Aquilino
PINOCCHIO
COME UN ERACLE DI TRAGEDIA
Questo scritto è un gioco suggerito dalla stesura di
un testo teatrale per ragazzi (“Nel paese dei mi piace”). Rileggendo Pinocchio,
mi è venuto da pensare alla vita tragica di un burattino che sogna di diventare
ragazzo e fa di tutto per non diventarlo; e di un ragazzo costretto a barattare
la propria identità con la rinuncia alla vitalità del burattino, che ridiventa
un pezzo di legno da catasta e quindi da focolare; il tutto sullo sfondo di una
società scombinata e violenta. Pinocchio dovrebbe essere, nelle intenzioni
dell’autore, il modello per imbrigliare le forze istintuali e realizzare un
mondo più giusto e civile. Una Ananke,
una necessità, questa trasformazione che costa sangue e lacrime e che
non risponde alla domanda: ne è valsa la pena?
Rileggendo Pinocchio con un occhio alla tragedia
greca, ecco farsi avanti Eracle, creato da Zeus per civilizzare il mondo e
operare il passaggio dall’età del bronzo a quella del ferro, dall’età degli
eroi a quella dei filosofi, dei matematici e dei politici. Ne è valsa la pena,
per lui? Non è una domanda valida, perché anche la sua vicenda è dominata da
Ananke. Così doveva essere, così è. Oppure poteva finire in modo diverso?
Poteva Pinocchio diventare ragazzo senza rinunciare al burattino? Al contrario,
poteva Eracle portare a termine le proprie imprese rinunciando alle vendette e
alle soddisfazioni immediate a spese degli altri? L’uno e l’altro sono stati
liberi di decidere, oppure davvero Ananke, il Fato, il destino, la ragion di
stato, il dogma, il sistema… condizionano le vite fino a renderci alienati nei
confronti di noi stessi?
La nascita di Pinocchio è evoluzionistica e al
contempo metamorfica. Da ciocco mineralizzato, combustibile destinato a
dissolversi in fumo, dotato comunque di parola, a manufatto ligneo finalizzato
alla comodità umana; poi germoglia in un simulacro umanoide e prende infine
forma di burattino vivo, dotato di pensiero proprio e destinato a salire al
massimo grado di vita terrestre: un essere umano (ed Eracle un dio). Non è una
nascita tranquilla, in parte perché l’embrione è di poco conto: “Non era
un pezzo di lusso, ma un semplice pezzo da catasta.” Uno tra mille, creatura
anonima a cui non viene ancora riconosciuta un’anima, schiavo sottomesso al
quale non si risparmiano sofferenze e angherie: “Ohi! Tu m’hai fatto male!”
Diversa è la nascita di Eracle, dominata
dall’inganno: Zeus raggira Alcmena assumendo le sembianze del marito; Era
raggira Zeus facendo nascere per primo Euristeo, che soffia a Eracle il trono
miceneo. Ma le bugie non sono una caratteristica di Pinocchio? E la violenza
non appartiene al mondo di Eracle? I due si completano a vicenda, facendosi al
contempo specchio l’uno dell’altro. La loro nascita, in sintesi, è violenza e inganno.
Nel ciocco amorfo c’è già lo spirito di Pinocchio che
vuole sì vivere, ma non soffrire; e questo è impossibile, come ci dice Euripide
nel frammento del “Cresfonte”: “Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo
a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce, considerando i molteplici
mali dell’umana vita; ma chi morendo pose fine ai gravi travagli, a questo gli
amici dovrebbero celebrare le esequie con ogni lode e gioia.”
E Sofocle nell’”Edipo a Colono”: “Non veder mai la
luce / vince ogni confronto, / ma una volta venuti al mondo / tornar subito là
da dove si giunse / è di gran lunga la miglior sorte.”
Ecco prefigurato il destino del pezzo di legno:
trasformazioni, sofferenze, colpi di testa fonti di guai, fughe e ritorni,
ricerca di un’impossibile felicità, promesse vuote, eroismi. Un’inquietudine
incessante e insoddisfacente, che rende comunque la vita piena e significativa.
E dopo tutto questo? Un bravo ragazzo che va a scuola
e accudisce il padre anziano, tutto casa e scuola, tutto d’un pezzo, tutto
uguale a mille altri ragazzi bravi cittadini: un esercito di schiavi.
