sabato 5 luglio 2014

LETTURE E SCRITTURE PER L'ESTATE



Alcuni dei libri in lettura: “Atena nera” di Martin Bernal (sulla scia di altri saggi brevi che sto leggendo, la tesi opposta all’eurocentrismo degli ultimi due secoli; non siamo eredi della cultura greca, ma dobbiamo spingerci in Africa e in Asia per trovare le radici del politeismo olimpico e della nascita del teatro).
Nicole Loraux, “La voce addolorata” (la tragedia greca come espressione dell’antipolitica e quindi del dissenso costruttivo; siamo nell’ambito delle tesi sociologiche della scuola di Manchester e parliamo del “dramma sociale” come è presentato da Turner e Gluckman).
Mary Lefkowitz, “Dei greci, vite umane” (una lettura scorrevole della presenza degli dei nel mito, nelle opere omeriche, nelle tragedie e nella poesia lirica, con un’esposizione metodica degli avvenimenti e i commenti dell’autrice). Jean Pierre Vernant, “Le origini del pensiero greco” (dai regni micenei alla polis, dal mito alla filosofia, dalla faida alla polis e al suo ordinamento giuridico).


Umberto Curi, “Meglio non essere nati” (un docente universitario di filosofia ci presenta il pessimismo metafisico dall’antichità ai nostri giorni). Jean Pierre Vernant, “Mito e società nell’antica Grecia” (raccolta di saggi). Giuseppe Micunco, “Euripide” (riflessioni sulle sue tragedie).
Ho iniziato la rilettura delle commedie di Aristofane, in prospettiva di un ipotetico terzo “assaggio di teatro”, ma non scattano né entusiasmo né interesse. Per il momento sospendo.





Mi sono ripromesso, durante l’estate, di scrivere nuove opere di teatro a partire dalla tragedia greca. Dalla fine di maggio ne ho scritte quattro. La prima è “Elena in esilio”. In una famiglia rappresentativa della situazione attuale (madre con due figli e lavori saltuari; la figlia sottoccupata e il figlio disoccupato) si presenta Elena in fuga da Achille che la vuole riportare sull’isola di Leuce dove vivono come ombre. Elena si lamenta di una condizione di perenne profuga alla quale sono state addossate colpe non vere (la guerra). Vorrebbe una vita tranquilla, è disposta a lavorare e a fare a meno di ogni privilegio. L’idea è di inserire elementi del mito nella vita quotidiana di personaggi del giorno d’oggi. Il mito innesca una serie di avvenimenti “tragici”, mettendo a fuoco la verità al di là di ogni finzione e fraintendimento. L’arrivo di Achille (tra i personaggi ci sono anche Era e Zeus) mette il fratello contro la sorella fa esplodere la sua rabbia. Non c’è il coro.
L’opera è piuttosto lunga (quaranta cartelle), e alcuni monologhi sono forse da ridurre, ma è stato un primo passo importante che mi ha rivelato la fattibilità del progetto.



AGAVE          Urla, la mia povera bambina. Chissà quali incubi spaventosi.
ERA                Non può liberarsene, fin che Elena è qui.
AGAVE          Che cosa devo fare?
ERA                Mandala via. Al più presto. Se vuoi salvare i figli, cacciala. Se resta, sarà la rovina della casa.
AGAVE          Ma come faccio?
ERA                C’è solo un modo. Devi consegnarla ad Achille.
AGAVE          E lui dove lo trovo?
ERA                Dentro tuo figlio.
AGAVE          Dentro mio figlio? Che significa?
ERA                Lo scoprirai.
AGAVE          Come faccio a consegnare Elena a uno spettro?
ERA                Devi ucciderla.
AGAVE          Dici spropositi. Io non posso ucciderla. Non si toglie la vita, il comandamento è chiaro.
ERA                Pensa a chi uccidi. Non è un essere umano. Elena è vissuta migliaia di anni fa. Tu ne uccidi solo l’ostinata e scellerata persistenza nel mondo. Compi un atto di giustizia, se lo fai. Riporti l’equilibrio nell’universo. 
AGAVE          Come posso fidarmi di te? Anche tu sei inesistente. Io credo nel Dio cristiano.
ERA                Questo non t’impedisce di dare ascolto alla voce dentro di te, poiché io questo sono, una delle voci della tua anima.

