglia, la sua casta, le sue origini. È un ragazzo che si comporta male, senza un mestiere. Ha il corpo cosparso di cenere. È irascibile e senza giudizio. Nessuno ne conosce l’età. I suoi capelli irsuti sono in disordine. È il compagno di tutti i buoni a nulla. Non è che un medicante che segue una cattiva inclinazione e si oppone sistematicamente ai comandamenti dei Veda” (A. Danielou, Siva e Dioniso, Ubaldini,  pag. 76).

Shiva ci presenta il mondo così com’è, non come si vorrebbe che fosse; e il divino come coesistenza degli opposti. Gli elementi che lo contraddistinguono? Toro, fallo (linga), ariete, serpente, danza estatica, labirinto, sacrifici di animali, cortei chiassosi…
Insomma, in questo andare indietro nel tempo abbiamo incontrato radici sempre più profonde del dionisismo, dal Medio Oriente a Creta all’Egitto fino all’India prima del 5000 a.C.
Riscontriamo che Dioniso eredita i seguenti elementi: la connessione con la natura e il riferimento a montagne, boschi, grotte; l’uomo-animale (minotauro, satiro che in prima istanza era uomo-cavallo); il fallo portato in corteo (falloforia); la mania, la follia estatica espressa nella danza con la quale si esprime l’”entusiasmo”, il dio in me; il sacrificio dell’animale, lo smembramento-sparagmos (di tutti e tre gli dei) e il pasto di carne cruda; il ciclo vita-morte; il disprezzo per le leggo sociali; mithos superiore a logos; feste (Grandi Dionisie); musica, danza, canto… declamazione (ditirambo).
Ma tutto questo che cosa c’entra con il teatro?
Orienta, suggerisce, ispira, motiva, finalizza, riordina.
In modo anche ingenuo, ecco alcune suggestioni.

