Alcuni dei libri in lettura: “Atena nera” di Martin
Bernal (sulla scia di altri saggi brevi che sto leggendo, la tesi opposta all’eurocentrismo
degli ultimi due secoli; non siamo eredi della cultura greca, ma dobbiamo spingerci
in Africa e in Asia per trovare le radici del politeismo olimpico e della
nascita del teatro).
Nicole Loraux, “La voce addolorata” (la tragedia
greca come espressione dell’antipolitica e quindi del dissenso costruttivo;
siamo nell’ambito delle tesi sociologiche della scuola di Manchester e parliamo
del “dramma sociale” come è presentato da Turner e Gluckman).
Mary Lefkowitz, “Dei greci, vite umane” (una lettura
scorrevole della presenza degli dei nel mito, nelle opere omeriche, nelle
tragedie e nella poesia lirica, con un’esposizione metodica degli avvenimenti e
i commenti dell’autrice). Jean Pierre Vernant, “Le origini del pensiero
greco” (dai regni micenei alla polis, dal mito alla filosofia, dalla faida
alla polis e al suo ordinamento giuridico).
Umberto Curi, “Meglio non essere nati” (un docente universitario
di filosofia ci presenta il pessimismo metafisico dall’antichità ai nostri
giorni). Jean Pierre Vernant, “Mito e società nell’antica Grecia”
(raccolta di saggi). Giuseppe Micunco, “Euripide” (riflessioni sulle sue
tragedie).
Ho iniziato la rilettura delle commedie di Aristofane, in
prospettiva di un ipotetico terzo “assaggio di teatro”, ma non scattano né entusiasmo
né interesse. Per il momento sospendo.
Mi sono ripromesso, durante l’estate, di scrivere nuove
opere di teatro a partire dalla tragedia greca. Dalla fine di maggio ne ho
scritte quattro. La prima è “Elena in esilio”. In una famiglia rappresentativa
della situazione attuale (madre con due figli e lavori saltuari; la figlia
sottoccupata e il figlio disoccupato) si presenta Elena in fuga da Achille che
la vuole riportare sull’isola di Leuce dove vivono come ombre. Elena si lamenta
di una condizione di perenne profuga alla quale sono state addossate colpe non
vere (la guerra). Vorrebbe una vita tranquilla, è disposta a lavorare e a fare
a meno di ogni privilegio. L’idea è di inserire elementi del mito nella vita quotidiana
di personaggi del giorno d’oggi. Il mito innesca una serie di avvenimenti “tragici”,
mettendo a fuoco la verità al di là di ogni finzione e fraintendimento. L’arrivo
di Achille (tra i personaggi ci sono anche Era e Zeus) mette il fratello contro
la sorella fa esplodere la sua rabbia. Non c’è il coro.
L’opera è piuttosto lunga (quaranta cartelle), e alcuni
monologhi sono forse da ridurre, ma è stato un primo passo importante che mi ha
rivelato la fattibilità del progetto.
AGAVE Urla, la mia povera bambina. Chissà
quali incubi spaventosi.
ERA Non può liberarsene, fin che
Elena è qui.
AGAVE Che cosa devo fare?
ERA Mandala via. Al più presto. Se
vuoi salvare i figli, cacciala. Se resta, sarà la rovina della casa.
AGAVE Ma come faccio?
ERA C’è solo un modo. Devi
consegnarla ad Achille.
AGAVE E lui dove lo trovo?
ERA Dentro tuo figlio.
AGAVE Dentro mio figlio? Che significa?
ERA Lo scoprirai.
AGAVE Come faccio a consegnare Elena a uno
spettro?
ERA Devi ucciderla.
AGAVE Dici spropositi. Io non posso
ucciderla. Non si toglie la vita, il comandamento è chiaro.
ERA Pensa a chi uccidi. Non è un
essere umano. Elena è vissuta migliaia di anni fa. Tu ne uccidi solo l’ostinata
e scellerata persistenza nel mondo. Compi un atto di giustizia, se lo fai.
Riporti l’equilibrio nell’universo.
AGAVE Come posso fidarmi di te? Anche tu sei
inesistente. Io credo nel Dio cristiano.