Ho subito scritto una seconda opera, “Tirso”. Lo spunto me l’ha offerto un concorso: oggetti di scena e scenografie devono stare in una valigia.
Una famiglia diversa, alto borghese, il padre in prigione per illeciti amministrativi, la madre disperata perché teme di perdere il patrimonio. Due figli, anaffettivi ed egocentrici. Lei è reduce da una fuga durata un anno, in giro per il mondo, a vuoto. Lui si droga ed è alla ricerca del modo di fare soldi facili. Muore il nonno che lascia a loro due in eredità una valigia. Dentro ci sono: miele, vino, nebride, mitra, tirso, maschera, cembalo e tamburello… gli oggetti sacri di Dioniso. È lo stesso dio a spiegarlo ai ragazzi. Tra ricordi del liceo, esaltazioni orgiastiche, illusioni e litigi, i due compiono una specie di sacrificio che li allontana definitivamente dalla madre, senza però che possano seguire il dio. Nemmeno in quest’opera c’è il coro, ma ho inserito tra una scena e l’altra una didascalia poetica che commenta e approfondisce l’azione teatrale (la mia drammaturgia non prevede le solite didascalie inerenti a movimenti, motivazioni ed espressioni, proprio come risulta nella tragedia greca; ma questo da sempre, non per imitazione).   

DORIANA     Ora ci porti via con te, vero?
MICHELE      È venuto per questo. Lui è la magia che ci porta via.
DIONISO      Io non sono un rapitore di bambini.
DORIANA     Te l’ha chiesto il nonno. Ti ha detto: portali via di qua, portali nel tuo mondo, da’ loro una possibilità, non lasciarli qui a corrompersi giorno dopo giorno.
MICHELE      Ti seguiamo ovunque. Qui non c’è niente per noi. Beviamo vino in tuo onore. Danziamo e cantiamo giorno e notte. Che si può pretendere di più dalla vita? Noi vogliamo l’estasi.
DORIANA     Ci piace, abbiamo il diritto di essere felici, vogliamo stare con te.
MICHELE      Noi siamo il tiaso, ti seguiamo ovunque vai.
DIONISO      Non vengo a portare ebbrezza e stordimento, ma dolore. Solo il dolore svela i sentieri della gioia. Nessuno mi segue, chi vuole mi cerca. Io sono un dio vagabondo.

Sono certo che a una prossima rilettura, troverò accenti di retorica e ridondanza, ma per il momento lo considero inevitabile, considerati i riferimenti letterari. Queste scritture sono una ricerca di stile, di registro e di struttura. Parto dalla tragedia greca come suggestione, non come emulazione. Voglio trovare una forma originale, se ci riesco.
La terza opera è “Ganimede”, la più compatta, coerente e densa. L’ambientazione è mitica, non contemporanea, ma il linguaggio non è alto e a tratti richiama quello della commedia. Nemmeno qui c’è il coro. Due personaggi, Ganimede e Zeus, sono solo voci.
Sull’Olimpo si presenta un vasaio di nome Supplice. Chiede udienza a Zeus. Ha intenzione di chiedergli di restituire la verginità alla figlia sventata. In realtà, è il padre di Ganimede venuto a reclamare il figlio. L’inizio è da commedia, poi volge al patetico e nel finale assume un tono epico. Gli dei assumono caratteri definiti e l’opera mette in luce una ricca gamma di reazioni emotive e di sentimenti.