Non somiglia per niente all’apoteosi di Eracle. O
forse sì?
Ritorniamo, però, alla nascita di Pinocchio. Dopo il
trauma, gli si prospetta un avvenire avventuroso e ricco di soddisfazioni (dal
punto di vista di Geppetto, che s’immagina un figlio obbediente e lavoratore,
dal quale farsi mantenere; un progetto di parecchio ridimensionato rispetto a
quello di Zeus che investe addirittura la storia dell’umanità): “… un burattino
meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con
questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un
bicchiere di vino.”
Il mondo è uno dei leganti dei due personaggi: la
loro casa è sempre fuori, nel mondo. Un mondo dapprima di terra (il Peloponneso
e i dintorni della casa di Geppetto) e poi di acqua (il Mediterraneo e il mare
del Pesce-cane).
Pinocchio pare entusiasta del progetto ed è lui
stesso a precipitarsi da Geppetto: “Il pezzo di legno dette uno scossone (…) e
andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.” Insomma,
è lui stesso a scegliersi il padrone. Ironia tragica.
Ma, una volta a casa, man mano che il Pigmalione-demiurgo
realizza il capolavoro, ne ricava occhiatacce, derisioni, dispetti e calci. E
infine, a conclusione di una nascita davvero travagliata, la creatura, più
Frankenstein che Galatea, si dà alla fuga. “Sciagurato figliolo! E pensare che
ho penato tanto a farlo un burattino per bene!” Eppure, lui e Maestro Ciliegia
hanno appena fatto rissa per ben due volte, con una pantomima da commedia
dell’arte o da teatro dei burattini (ma… siamo tutti burattini?) e scambio di
botte e insulti indegni di due gentiluomini. Questa è solo la prima avvisaglia:
vedremo sempre più spesso umani e adulti comportarsi da delinquenti, senza
paragone rispetto alle marachelle del burattino-bambino. La stessa situazione
trova Eracle nel mondo, una situazione di ingiustizie e sopraffazioni.
Nei primi tre capitoli sembra condensato il
significato di tutta l’opera: il creatore s’illude di possedere e di gestire la
propria creazione, che si stacca da lui e cerca vita autonoma. Pinocchio dà più
retta ai furbastri della vita di strada che al moralismo di Geppetto, del
Grillo e della fata. Eracle, una volta compiute le dodici imprese su mandato,
che dovrebbero stroncarlo e invece lo rendono sempre più forte e sempre più
violento e sempre più audace (non arriva a fare rissa con gli dei?), va in
cerca di non sa nemmeno lui che cosa: la rivalsa sui torti subiti, la ricerca
di gloria e ricchezza, l’abbandono ai piaceri, l’amore passionale e prepotente…
come una nave di naufragio, che non trova porto in cui ripararsi.
A differenza di Pinocchio, il semidio non proviene da
un pezzo di legno, ma dai lombi di Zeus. La differenza si vede, e come! Ancora
in culla, Eracle ammazza due serpenti, fatto prodigioso. Anche il burattino
farà morire un serpente gigantesco, ma per una convulsione di risa: un’impresa
da teatrino! Come Pinocchio, Eracle deve essere educato. Entrambi mostrano un’insofferenza mortale per i maestri.
Eracle usa uno sgabello contro l’insegnante di musica Lino, Pinocchio un
martello contro il tuttologo Grillo Parlante.
Ecco, per entrambi il dado è tratto. Le Erinni si
scatenano. I due devono espiare.
Pinocchio, per la precisione, il dado l’ha tratto
poco prima, fuggendo dalla casa di Geppetto. Ha inizio qui il suo rito di
passaggio, un lungo periodo di transizione che si conclude solo la mattina in
cui si sveglia ragazzo.
Van Gennep e Turner ci insegnano il meccanismo:
separazione, transizione e reintegrazione. In particolare ci interessa la
liminalità della fase di transizione, quando il soggetto è posto fuori dai
confini del mondo di appartenenza e deve rientrarci trasformato, operando per
esempio il passaggio da bambino ad adulto. Nel caso di Eracle, da umano a
immortale.
Pinocchio, dunque, scappa dalla casa di Geppetto.