ANIMISMO. In ogni dio c’è dell’animale, in ogni animale c’è dell’umanità, in ogni uomo c’è il divino. Se sostituiamo gli oggetti di scena agli animali e l’arte, la technè, agli dei, inseriamo l’attore in un universo gerarchizzato fondato sull’interdipendenza. Teatro: eliminiamo l’antropocentrismo e restituiamo dignità e importanza fondamentale agli elementi “secondari” rispetto all’attore e al regista: oggetti di scena, scenografia, musica, coreografia, danza…
MASCHERA. Dicevano gli indù: come nella foresta non devi nominare la tigre, così nella vita non devi nominare dio. L’uomo non deve nominarlo e non può vederlo. Chi lo vede, rimane fulminato. Il dio deve essere mascherato e lo si fa con gli epiteti. La maschera vela la potenza divina e consente all’uomo di praticare la devozione. La maschera rappresenta il dio: maschera di Dioniso su colonna con mantello. La maschera trasforma il dio in qualcosa di accessibile e trasforma un oggetto in dio. La maschera trasforma. La maschera nasconde, spaventa e mette in comunicazione con la divinità. L’uomo che indossa la maschera si trasforma. La maschera consente all’uomo di uscire da se stesso e di diventare altro. Due tipi di maschera: una materiale, da indossare; l’altra virtuale, solo mentale e fisica. I bambini e gli anziani non hanno difficoltà a “mascherarsi”, dato che nel primo caso sono in esplorazione del mondo e vogliono uscire da sé, nel secondo caso l’anziano vuole uscire da sé in quanto sé sgradito, alla ricerca di una nuova giovinezza. L’adolescente è concentrato invece su di sé e stenta ad assumere altre identità, dato che la propria è fragile. L’adulto teme che l’uscita da sé metta in crisi il ruolo sociale. Teatro: il nostro attore deve limare l’ego in favore di un sé non a uso e consumo degli spettatori, ma del proprio io che allarga così la visuale e si mette in comunicazione con il mondo dell’immaginazione e con la realtà universale.
DANZA ESTATICA. Indù, egizi, cretesi e greci stabilivano un contatto con gli dei utilizzando una musica ipnotica (flauti, cembali, percussioni) e una danza che portasse all’estenuazione fisica e psichica (mania). Abbiamo l’esempio delle tarantate. Il divino era inteso come realtà in contrasto e opposizione con il mondo sociale, impregnata del mondo animale e vegetale, di sesso e sensualità. Lo scopo di danze, musiche, bevande inebrianti e sostanze allucinogene era di squarciare il velo della realtà sociale e accedere al mondo del mito e del divino. Teatro: si elimina ogni rapporto “reale” con il pubblico, che è visto lontano, spettrale, e ci si concentra sull’azione scenica, ribaltando la realtà. Non è reale la platea, ma il palcoscenico, e questo non significa certo naturalismo o verismo. Significare accettare per vera l’immaginazione. Il mithos è di nuovo superiore al logos.
TRASMIGRAZIONE. L’anima è un’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri e rinasce in corpi diversi. Teatro: l’attore non interpreta nel senso di immedesimarsi psicologicamente in un altro individuo, costringendosi a fare anzitutto lo psicologo. Egli si apre all’anima del personaggio e si dichiara disponibile ad accoglierla. Per farlo, deve considerare il personaggio come “persona” teatrale, non reale. Una specie di dio che non può essere nominato e guardato nella sua essenza. Il rapporto avviene per epiteti e mediante l’accesso alla diversa realtà in cui vivono gli dei, e quindi i personaggi del dramma. Solo inserendosi nel dovuto modo nell’ecosistema scenico, solo accettando la propria interrelazione con gli elementi del teatro l’attore può accedere al “santuario” degli dei, dei personaggi.
MISTERI. L’iniziazione ai misteri, consistente nella conoscenza e nell’esperienza del contatto con il divino, cambiava la vita e assicurava l’immortalità dell’anima. Lo scopo era di avvicinare la divinità all’uomo, in modo che i confini fossero sempre più labili e che l’uomo potesse aspirare a farsi simile a dio. Vedi i semidei e gli eroi con le assunzioni in cielo. Teatro: l’uomo che si trasforma in attore subisce un’iniziazione per diventare personaggio, ossia il dio della scena. Sulla scena non ci sono quindi più uomini, nemmeno attori. Essi hanno subito una metamorfosi in personaggi-dei.
RITI. La processione prepara il cambiamento. Sia che ci si rechi al luogo all’aperto deputato al sacrificio o al santuario o al tempio dell’iniziazione ai misteri, essa appare come un trasferimento-metamorfosi da uno stato iniziale basso a uno finale alto. Teatro: gli attori accedono al palcoscenico portando alcuni oggetti di scena, allestiscono la scena come luogo di rito-sacrificio e compiono atti benaugurali (per esempio, spargono petali o accendono incenso).
RITI DI PASSAGGIO. Il rito di passaggio, di solito dall’età infantile a quella adulta, serve a mostrare la differenza tra il caos e l’ordine sociale. L’iniziando viene spaventato, espulso dalla società, costretto a prove dure, tormentato, istruito. E infine viene riaccettato come rinato. Durante la fase di sospensione dei ruoli sociali egli è anche libero di folleggiare o compiere atti vandalici. Alla fine, comunque, la sua scelta sarà per la sicurezza, la protezione e l’ordine sociali. Teatro: la drammaturgia non porta a termine il rito. Essa si ferma nell’area mediana, quella in apnea, dato che il suo compito non è di esaltare la società, ma di diventarne lo specchio critico.
CICLO VITA-MORTE. Tutto è ciclico. L’avvicendarsi del giorno e della notte, delle stagioni, della fortuna e della sfortuna, del benessere e del malessere, della gioia e della’infelicità, della vita e della morte. In sintesi, un avvicendarsi di buio e luce, di silenzio e suoni, di immobilità e movimenti. Teatro: la vita sulla scena si manifesta con cicli incessanti di luminosità, movimento, suono. Ciò che termina dà inizio ad altro e mai ci può essere un’impressione di “vuoto”.
NARRATORI. L’aedo era pervaso di entusiasmo, aveva il dio in sé. Per stabilire un rapporto con il dio ci si avvaleva della musica e della danza. Teatro: la parola quotidiana non è degna del dio-personaggio. Essa va quindi “santificata” con la musica e con il movimento.
PROTAGONISMO. Nei Tantra il numero uno non ha significato in natura. Dallo zero si passa al due, ossia alla relazione. Non esiste un protagonista assoluto che non dipenda dagli altri. Teatro: no al grande attore, no al teatro di regia, no alla ricerca del successo personale, no alla dipendenza dal pubblico e dalla critica. Il teatro è ECOSCENICO. Teatro come SCENISMO, sinergia, confluenza, relazioni, sistema vivente, organismo.  

Per tentare una sintesi:
-           rapporto animistico con la natura; rapporto espressivo con l’ambiente scenico secondo un ciclo di vita-morte
-           uscire da sé verso il dio: aedo, profeta, danza estatica; contro il principium individuationis
-           la maschera virtuale per stabilire la comunicazione con il dio; enthusiasmos, il dio in me; e il dio è musica, movimento, ritmo
-           no allo psicologismo riduttivo
-           l’attore media tra il personaggio, la società e gli archetipi espressi nei miti (“fare anima” di Hillman)
-           l’immedesimazione nel personaggio non è un passaggio da un individuo all’altro, ma una dilatazione dell’individuo nell’anima mundi
-           il teatro racconta la realtà così com’è (Shiva-Dioniso), non come si vorrebbe che fosse, e lo fa con l’immaginazione: mithos contro logos
-           il teatro opera in un luogo circoscritto o in un percorso; esso è di genere tragico o comico; solo il teatro comico prevede una reale interazione con il pubblico
-           esso parte dalla musica, si esprime in una danza cantata e recitata; la parola quotidiana va sacralizzata con la musica e il movimento, anche se solo interiori
-           esso dissente dall’ordinamento sociale, al quale contrappone un’armonia più alta
-           la rappresentazione è un rito di iniziazione-passaggio incompleto, fissata nella fase intermedia di anarchia
Ulteriore sintesi:
-           l’uscita da se stessi per mettersi in comunicazione con gli dei
-           la prevalenza del mithos sul logos
-           la precedenza della musica e della danza sulla parola
-           la prevalenza del dionisiaco sull’apollineo
-           l’attivazione della scena come ecosistema

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