SUPPLICE      Ho gridato: voglio mio figlio! E nessuno mi ha ascoltato. Pregare e attendere per l’eternità? Non ha senso. Ganimede sa che sono qui. Spera che io faccia qualcosa. E intendo farla.
ESTIA            Che cosa?
SUPPLICE      Ora me ne vado, sapendo di scatenare la furia di Ebe, tanto giovane e tanto malvagia. E l’ira di Era, tanto potente da uccidere i miei sudditi con un’epidemia. E farò arrabbiare anche Zeus, che potrebbe lanciare il rimbombo del terremoto e sprofondare le mie città. Tutti quanti gli dei saranno irritati e vorranno punire me, la mia stirpe, il mio popolo.
ESTIA            Stai prefigurando cose terribili.
SUPPLICE      Sono io il primo a esserne spaventato. Ma la paura di un re vive sottopelle, e non vede mai l’aria. La forza di fare quello che medito mi viene da un fanciullo innocente che l’Olimpo vuole schiavo.
ESTIA            Che cosa hai in mente?
SUPPLICE      Ora ti volgo le spalle e mi allontano e se tenti di fermarmi mi lancio su di te come un lupo affamato e ti squarcio la gola.
ESTIA            Dei dell’Olimpo, mi minacci!
SUPPLICE      Te e tutti i tuoi complici.
ESTIA            Ma dillo, dillo: che intendi fare?

Ed eccoci alla quarta opera, “Andromaca non canta”. Lo spunto mi viene da Euripide. La partenza è simile: Andromaca fa appello a Peleo per difendere se stessa e il figlio dalla furia omicida di Menelao. Ho introdotto nuovi personaggi, tra i quali Ecuba con l’aspetto della cagna nera. In Euripide è presente un coro di donne di Ftia, qui un coro di serve. L’ambientazione non è definita. Si legge che il territorio di Menelao è montuoso e che l’aggregazione sociale è per clan. Non si sa di quale guerra si tratti e non si parla di schiave, ma di serve.
Un’opera di contrapposizioni: sterilità e maternità, matrimonio e concubinato, privilegio e servitù, maschilismo e rivendicazioni femminili, vendetta e serenità interiore… Ne sono soddisfatto? La cosa importante è l’impressione che gli elementi delle opere precedenti convergano in una direzione, quella che mi porta sempre più vicino a definire le problematiche per una struttura (elastica e adattabile) “tragica”, che comprenda dialoghi, coro, prosa e poesia.

ANDROMACA   Hai terrorizzato le donne che vivono qui.
ECUBA               Serve. La gente del mio clan non vive da serva. Vorrei che morissero tutte.
ANDROMACA   Sono giovani, vogliono vivere.
ECUBA               E tu?
ANDROMACA   Io ho un figlio, vivo per lui. Muoio, anche, per lui. E per lui patisco la servitù.
ECUBA               Ha il sangue di Achille, è un seme di malerba.
ANDROMACA   Il sangue è suo e solo suo. Quello di Achille è polvere di un tempo remoto.
ECUBA               Come fai a parlare così? Hai scelto di farti ingravidare dall’assassino di tuo marito e di tuo figlio, come fai a non vomitarti addosso ogni volta che ti specchi? E come fai a vivere, quando tutti sono morti?
ANDROMACA   Non l’ho voluta io, la guerra maledetta.
ECUBA               Le guerre sono come i terremoti e le alluvioni, ci piombano addosso contro la nostra volontà. E hanno la loro funzione, nel piano degli dei.
ANDROMACA   Tutti innocenti, gli assassini.
ECUBA               Non infangare gli eroi, tu che tradisci il tuo sangue, servendo il nemico.           
ANDROMACA   Non ho scelto di fare l’amore con Neottolemo, mi ha presa come cosa sua, dato che sono prigioniera e serva, femmina spogliata di ogni volontà. Ho scelto invece di rimanere viva per allevare mio figlio, questo sì. Dal mio ventre è nato, non da quello di Neottolemo. La mia carne l’ha nutrito, non quella di Neottolemo. Tu non odi solo lui, ma tutto ciò che è del clan nemico. Odi le persone e la loro terra, le case che abitano e le bestie che allevano. Se tu avessi armi chimiche, bombe, aerei… scaricheresti la devastazione, condannando milioni di innocenti. Che senso ha tutto questo? Voi che comandate avete voluto la guerra, e la volete infinita. Ma noi che non abbiamo il potere vogliamo respirare la pace. E gli dei non esistono, se non nel tuo delirio di morte.
ECUBA               Hai rinunciato all’onore. Per te provo solo disprezzo.
ANDROMACA   Non ho servito allo stesso modo Ettore e il tuo clan? Mi avete comprata e messa nel suo letto, ho avuto sul viso il fiato caldo di tuo figlio e gli ho dato eredi, ho sofferto per la sua morte, ma in vita mia non ho mai sparso lacrime d’amore, a me l’amore è stato vietato, come la libertà. Ora sono serva, ma la mia vita non è cambiata.
ECUBA               Ogni tua parola è un invito a uccidere te e il bastardo. Hai fatto parte dei principi del clan, hai avuto ricchezze e onori, ma quale sbaglio abbiamo fatto prendendo una donna di fuori! Tu sei rimasta una straniera. Solo ora me ne rendo conto: tu non eri degna di mio figlio, il combattente più valoroso, ucciso con il tradimento.
ANDROMACA   Non voglio più ascoltarti. Vattene.