“Birba d’un figliolo! Non sei ancora finito di fare e già cominci a mancar di
rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!” esclama il papà-creatore che ha
le idee chiare e definitive sulla dicotomia male-bene. Non si pone la questione
di una corretta elaborazione del rispetto mediante la reciproca conoscenza e
interazione. Nemmeno Zeus si è mai posto la questione di informare Eracle dei
propri piani. L’uno e l’altro hanno tra le mani un burattino di cui intendono
servirsi, al di fuori di ogni confidenza. Tutti i diritti li ha quindi il
creatore, il creato deve avere solo doveri.
L’uccisione del Grillo Parlante è un gesto di rottura
subitanea e brutale con la tradizione. Un gesto di Hybris, di arroganza, di
lacerazione dell’ordine divino. Tra i due non c’è possibilità d’intesa. Il
Grillo suggerisce studio e lavoro, Pinocchio ha altre idee: “Mangiare, bere,
dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.”
Quando si apre la fase della liminalità, tuttavia,
prende risalto la sua inadeguatezza. Non è in grado di procurarsi da mangiare:
l’uovo della frittata è un pulcino in fuga. Nemmeno di esplorare il mondo: i
piedi prendono fuoco. Pinocchio rimane inchiodato nella casa di Geppetto,
impossibilitato a fare esperienze di autosufficienza. Per di più, Geppetto non
lo aiuta certo nella sua ricerca di autonomia. Torna dalla prigione e lo
perdona, gli ricostruisce i piedi, gli cede la propria colazione, gli fa il
vestito (ora di carta, un vestito fasullo per un bambino incompleto; alla fine
sarà di stoffa, un abito serio per un ragazzo perbene), vende perfino l’unica
casacca per fornirlo di sussidiario come tutti gli altri scolari. Quanti
sacrifici fanno i genitori per i figli! E quanto glielo rinfacciano!
Il suo interventismo misericordioso interrompe il
rito di passaggio e tarpa le ali al burattino. Gli nega ogni indipendenza, lo
vuole asservito a sé e ai propri progetti. Il suo non è un rapporto educativo
efficace e rispettoso delle diversità, ma un’ideologia di formazione come
modellazione d’argilla: una forzatura, una violenza. Viene insomma invertito il
rapporto adulto-ragazzo e Geppetto si dimostra immaturo e incapace di educare
un figlio come persona emancipata.
Zeus, l’onnipotente, non fa che dichiarare quanto gli
sia caro l’ultimo eroe, il migliore. Ma non si oppone agli imbrogli di Era e
lascia che scateni Lyssa per farlo impazzire. D’altronde, lui è un politico,
opera con i compromessi, manovra per finalità alte che non danno importanza ai
dettagli delle individualità.
Nel rapporto padre-figlio manca l’affetto vero, quello
che riconosce la necessaria distanza tra educante ed educando, e che fa il bene
dell’educando in ogni caso; e quindi non è un rapporto forte.
Pinocchio, appena esce di casa, lo tradisce e cede
l’abbecedario per un biglietto del teatrino dei burattini. Da quello che finora
ha visto, il mondo grigio degli umani non lo attira quanto quello colorato e
spontaneo dei burattini. Essi lo accolgono come un fratello, dandogli
finalmente l’amore e l’attenzione e il rispetto mancati in casa di Geppetto.
Ma… il suo rito di passaggio? Sta per rinnovarsi;
tuttavia, prima di affrontare le incognite della liminalità, egli deve darsi
un’identità meno generica di quella di burattino: deve diventare un eroe. La
disponibilità ad affrontare prove dure è già di per sé eroica. Ma a che cosa
portano tali prove? Al loro superamento, è prevista la scoperta di una nuova
realtà? Addirittura di una nuova società? Può l’infrazione delle regole portare
altrove, in un mondo finora solo sognato? No, il ritorno previsto è nell’ambito
della tradizione. Si tratta solo di una riconferma dei ruoli sociali.
