lunedì 7 luglio 2014

LA GRANDE SOLITUDINE


Una volta il mondo invadeva le persone. Curiosità, esplorazione, stupore, abbandono alla bellezza. Ora le persone invadono il mondo. Non perché abbiano curiosità (uccisa dalle mode e dalla televisione), non per esplorarlo (se non entro i villaggi vacanze), non con stupore (tutto diventa un deja vu) e nemmeno per attrazione verso la bellezza (assassinata dal mercato). Le persone usurpano ogni angolo di mondo alla ricerca di emozioni e sensazioni da condividere nei più diversi modi: la chiacchiera, la documentazione fotografica e video, i social network. Le persone cercano cose da consumare per averne rassicurazione, sollievo e piacere; e lo stesso trattamento riservano alle altre persone, equiparate a cose destinate a uso personale.
Cinquant’anni fa si usava ancora la solitudine.
La donna in casa aveva i tempi lunghi della solitudine per le faccende domestiche e l’allevamento dei figli. Socializzava quando usciva per fare la spesa. I suoi figli avevano occasioni di solitudine: il maltempo, i compiti, la malattia. Anche gli uomini, a tutte le età, avevano più che adesso momenti in cui stare soli con se stessi. E i ragazzi e le ragazze quanto tempo trascorrevano con i sogni a occhi aperti?  
Solitudine, sogni, progetti, meditazioni, dialoghi con se stessi, rapporti muti con il mondo.
Ora non c’è momento in cui non ci sia la compresenza di radio, televisione, computer, telefono. Non basta. Il concetto di presenza singola è aberrante. Con sempre maggiore prepotenza i massmedia spingono l’uomo a non ritrovarsi mai da solo con se stesso, ma a cercare la compagnia di un altro o di un gruppo, siano reali o virtuali, perché ogni momento di vita non deve essere autoreferenziale, ma condiviso.
Attività come il sogno da svegli, lo stato alterato di coscienza, la lettura , la contemplazione non utilitaristica, la riflessione senza concettualizzazione, la sensazione di disintegrazione nel mondo… insomma, quel modo di rapportarsi con se stessi esclusivo e intenso, privato e profondo, ampio e onnivoro appare sempre più labile, se non in via di estinzione.
Le persone hanno paura, prima ancora che degli altri, di se stesse. Non vogliono affrontare tutta una serie di questioni spinose che le pone di fronte a dubbi, scelte da operare, chiarimenti urgenti. Non vuole conoscersi per come è davvero, si piace per come appare agli altri.
Lo stare da sole diventa qualcosa di temibile e da evitare con ostinazione. Sono le persone della socializzazione spinta.
Quando s’impegnano nel sociale, quando si sbattono per la gioia dei figli, quando organizzano eventi, quando partecipano a manifestazioni, quando si mettono in viaggio, quando intervengono per nobili scopi, quando scelgono i divertimenti, una delle motivazioni importanti è eludere i momenti di solitudine, scansare se stessi, cercare abbracci consolatori in un rapporto ininterrotto con gli altri.
Ma chi sono gli altri? Sono i compaesani o i vicini di quartiere, ma anche i compagni di vacanza o i coassociati, addirittura gli animali domestici, e spesso sono folla, una “società vicina” di interessi e atteggiamenti simili; e sono gli amici del social network e la moltitudine di internet: è sufficiente un nickname per conferire un’identità rassicurante e consolatoria.
La fuga dalla solitudine non è priva di conseguenze: un sistema psichico più fragile, una consistenza sociale aleatoria, una maggiore dipendenza, un sistema di valori inconsistente, un narcisismo accentuato, una scala di valori confusa, un’emotività artefatta.
Bisogna trovare il coraggio di riaffermare la positività della solitudine, e di sapersi anche ritirare dalle comunità sia reali sia virtuali, per non esserne travolti come individui e riciclati come cloni.
Tutto questo per dire che intendo rivedere “Andromaca non canta” in questa prospettiva, di una donna che ha scoperto nella propria solitudine la forza e la visione chiara del mondo.




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