Pochi giorni fa ho cominciato “Achille sull’isola dei serpenti”. In quest’opera dovrebbero confluire le scoperte fatte nelle altre. Dovrebbero quindi esserci: dialoghi drammatici, monologhi lirici, coro, collegamenti formali tra gli elementi, una struttura che faciliti la compattezza e l’equilibrio delle parti e altro. Achille, dopo morto, non è finito al Tartaro ma sull’isola dei Beati o Leuce o isola dei Serpenti, insieme ad altri eroi della guerra di Troia, tra i quali Aiace. Se ne sta appartato, infelice. Gli manca qualcuno. L’arrivo di Pentesilea, la regina delle Amazzoni, sua nemica, che ha amato dopo averla uccisa, non riempie il vuoto che ha nel cuore. Ha bisogno di Patroclo. Ma può uno votato alla guerra e alla morte tenersi vicina la persona amata? Solo Afrodite conosce la risposta.

MEMO           Al crepuscolo la malinconia stringe Achille alla gola e lo zittisce. Io che sono al suo servizio e anche amico non gli rivolgo domande, lo ignoro. Ma i guerrieri che alloggiano sull’isola per il tempo infinito della morte non si danno ragione di un eroe che piange su se stesso e non si esalta per le imprese compiute in battaglia: e lo ignorano.
                        Noi siamo qui, al crepuscolo, di fronte al dorso increspato del mare, un drago nero che sputa schiuma e fa sconquasso di voci diverse, sibili e schianti. Dietro di noi gli schiamazzi del vino e il clangore delle armi nei tornei. Al fuoco delle torce i combattenti, alla cenere della luna noi.
                        Achille è fisso a una visione nera tra terra e cielo dove l’orizzonte accoglie i desideri impossibili. Suona il forminx e canta, ecco i suoi versi.
                        Dall’infinito qui approda
                        l’onda e all’infinito va.
                        Il mio sogno all’infinito
                        si protende e qui ritorna.
                        Questa riva è una catena,
                        questo mare una prigione.
                        Non si parte e non si arriva,
                        sempre qui su questa riva.
ACHILLE       Memo!
MEMO           Comandami, signore.
ACHILLE       Non ti pare di scorgere laggiù, molto lontano, quasi sulla linea confusa dell’orizzonte, una luce danzante come se una stella fosse precipitata e stesse per annegare?
MEMO           Se strizzo gli occhi, ne vedo tante, ma la mia impressione è che nuotino verso di noi.
ACHILLE       Potrebbe trattarsi di una barca.
MEMO           Caronte?
ACHILLE       Se ci porta qualcuno, non può essere qualcuno che conosco?
MEMO           Signore, io non aprirei il cuore alla speranza, se fossi in te.
ACHILLE       Non sto pensando a nessuno in particolare.
MEMO           Meglio così.
ACHILLE       Non vedo più niente.
MEMO           Vedi quello che vedono tutti: il muro nero della notte.
ACHILLE       Se gli dei volessero il mio bene, non mi lascerebbero qui a struggermi. Meglio morto, che vivo senza vita.


Se qualcuno fosse interessato, sarei lieto di mandargli le opere in lettura. 

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