Anche Eracle si trova bene nella liminalità sul monte
Citerone, in una dimensione pastorale che preferisce a quella palaziale. Egli è
tipo da gente semplice, non da aristocratici. Non sarà venerato in tutto il
Mediterraneo dai popolani e perfino dagli schiavi? Tra le esperienze, non manca
l’iniziazione sessuale. Con grande soddisfazione, ingravida le cinquanta figlie
di Tespio, sviluppando fin d’ora l’interesse per i piaceri materiali: mangiare,
bere, fare l’amore. Insomma, i programmi dei due protagonisti si somigliano. Per
Pinocchio, di stampo ottocentesco, essendo per di più burattino-bambino, il
sesso è fuori discussione: nemmeno un accenno. L’unica bambina con cui ha a che
fare, a scanso di pericolosi sviluppi, si trasforma in fretta in donna, al di
fuori della sua portata. Quindi, un rapporto tra fratello e sorella, e poi tra
figlio e madre, più che un palpito erotico per i seducenti capelli turchini.
L’occasione eroica per Pinocchio viene da Mangiafuoco.
“Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro… La sua bocca era
larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col
lume acceso di dietro, e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di
serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.” Il primo dei mostri che incontra
durante le sue peripezie: i conigli-becchini, il serpente orribile, il
Pesce-cane, il pescatore, l’omino di burro… (dai colori scuri, contrapposti al
bianco funereo delle case della fatina, come rimarca Manganelli nel suo libro
parallelo). Parenti minori dei mostri di Eracle: leone di Nemea, idra di Lerna,
cinghiale di Erimanto, uccelli di Stinfalo, cavalle di Diomede, donna serpente,
Cerbero, cercopi, Acheloo… legati a una geografia reale, mentre quella di
Pinocchio è una mappa infantile. D’altronde, qui si parla di un eroe bambino e
di un eroe adulto.
Disposto a immolarsi per salvare Arlecchino, ora
Pinocchio è un Agathos, un uomo valoroso. Anche Eracle si trasforma da ragazzo
in eroe uccidendo il leone del monte Citerone, disposto anche lui a mettere a
rischio la propria vita, ma per i begli occhi delle principesse tespiadi. Le
amicizie di Pinocchio, a parte l’ambigua fatina (sua patrona come Atena con
Eracle), sono solo maschili, come d’altronde quelle di Eracle, che ha sempre un
amato accanto a sé (Iolao, Ila, Abdero…).
Gli universi eroici e picareschi dei due protagonisti
sono di carattere cameratesco. Pinocchio frequenta compagni di scuola e
compagni di avventura, ma non ha amici veri; ha a che fare con il burattinaio,
i carabinieri, il giudice scimmione, il contadino, il pescatore… e l’unica
femmina è la fata, prima bambina che muore e poi donna malata (ci sarebbe anche
la lumaca… femmine fragili e lente, quelle di Collodi). Eracle bazzica poco con
uomini comuni, pur essendo da loro amato (probabilmente non hanno avuto il
permesso per entrare nella storia-mito), incontrando per lo più rappresentanti
dell’aristocrazia e regnanti, oppure giganti e criminali. L’elemento femminile
è variegato: la madre ininfluente, le principesse tespiadi usate solo come
fattrici (in accordo con il padre, felice di ritrovarsi cinquanta nipotini
figli di semidio), la dea Era che vorrebbe farlo a pezzi, la moglie Megara da
lui ammazzata con i figli, l’amazzone Ippolita la cui fine è ignota (uccisa da
lui? uccisa o sposata da Teseo?), le ninfe Esperidi derubate, la donna serpente
(un amplesso inusuale), la bella Iole che armerà la mano di Deianira, la regina
Onfale con la quale fa del burlesque, la sacerdotessa Auge cui fa violenza, la
ninfa Ebe che diviene la sua sposa nell’aldilà con il beneplacito di Era,
finalmente placata. Bella differenza con Pinocchio! Sarà che Pinocchio è un
burattino-bambino o sarà anche che Collodi-Lorenzini è uomo del suo tempo che
ha studiato dai preti. Rapporti molto passionali, quelli di Eracle con le
donne: o le deruba o le ammazza o le violenta o ne diviene succube; Iole è solo
uno spettro nel suo immaginario e le uniche forse che ha potuto amare (per una
notte soltanto) sono le tespiadi; ma qui si parla dell’adolescente. Insomma: un
bambino senza rapporti con il genere femminile e un adulto con troppi rapporti
fuori dalla norma, dalla violenza all’omicidio. Nel mezzo qualcosa è andato
storto, a livello educativo.
