Aquilino
Achille sull’isola dei
serpenti
Nell’ “Etiopide” (poema greco del VII sec. A.C. di cui rimangono solo frammenti e riassunti) Achille
è posto ancora vivo sull’Isola dei Serpenti, alle foci del Danubio. L’isola
esiste e ha mantenuto il nome; si trova nel Mar Nero a circa 45 chilometri
dalle coste della Romania e dell’Ucraina; è poco più di uno scoglio e ospita un
solo abitante, il guardiano del faro; è comunque ricca di petrolio e gas
naturale. Esiodo pone invece gli eroi sulle Isole fortunate o isole dei Beati,
corrispondenti alle attuali Canarie. Secondo Apollonio Rodio Achille finì
invece sull’isola di Leuce, dove fece coppia con Medea.
L’isola dei serpenti che intitola l’opera corrisponde a un
luogo mitico comune a più mitologie, nel quale gli dei pongono gli eroi
premiati con l’immortalità (es. il Valhalla).
MEMO Al
crepuscolo la malinconia stringe Achille alla gola e lo zittisce. Io che sono
al suo servizio lo ignoro, non gli rivolgo domande indiscrete. Ma poi è lui che
fa domande a me, per indagare la propria inquietudine. I guerrieri che
alloggiano sull’isola per il tempo infinito della morte non si danno ragione di
un eroe che piange su se stesso e non si esalta per le imprese compiute in
battaglia: e lo ignorano.
Noi
siamo qui, al crepuscolo, di fronte al dorso increspato del mare, un drago nero
che sputa schiuma e fa sconquasso di voci diverse, sibili e schianti. Dietro di
noi gli schiamazzi del vino e il clangore delle armi nei tornei. Al fuoco delle
torce i combattenti, alla cenere della luna noi.
Achille
è fisso a una visione cupa fra terra e cielo dove l’orizzonte accoglie i
desideri più impossibili. Un muro di nebbia strangola l’isola, oltre il quale
le navi da crociera passano con le tolde illuminate. A volte ho l’impressione
di ascoltare il chiasso dei turisti che
folleggiano.
La localizzazione è stata il punto di partenza, ma il nome
non è stato occasione di suggestioni letterarie come invece mi aspettavo. Nel
testo non si parla mai di serpenti, nemmeno a livello metaforico. Immaginavo
Achille con una specie di scudiero (trattamento da privilegiato), scontento
della sistemazione, indifferente ai richiami degli eroi, con in testa solo
Patroclo relegato nel Tartaro, tale e quale a un adolescente innamorato.
Sembrava una storia di diversità e di amore impossibile; e
soprattutto all’inizio il protagonista era lui, Achille. Poi le cose si sono
complicate. Come al solito, mi sono lasciato condurre dai personaggi. Essi hanno
il compito non solo di generare se stessi, ma di manifestare le proprie
necessità inerenti all’ambiente e ai compagni d’avventura. L’isola si è subito
spaccata in due: da una parte la riva ghiaiosa sulla quale si strugge Achille
(eroe romantico), dall’altra il villaggio vacanze nel quale se la spassano gli
eroi (epica omerica). Achille è un poco Don Chisciotte, un poco Orfeo, un poco
Amleto, e un poco anche Dorian Gray, ma la sua sfaccettatura non ha mai profondità.
Uccide perché deve, ama perché lo spinge la natura, ma le sue scelte… le sue
scelte sono egocentriche, impulsive e superficiali come quelle di un bambino.
Piano piano, emerge invece la ricchezza interiore di Memo,
il suo servitore. Una ricchezza che non gli dà alcun vantaggio e che anzi va a
suo discapito. L’onestà e la coerenza lo renderanno vittima degli eroi.
La scrittura parte a velocità ridotta e poi addirittura
rallenta. Si presenta il solito rischio di risolvere l’opera come se fosse un
romanzo o un film, spingendo la mente a rielaborare trame avvincenti e colpi di
scena. Giunge presto il momento dell’angoscia: come andare avanti? Se non si
vuole risolvere la vicenda come una narrazione (per quanto emozionante possa
essere), ma come l’ambito di vita dei personaggi, assecondandone la natura
misteriosa, allora bisogna lasciar fare a loro. Li si invita a farsi sogno e li
si libera di ogni costrizione, aprendo davanti a loro i mille sentieri dei
possibili sviluppi e lasciando che si avviino, trainandosi l’un l’altro.
Documentandomi sulla biografia di Achille (ricchissima come
d’altronde quelle di Perseo, di Teseo, di Elena…) due episodi mi avevano
colpito: i nove anni in abiti femminili e la necrofilia su Pentesilea.
Pentesilea! Era come se Achille la chiamasse a sé, come se ne avesse bisogno
per giungere alla fine dell’opera.
PENT. Bella
io? Sono belle le mie cicatrici? I muscoli guizzanti? L’espressione di pietra?
Le mie mani, sono belle, capaci di strangolarti senza sforzo? E la mia voce di
tuono è bella? Quando mi specchio vedo una belva a due zampe, non una bella
femmina. Ma questa è la mia natura e l’accetto. Sono bella quanto lo è la
morte.
AIACE A
lui le donne piacciono proprio così, morte.
PENT. A
te ancora vive, ma durano poco.
AIACE Achille…
PENT. Non
ha mai saputo che cosa gli piace.
AIACE Sembri
conoscerlo meglio di quanto lo conosciamo noi.
PENT. Siamo
entrambi stranieri in patria.
AIACE Vieni,
appartiamoci. Ti spiego i dettagli della missione.
PENT. Sono in missione? Per voi e per l’Olimpo? Ma
agli uni e agli altri ficcherei una spada nel cuore.