ERA Questo non t’impedisce di dare
ascolto alla voce dentro di te, poiché io questo sono, una delle voci della tua
anima.
Ho subito scritto una seconda opera, “Tirso”. Lo spunto me l’ha offerto
un concorso: oggetti di scena e scenografie devono stare in una valigia.
Una famiglia diversa, alto borghese, il padre in prigione
per illeciti amministrativi, la madre disperata perché teme di perdere il
patrimonio. Due figli, anaffettivi ed egocentrici. Lei è reduce da una fuga
durata un anno, in giro per il mondo, a vuoto. Lui si droga ed è alla ricerca
del modo di fare soldi facili. Muore il nonno che lascia a loro due in eredità
una valigia. Dentro ci sono: miele, vino, nebride, mitra, tirso, maschera, cembalo
e tamburello… gli oggetti sacri di Dioniso. È lo stesso dio a spiegarlo ai
ragazzi. Tra ricordi del liceo, esaltazioni orgiastiche, illusioni e litigi, i
due compiono una specie di sacrificio che li allontana definitivamente dalla
madre, senza però che possano seguire il dio. Nemmeno in quest’opera c’è il
coro, ma ho inserito tra una scena e l’altra una didascalia poetica che commenta
e approfondisce l’azione teatrale (la mia drammaturgia non prevede le solite
didascalie inerenti a movimenti, motivazioni ed espressioni, proprio come
risulta nella tragedia greca; ma questo da sempre, non per imitazione).
DORIANA Ora ci porti via con te, vero?
MICHELE È venuto per questo. Lui è la magia che ci
porta via.
DIONISO Io non sono un rapitore di bambini.
DORIANA Te l’ha chiesto il nonno. Ti ha detto:
portali via di qua, portali nel tuo mondo, da’ loro una possibilità, non
lasciarli qui a corrompersi giorno dopo giorno.
MICHELE Ti seguiamo ovunque. Qui non c’è niente
per noi. Beviamo vino in tuo onore. Danziamo e cantiamo giorno e notte. Che si
può pretendere di più dalla vita? Noi vogliamo l’estasi.
DORIANA Ci piace, abbiamo il diritto di essere
felici, vogliamo stare con te.
MICHELE Noi siamo il tiaso, ti seguiamo ovunque
vai.
DIONISO Non vengo a portare ebbrezza e
stordimento, ma dolore. Solo il dolore svela i sentieri della gioia. Nessuno mi
segue, chi vuole mi cerca. Io sono un dio vagabondo.
Sono certo che a una prossima rilettura, troverò accenti di
retorica e ridondanza, ma per il momento lo considero inevitabile, considerati
i riferimenti letterari. Queste scritture sono una ricerca di stile, di
registro e di struttura. Parto dalla tragedia greca come suggestione, non come
emulazione. Voglio trovare una forma originale, se ci riesco.
La terza opera è “Ganimede”, la più compatta, coerente e densa. L’ambientazione
è mitica, non contemporanea, ma il linguaggio non è alto e a tratti richiama
quello della commedia. Nemmeno qui c’è il coro. Due personaggi, Ganimede e
Zeus, sono solo voci.
Sull’Olimpo si presenta un vasaio di nome Supplice. Chiede udienza
a Zeus. Ha intenzione di chiedergli di restituire la verginità alla figlia sventata.
In realtà, è il padre di Ganimede venuto a reclamare il figlio. L’inizio è da
commedia, poi volge al patetico e nel finale assume un tono epico. Gli dei
assumono caratteri definiti e l’opera mette in luce una ricca gamma di reazioni
emotive e di sentimenti.
SUPPLICE Ho gridato: voglio mio figlio! E nessuno
mi ha ascoltato. Pregare e attendere per l’eternità? Non ha senso. Ganimede sa
che sono qui. Spera che io faccia qualcosa. E intendo farla.
ESTIA Che cosa?