Espiata con la liminalità la loro inadeguatezza
all’inserimento in società, i due eroi affrontano le relative imprese che
dovranno condurli a un ritorno trionfale nell’abbraccio della tradizione. Le
affrontano con Enthousiasmos, la forza divina che si manifesta in loro; quella
di Zeus in Eracle, e quella di Dioniso in Pinocchio. Entrambi si affannano a
correre dietro a seduzioni e mostruosità. Pinocchio su mandato dell’istinto e
dell’impulso; Eracle di Euristeo che trasmette la volontà di Era. Entrambi
inseriti in una logica di autodistruzione.
La carriera di Eracle comincia male. La follia
instillatagli da Lyssa su ordine di Era gli fa uccidere moglie e figli. Per
punizione, deve farsi schiavo di Euristeo e compiere dieci imprese (due sono
invalidate e due vengono quindi aggiunte). Anche la carriera tumultuosa di
Pinocchio non è da meno. Ma la sua non è follia, solo ingenuità e
irresponsabilità; o forse meno: sete di esperienza e di esplorazione del mondo,
costi quel che costi. E l’errore, l’Hamartia, è in agguato. Non è lui a
uccidere, ma lui a essere ucciso. Per mano di due piccoli mostri, un gatto e
una volpe. Ha avuto i doni dal burattinaio, cinque monete d’oro, e li ha usati
male. Eracle ha avuto in dono le armi dagli dei, ma le usa solo nella guerra
contro Orcomeno. Per tutto il resto, gli bastano la clava e l’arco. Si procura l’armatura
scuoiando il leone nemeo. Il rifiuto delle armi è rifiuto di onori, e questo
non è gradito in una società che sugli onori (soprattutto immeritati) si fonda.
Pinocchio è molto disarmato, del tutto in balia del mondo. Impiccato (quante
morti e quanta violenza in un libro per bambini!), viene salvato dalla fata,
alla quale fa il resoconto delle sue disgrazie, una Rhesis che ripeterà in
altri momenti, perché è piuttosto logorroico come tutti i bugiardi e i
profittatori, e questo a differenza di Eracle che, a parte le esigenze
letterarie, immaginiamo piuttosto scarno di parole.
Ma che fa, lo sconsiderato burattino? Torna dai due
malandrini che lo derubano. E lui, la vittima, finisce in prigione! Collodi,
per scelta o per caso, comincia l’opera di disgregazione della società presunta
perfetta in cui intende inserire il burattino al termine del suo percorso
irregolare, una società di giustizia assurda, di criminali a piede libero, di
carabinieri sprovveduti, di infanticidi, di donne sole e abbandonate…
Intenzionato a tornare dalla fata, Pinocchio si
scontra con il serpente, viene preso alla tagliola ed è costretto a fare il
cane da guardia. Non lo voleva così, Geppetto? Alla fine riesce a ripresentarsi
a casa della bambina dai capelli turchini, che è morta: “Qui giace/la bambina
dai capelli turchini/morta di dolore/per essere stata abbandonata dal
suo/fratellino Pinocchio.”
Ecco che anche Pinocchio è responsabile della morte
di un familiare! Un piccolo Eracle che ha accenti di dolore equivalenti, un
Threnos strappalacrime.
PINOCCHIO: “Perché, invece di te, non sono morto io,
che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona? (…) Che vuoi che io faccia
qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da
mangiare? Dove andrò a dormire di notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh!
Sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io!”
ERACLE (da Euripide): “Ma perché devo conservare la
vita, io assassino dei miei amatissimi figli? (…) In quale luogo sacro, a quale
riunione di amici sarei ammesso? La maledizione impedisce a chiunque di
avvicinarmi. Sarei oggetto di sguardi sprezzanti e di acri frecciate: - Ma
questo non è il fglio di Zeus che ha assassinato moglie e figli? Ma che vada a
crepare lontano da qui!”
Se una differenza c’è, è che Eracle è consapevole di
avere perso la Timè, l’onore; mentre Pinocchio si preoccupa solo della propria
sopravvivenza.