E non potevo fare a meno della madre, Teti, che avrebbe
contribuito a fare luce sulla personalità del figlio e avrebbe avuto la
funzione di spingere i personaggi in una direzione. Ho invece scartato Afrodite
e altri dei. Degli eroi me ne sarebbe bastato uno, quello che tanto aveva
desiderato l’armatura di Achille (e tanto aveva desiderato sostituirlo): Aiace.
MEMO Ehi,
tu! Non sei una delle bambole che Efesto fabbrica per gli eroi. Non sai che
infrangi la legge di Zeus? A nessuna femmina è consentito l’approdo. Come hai
potuto superare la nebbia?
TETI Poseidone
mi protegge.
MEMO Tu
non sei umana.
TETI Sono
Teti, la madre di Achille.
MEMO Perdonami,
divina.
TETI Sei
Memo, il suo compagno?
MEMO Il
suo servo.
TETI Dov’è
Achille?
MEMO Perdonami
due volte, ma non vuole che riveli l’eremo del suo isolamento.
TETI Pensa
ancora a lui?
MEMO A
te posso dirlo. Giorno e notte. S’illude di scorgere imbarcazioni, aerei,
perfino elicotteri da guerra in missione di pace, venuti a portare il premio
all’eroe. Recita cento e più volte la scena di quando disarmato accorse a onorare
il cadavere dell’amico, mettendo in fuga i nemici con la sola presenza,
disperato e terribile, vendicativo e votato alla morte. Lo sento fare le voci
di Patroclo, Ettore, Sarpedonte, Menelao… e perfino della madre scesa a
consolarlo.
TETI Tanto
lo ama.
Mentre portavo avanti la questione dello sviluppo di una
storia, mi ponevo la questione della forma. Ho ripreso la modalità di “Andromaca
deve morire” di trattare una vicenda mitica come se fosse cronaca
contemporanea, ma ho molto limitato gli accenni al mondo reale odierno: navi da
crociera, videogiochi… Mi sono posto la questione del rischio di uno stile “alto”,
che apparisse letterario. Penso di avere trovato, con la sintesi sintattica e
semantica, un tono classico senza scadere nella retorica; o perlomeno lo spero.
Questa è la quinta opera di un progetto di rielaborazione
della tragedia greca, che procede per vie d’arte e non per studi specialistici.
Dalla tragedia prendo quello che mi serve per intuizione, non per un piano
steso a tavolino. Ho cominciato con l’inserimento di sticomitie e monologhi
lirici, avvertendo poi l’esigenza di dare maggiore equilibrio con uno schema.
Uno schema non rigido. Esso è nato dalla spontaneità della scrittura, che ha
poi ingabbiato senza forzature. Si è costituita un’architettura flessibile e
non invasiva di questi elementi: monologo in prosa, monologo in prosa a dodecasillabi
o endecasillabi o settenari, monologo in versi, sticomitia, dialogo in versi, dialoghi
liberi.
Ai due terzi, ho suddivisa l’opera in parti, che sono: parodo
(senza coro), Memo, Aiace, Teti, onda, Pentesilea, esodo.
La qualità formale nasce dal consueto metodo di rileggere a
ogni riapertura di file. Il ritocco del dettaglio si riverbera sulla scrittura
in fieri e ogni intervento è una riedizione. Con questo continuo prendere
coscienza del vissuto, si illumina la strada ancora da percorrere. Rileggo, rifinisco
e riscrivo, proseguo, torno indietro, vado avanti.
Giunto in prossimità del traguardo, Achille mi si svela nella
sua verità. Sono soprattutto le ultime parole di Memo a raccontarne l’egoismo
di fondo, quello che non fa di lui un eroe diverso, ma che lo accumuna al
bisogno spasmodico di gratificazione dei camerati. Lui e l’amazzone sembrano
staccarsi da uno sfondo di conformismo, ma lui non fa altro che rinchiudere la
vita in un rapporto limitante e lei non può fare a meno dell’autoesaltazione. A
questo punto, è il conformismo di Memo, personaggio di piccolo calibro, a
svelare il vero eroe di una tragedia che vede da una parte il privilegio e dall’altra
la fatica di vivere.
MEMO Ma
io laggiù non troverò nessuno.
Mia moglie e i figli altrove, ancora vivi,
ma vivi come?
Siamo servi, da un giorno
all’altro senza
lavoro e in un attimo senza niente.
Pochi si accorgono
di quanto siano grandi
l’ansia e il dolore della gente piccola.
L’attenzione del mondo va ai signori
che ci rubano l’aria,
l’acqua e il sangue.
La gente adora i propri vessatori,
brama in segreto di prenderne il posto.
Io che non voglio opprimere nessuno
soccombo, è destino.
Chissà se anche qui Pentesilea e Achille
mi dedicheranno qualche attenzione?
Li vedo assorbiti dalle passioni,
l’una di soddisfare l’ambizione
l’altro di vedere avverati i sogni
attinenti sempre e solo a se stesso.
Mi vedono appena, ombra silenziosa
e già non mi riconoscono più.
Quando ho cominciato a scrivere, una decina di giorni fa,
non avevo certo in mente un finale simile, incentrato su una figura secondaria;
non avevo in mente niente, se non la suggestione vaga di un eroe morto, sordo
agli allettamenti di una vita edonistica. Sono soddisfatto di quello che hanno
fatto i miei personaggi. Mi hanno preso per mano e mi hanno indotto a
completare l’abbozzo in modo convincente.
Quali le tematiche sviluppate? La diversità sessuale, il
diritto all’autodeterminazione, il diritto di morire, la stratificazione
sociale, la società edonistica, il potere…
E ora? La sesta opera, nella quale voglio un coro. Sto
rileggendo l’Orestea. Penso che Clitennestra abbia molto da dire sulla sentenza
dell’aeropago.