SUPPLICE Ora me ne vado, sapendo di scatenare la
furia di Ebe, tanto giovane e tanto malvagia. E l’ira di Era, tanto potente da
uccidere i miei sudditi con un’epidemia. E farò arrabbiare anche Zeus, che
potrebbe lanciare il rimbombo del terremoto e sprofondare le mie città. Tutti
quanti gli dei saranno irritati e vorranno punire me, la mia stirpe, il mio
popolo.
ESTIA Stai prefigurando cose terribili.
SUPPLICE Sono io il primo a esserne spaventato. Ma
la paura di un re vive sottopelle, e non vede mai l’aria. La forza di fare
quello che medito mi viene da un fanciullo innocente che l’Olimpo vuole
schiavo.
ESTIA Che cosa hai in mente?
SUPPLICE Ora ti volgo le spalle e mi allontano e se
tenti di fermarmi mi lancio su di te come un lupo affamato e ti squarcio la
gola.
ESTIA Dei dell’Olimpo, mi minacci!
SUPPLICE Te e tutti i tuoi complici.
ESTIA Ma dillo, dillo: che intendi fare?
Ed eccoci alla quarta opera, “Andromaca non canta”. Lo spunto mi
viene da Euripide. La partenza è simile: Andromaca fa appello a Peleo per
difendere se stessa e il figlio dalla furia omicida di Menelao. Ho introdotto
nuovi personaggi, tra i quali Ecuba con l’aspetto della cagna nera. In Euripide
è presente un coro di donne di Ftia, qui un coro di serve. L’ambientazione non
è definita. Si legge che il territorio di Menelao è montuoso e che l’aggregazione
sociale è per clan. Non si sa di quale guerra si tratti e non si parla di
schiave, ma di serve.
Un’opera di contrapposizioni: sterilità e maternità,
matrimonio e concubinato, privilegio e servitù, maschilismo e rivendicazioni
femminili, vendetta e serenità interiore… Ne sono soddisfatto? La cosa
importante è l’impressione che gli elementi delle opere precedenti convergano
in una direzione, quella che mi porta sempre più vicino a definire le
problematiche per una struttura (elastica e adattabile) “tragica”, che
comprenda dialoghi, coro, prosa e poesia.
ANDROMACA Hai terrorizzato le donne che vivono qui.
ECUBA Serve. La gente del mio clan non vive da serva. Vorrei
che morissero tutte.
ANDROMACA Sono giovani, vogliono vivere.
ECUBA E tu?
ANDROMACA Io ho un figlio, vivo per lui. Muoio, anche,
per lui. E per lui patisco la servitù.
ECUBA Ha il sangue di Achille, è un seme di malerba.
ANDROMACA Il sangue è suo e solo suo. Quello di Achille
è polvere di un tempo remoto.
ECUBA Come fai a parlare così? Hai scelto di farti
ingravidare dall’assassino di tuo marito e di tuo figlio, come fai a non
vomitarti addosso ogni volta che ti specchi? E come fai a vivere, quando tutti
sono morti?
ANDROMACA Non l’ho voluta io, la guerra maledetta.
ECUBA Le guerre sono come i terremoti e le alluvioni, ci
piombano addosso contro la nostra volontà. E hanno la loro funzione, nel piano
degli dei.
ANDROMACA Tutti innocenti, gli assassini.
ECUBA Non infangare gli eroi, tu che tradisci il tuo sangue,
servendo il nemico.
ANDROMACA Non ho scelto di fare l’amore con Neottolemo,
mi ha presa come cosa sua, dato che sono prigioniera e serva, femmina spogliata
di ogni volontà. Ho scelto invece di rimanere viva per allevare mio figlio,
questo sì. Dal mio ventre è nato, non da quello di Neottolemo. La mia carne l’ha
nutrito, non quella di Neottolemo. Tu non odi solo lui, ma tutto ciò che è del
clan nemico. Odi le persone e la loro terra, le case che abitano e le bestie che
allevano. Se tu avessi armi chimiche, bombe, aerei… scaricheresti la devastazione,
condannando milioni di innocenti. Che senso ha tutto questo? Voi che comandate
avete voluto la guerra, e la volete infinita. Ma noi che non abbiamo il potere vogliamo
respirare la pace. E gli dei non esistono, se non nel tuo delirio di morte.