Entrambi pensano al suicidio, ma Eracle cambia
propositi con l’arrivo di Teseo e Pinocchio di un colombo-messaggero che gli
porta notizie di Geppetto. E si tira avanti. Eracle esplora il mondo in su e in
giù, testimone degli imminenti cambiamenti climatici, sociali e politici, architetto
delle colonne o a Gibilterra o tra la Sicilia e la Tunisia, a seconda delle
versioni (dipende tutto da dove si posiziona Atlantide). Per lui si chiude il
ciclo delle dieci imprese più due di recupero e si aprono ulteriori peripezie
(Parerga) derivanti dalle vendette, dalle espiazioni o dall’arruolamento nelle
schiere divine contro i Giganti che attentano all’ordine costituito. E anche
qui, che ironia tragica, lui difensore dei propri persecutori!
Pinocchio, dopo un siparietto con i compagni di
scuola (che non lo amano, come gli Argonauti non hanno amato Eracle – anche qui
risalta con evidenza la solitudine dei due eroi; l’uno e l’altro sembrano
sempre un Meteco, uno straniero, ovunque si trovino) e dopo ulteriori promesse
alla fata, tutte tradite, si lascia tentare da Lucignolo e se ne va nel Paese
dei Balocchi. Come resistere? E più ci sono divieti e richiami al buonsenso,
più l’avventura è saporita e irrinunciabile. Non fa lo stesso Eracle con Iole?
Quale folle immaginazione gli fa sognare una convivenza a tre, lui quasi
cinquantenne, con una ragazza così giovane? E con una moglie affettuosa e paziente
che, come la fata dai capelli turchini, muore di dolore (in un modo più
sanguinario, da tragedia)?
Con le vendette, con la guerra contro il re Eurito di
Ecalia per catturare una Iole terrorizzata e catatonica, Eracle decreta la
propria decadenza. Ben poco è rimasto dell’adolescente del monte Citerone e del
civilizzatore del Mediterraneo. Lui che ha insegnato la bonifica, il controllo
dei fiumi, il rispetto delle minoranze, la difesa della giustizia contro i
tiranni e gli oppressori, il divieto dei sacrifici umani… ora è vittima dei
mostri uccisi, di un oracolo disatteso: sarebbe morto a causa di un non
vivente. Ucciso da Deianira? Ucciso da Nesso? Ucciso da se stesso perché la
propria opera si è esaurita e per lui non c’è più posto nel tempo della guerra
di Troia e della scomparsa delle vecchie civiltà. Anche sul rogo mortale, ci
dice Sofocle, la sua grandezza è appannata. Impreca, maledice, minaccia… impone
al figlio di sposare Iole, e conclude la propria vita con un ultimo omicidio,
quello dell’araldo Lica, del tutto innocente. Sofocle, nelle “Trachinie”, fa
fare a Eracle una fine misera, come voleva la politica del tempo, che all’eroe
tebano intendeva sostituire quello ateniese, Teseo, efficace emblema di grecità
(democrazia e sapienza) nel mondo. Eracle scaricato, una volta ripulito
l’universo dai mostri di natura e di potere.
E non rischia di fare anche Pinocchio una fine
altrettanto misera?
Trasformato in asino, si ritrova schiavizzato in un
altro teatro dei burattini, nella fattispecie un circo. Ci lascia letteralmente
la pelle, dato che chi lo compra intende affogarlo per poi scuoiarlo e fare
tamburi. Pinocchio asino-burattino-pagliaccio, Eracle asino (e pagliaccio anche
lui nei drammi satireschi e nelle commedie di stampo aristofanesco) che Zeus usa
e poi abbandona a una fine poco eroica, propagandando un’apoteosi tutta da
verificare, dato che la stessa esistenza di Zeus è un’incognita, come ci dice
Euripide: “Zeus, chiunque egli sia…”.
Che siano tutti e due vittime di Adikia? Di
ingiustizia?
Ma la fine di Pinocchio è rimandata. I pesci gli
mangiano la pelle d’asino (oh, se avessero mangiato anche quella di leone
sull’anima di Eracle!) e lui (che già una volta è morto e ci ha fatto
l’abitudine) si sente di nuovo eroe impavido. Porta a compimento il processo di
ribaltamento del rapporto padre-figlio cui aveva dato inizio Geppetto con i
propri errori educativi e con un’iniziativa ardita salva il padre dallo stomaco
del Pesce-cane, con tanto di frase da collezione: “Se sarà scritto in cielo che
dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati
insieme.” C’è, nelle ultime venti pagine, più amore che in tutto il resto del
libro. Amore forse melenso, programmatico, da feuilleton, dettato più da sensi
di colpa che da affetto spontaneo. E c’è Metis, l’intelligenza e l’astuzia che
troppo spesso gli sono mancate; e di cui anche Eracle ha sempre dato prova,
sapendo di non dover contare solo sulla forza fisica (quando sconfigge Anteo,
Gerione…).
Questo sprofondare nelle viscere del mostro è una
discesa agli Inferi, dove al posto di Cerbero c’è un Tonno mite e filosofo,
coerente con la fiaba. Per Eracle è stata solo una delle tante imprese, per
Pinocchio è l’apertura di uno scenario nuovo e inatteso. Nei restanti ultimi
episodi, egli mostra un cambiamento radicale, a conclusione di un itinerario
etico che rivela le forzature d’autore. La fata, che già era morta, ora è solo
malata, e ci pensa Pinocchio a farla curare. Come provvede alle necessità di
Geppetto. Non ricorrendo al gioco e alla fortuna o al furto, ma al lavoro duro.
Si ricompone così una famigliola anomala. La mamma-fata compare solo in sogno,
lei che ha rappresentato finora l’Oikos, la casa a cui Pinocchio torna più
volte (in quella in cui è nato fa ritorno solo alla fine). Il padre Geppetto è
rinvigorito e sempre sentenzioso, orgoglioso del proprio ragazzo che ora vanta
l’Aretè, la virtù.
Il figlio, ex burattino, ci si presenta come “un
ragazzino perbene”, mentre il burattino è appoggiato sghembo a una sedia, e
appare solo buffo. Finirà in solaio? O in una stufa, tra le fiamme come Eracle?
Il vento di Tiche cambia direzione a favore di
Pinocchio. La fata gli fa avere una bella sommetta, la casa ce l’ha, un padre
amorevole e onesto anche… ora non gli resta che lavorare e accumulare per i
tempi di magra, e nel frattempo andare a scuola per migliorare le condizioni
lavorative, e infine continuare a lavorare fino alla vecchiaia e più. E il suo
programma di “mangiare, bere, dormire…”? A Pinocchio, quando dice una bugia, si
allunga il naso e diventa tanto lungo che non gli è più possibile muoversi.
Come dire: senza la verità, non vai da nessuna parte. Eppure, Sofocle scrive: “Non
è bello dire menzogne; ma quando la verità potrebbe portare terribile rovina,
allora anche dire ciò che non è bello è perdonabile.” Insomma, anche la verità
è relativa.
Pinocchio ed Eracle sono accomunati dall’esplorazione
di un mondo che non è certo paradisiaco. Che il paradiso esista in cielo è
opinabile, che non esista in terra è certezza. Un mondo di mostri, di
imbroglioni, di cinici briganti senza cuore, di ricchi profittatori, di vittime
innocenti, di sopraffazioni. Un mondo dove la giustizia è amministrata al
contrario da un giudice scimmione, dove pescatori mutanti friggono i bambini,
dove i re uccidono gli stranieri, dove le delizie sono riservate agli dei, dove
le mamme muoiono senza aver mai dato una carezza, dove… Pinocchio ed Eracle
hanno fatto di tutto, con la forza e il coraggio, l’infrazione e la fantasia,
l’entusiasmo e la curiosità, la ricerca del piacere e la noncuranza delle
leggi… per incrinare le certezze di un mondo comunque infelice e ingiusto.
L’uno si è trasformato, da burattino, in manichino; l’altro è finito bruciato
vivo sul rogo, come un eretico.
E il lieto fine? Si è nascosto da qualche parte.
In conclusione, che cosa accomuna i due eroi?