ECUBA Hai rinunciato all’onore. Per te provo solo disprezzo.
ANDROMACA Non ho servito allo stesso modo Ettore e il tuo
clan? Mi avete comprata e messa nel suo letto, ho avuto sul viso il fiato caldo
di tuo figlio e gli ho dato eredi, ho sofferto per la sua morte, ma in vita mia
non ho mai sparso lacrime d’amore, a me l’amore è stato vietato, come la
libertà. Ora sono serva, ma la mia vita non è cambiata.
ECUBA Ogni tua parola è un invito a uccidere te e il
bastardo. Hai fatto parte dei principi del clan, hai avuto ricchezze e onori,
ma quale sbaglio abbiamo fatto prendendo una donna di fuori! Tu sei rimasta una
straniera. Solo ora me ne rendo conto: tu non eri degna di mio figlio, il
combattente più valoroso, ucciso con il tradimento.
ANDROMACA Non voglio più ascoltarti. Vattene.
Pochi giorni fa ho cominciato “Achille sull’isola dei serpenti”.
In quest’opera dovrebbero confluire le scoperte fatte nelle altre. Dovrebbero
quindi esserci: dialoghi drammatici, monologhi lirici, coro, collegamenti
formali tra gli elementi, una struttura che faciliti la compattezza e l’equilibrio
delle parti e altro. Achille, dopo morto, non è finito al Tartaro ma sull’isola
dei Beati o Leuce o isola dei Serpenti, insieme ad altri eroi della guerra di
Troia, tra i quali Aiace. Se ne sta appartato, infelice. Gli manca qualcuno. L’arrivo
di Pentesilea, la regina delle Amazzoni, sua nemica, che ha amato dopo averla
uccisa, non riempie il vuoto che ha nel cuore. Ha bisogno di Patroclo. Ma può
uno votato alla guerra e alla morte tenersi vicina la persona amata? Solo
Afrodite conosce la risposta.
MEMO Al crepuscolo la malinconia stringe Achille alla gola e lo
zittisce. Io che sono al suo servizio e anche amico non gli rivolgo domande, lo
ignoro. Ma i guerrieri che alloggiano sull’isola per il tempo infinito della
morte non si danno ragione di un eroe che piange su se stesso e non si esalta
per le imprese compiute in battaglia: e lo ignorano.
Noi siamo qui, al crepuscolo, di fronte al dorso
increspato del mare, un drago nero che sputa schiuma e fa sconquasso di voci diverse,
sibili e schianti. Dietro di noi gli schiamazzi del vino e il clangore delle
armi nei tornei. Al fuoco delle torce i combattenti, alla cenere della luna
noi.
Achille è fisso a una visione nera tra terra
e cielo dove l’orizzonte accoglie i desideri impossibili. Suona il forminx e
canta, ecco i suoi versi.
Dall’infinito qui approda
l’onda e all’infinito va.
Il mio sogno all’infinito
si protende e qui ritorna.
Questa riva è una catena,
questo mare una prigione.
Non si parte e non si arriva,
sempre qui su questa riva.
ACHILLE Memo!
MEMO Comandami, signore.
ACHILLE Non ti pare di scorgere laggiù, molto
lontano, quasi sulla linea confusa dell’orizzonte, una luce danzante come se
una stella fosse precipitata e stesse per annegare?
MEMO Se strizzo gli occhi, ne vedo tante, ma la mia impressione
è che nuotino verso di noi.
ACHILLE Potrebbe trattarsi di una barca.
MEMO Caronte?
ACHILLE Se ci porta qualcuno, non può essere
qualcuno che conosco?
MEMO Signore, io non aprirei il cuore alla speranza, se fossi
in te.
ACHILLE Non sto pensando a nessuno in
particolare.
MEMO Meglio così.
ACHILLE Non vedo più niente.
MEMO Vedi quello che vedono tutti: il muro nero della notte.
ACHILLE Se gli dei volessero il mio bene, non mi
lascerebbero qui a struggermi. Meglio morto, che vivo senza vita.
Se qualcuno fosse interessato, sarei
lieto di mandargli le opere in lettura.
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