1)
Anzitutto, l’irrequietezza e la disponibilità
all’avventura. Non dicono mai di no per prudenza o paura, si tuffano a capofitto
nelle situazioni più ambigue, ignote e pericolose, come d’altronde fanno i
bambini nei primi anni di vita. L’errore, però, non è valorizzato da una logica
di apprendimento per tentativi; ma viene punito in modo anche pesante e
crudele. È proprio da questa dinamica di sbaglio-punizione-espiazione che
procede la vita-avventura. I momenti di passaggio sono rappresentati da
pentimenti e purificazioni (la fata per Pinocchio, i santuari e gli oracoli per
Eracle).
2)
Eracle agisce per reazione a impulsi interiori
inoculati da suggestioni e comandi esterni (prima Zeus, poi Era); e solo quando
si tratta del desiderio erotico o di quello di raddrizzare i torti subiti ha
sprazzi di libertà decisionali che, avendo ormai una visione distorta delle
cose, usa male, provocando altri disastri.
Pinocchio, per una simmetria al contrario, disobbedisce
in continuazione alle proprie “divinità” (Geppetto e fata) ed entra in azione
senza un piano prestabilito, cogliendo al volo quello che gli si presenta per
strada. Entrambi, quindi, sono burattini in cerca di una libertà personale, non
importa quali siano le conseguenze.
3)
Le peregrinazioni li rendono simili a cartine al
tornasole per la misurazione di una società che si proclama civile; e che
risulta invece impregnata di contraddizioni. Il livello di violenza delle loro
avventure è alto. Devono sempre guardarsi le spalle e diffidare. Nel caso di
Pinocchio, il piano di Geppetto prevede di inserirlo in una società che però,
appena oltre la porta di casa, è un mostro in agguato. Trasformare il burattino
in bambino significa solo rivestirlo con il vestito buono che lo rende muto e
cieco di fronte agli orrori che ci sono fuori. La morale è ipocrita: il male è
sempre estraneo (meteco) ed è meglio fingere di non vederlo. Zeus ha voluto un
eroe purificatore del mondo, ma dopo di lui che cosa piomba sull’umanità? La guerra
di Troia, la fine dei micenei, degli hittiti e degli egizi, le invasioni dei
popoli del mare, quattro secoli di medioevo ellenico e altre carabattole fonti
di terrore e sofferenze. Per fortuna, al termine del trambusto arrivano i
tragediografi. Una delle prime cose che insegnano è: guarda in faccia il mondo,
prendilo per quello che è, non barare.
4)
In fin di carriera, che cosa hanno guadagnato i
due eroi? Pinocchio possiede qualcosa solo grazie alla provvidenziale fata (ma
quanti altri hanno una fata che lascia un’eredità?) e deve comunque mettersi a
studiare e lavorare, accudire Geppetto e probabilmente fare i mestieri di casa:
basta tempo libero. Eracle si ritrova centinaia di templi intitolati a se
stesso, ma a solo beneficio dei sacerdoti; è ispirazione non retribuita per
poeti e tragediografi, e poi anche per i commediografi che lo mettono alla
berlina; non è diventato re, non ha accumulato ricchezze. Torna dalla moglie
sacrificata in casa illudendosi di trascorrere gli anni della (quasi) vecchiaia
con una graziosa concubina; e invece gli tocca morire male. Che se ne fa di Ebe
e dell’Olimpo lui che ha sempre disdegnato i salotti aristocratici?
5)
Infine, li accomuna la fama. L’immagine di
Eracle è un poco appannata, sempre a causa, forse, dei forsennati religiosi che
ora lo riscrivono e lo censurano ora lo esaltano per deliranti virtù cristiane.
Ma città, fonti, templi, monumenti, pitture, mosaici, opere letterarie…
testimoniano la sua straordinarietà. Il libro di Pinocchio è il più venduto e
tradotto (in più di 240 paesi) nella storia della letteratura italiana; e
centinaia sono i testi ispirati al personaggio, e i film e i cartoni animati e…
E a loro, però, tutto questo non interessa. Pinocchio
ora è un impiegato di medio livello, sposato con figli, pochi grilli in testa.
Eracle è un dio minore annoiato e tormentato da una moglie cameriera peggio che
Socrate. Ecco, Socrate. L’antico motto, di origini forse micenee nel primo
santuario di Delfi, “conosci te stesso”, avrebbero dovuto suggerirlo ai due eroi.
Ma nessuno l’ha fatto. E loro si sono accontentati di soccombere alla volontà
altrui.
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