Aquilino
PINOCCHIO, OSSIA LA
COMMEDIA TRAGICA DI UNA TRAGEDIA IN BURLA.
Pinocchio tradotto
in teatro.
“C’era una volta…”
L’incipit di Pinocchio non è un riferimento al mondo delle fiabe, ma a
quello della narrazione. Se le città, non tutte, avevano le sale teatrali,
Carlo Lorenzini bambino aveva le piazze e le osterie di Collodi dove giungevano
i burattinai e i contastorie. L’incipit ci mostra quindi Lorenzini/Collodi che
di fronte a una platea di bambini si appresta a raccontare le avventure del
burattino. Ma, per il momento, non dispone nemmeno di un burattino compiuto,
solo di un pezzo di legno di nessun pregio. Teatro povero, fondato più
sull’immaginazione che sullo sfarzo della scenografia; e più sul ritmo e
sull’immediatezza delle emozioni e dei sentimenti, facilmente riconoscibili. Un
teatro che non nasce per i critici, ma per un pubblico popolare.
In questo teatro che parte dalla narrazione per farsi poi commedia,
farsa, tragedia, balletto, cabaret… e infine dramma borghese, tutto avviene non
secondo i crismi della letteratura in prosa, ma quelli della messa in scena,
tra i cui requisiti c’è sempre la magia. Come capita il pezzo di legno nel
laboratorio di Maestro Ciliegia? Magia, caso, fato. Come a suo tempo ha fatto
la tragedia greca, solo il teatro può combinare felicemente l’incontro tra il
mondo vegetale e quello umano, incontro che profuma di mito.
Il ciocco, infatti, parla. Se parla, si presuppone una precedente
metamorfosi. Un bambino è stato trasformato in pianta? Si tratta del bambino
che bisogna liberare dalla servitù floreale per farlo tornare umano? È questo
il senso circolare del libro? Ma chi ha operato la metamorfosi? Gli dei? No,
non se ne parla da nessuna parte. La Fata-Grande-Madre-Gea-Signora-degli-Animali?
Se così, si è pentita e vuole estrarre il bambino dal legno. Lo farà, ma avremo
un bambino-ciocco, altro legno da sbozzare con la buona educazione, il
sacrificio dello studio e del lavoro. In conclusione, non è possibile uscire da
questa circolarità asfissiante di essere una vocina imprigionata in una materia
estranea e amorfa? Vocina di un ciocco che un Bianco, pagliaccio non amico dei
bambini, che non fa ridere e anzi terrorizza, sbatte contro il muro e minaccia
di buttare nel fuoco per farsi una pentola di fagioli?
I miti sono molto complicati. E crudeli.
Il dialogo tra il falegname e il ciocco è una clownerie che si
sviluppa con l’ingresso di Geppetto-Polentina. A Maestro Ciliegia viene facile
assegnare il ruolo di Bianco e a Geppetto quello di Augusto, ma è il Bianco che
ha il naso rosso, forse perché Geppetto è già abbastanza caratterizzato dalla
“polentina” che ha in testa. Dopo una partenza civile, il dialogo si fa serrato
e poi insultante, nella più bella tradizione circense, con tanto di scambio di
parrucche e botte da orbi. Il Bianco è nella tradizione: freddo e autoritario,
diventa anche violento precorrendo i pagliacci novecenteschi dell’orrore, in
stile King. L’Augusto non è certo un pagliaccio tutto cuore alla Charlot: il
pezzo di legno gli serve per ricavarne uno schiavetto che lo mantenga lavorando...
come teatrante di strada. Come può, dunque, Geppetto arrogarsi il
diritto-dovere di educatore quando egli per primo prospetta per il burattino la
vita di strada (purché se ne ricavi un guadagno)?
Ci spostiamo nella casa di Geppetto e l’autore ci fornisce le
didascalie. Non è una casa borghese, ma un rompicapo dada che prende luce da un
sottoscala, con un trompe l’oeil nella migliore tradizione del realismo.
Una sedia, un letto, un tavolino, tutto di poco pregio. Dove porta la scala? Da
nessuna parte. Appartiene a un altro appartamento? No, la casetta di Geppetto
sorge solitaria ai margini del paese. Forse
è una casa incompiuta. Il monolocale funge da laboratorio di
falegnameria. Potrebbe anche essere la sede fredda e spoglia di una piccola
compagnia di mimo nella quale Geppetto si esibisce per un pubblico assente. Ha
tra le mani un pezzo di legno con cui interagisce come se fosse il pupazzo di
un ventriloquo ancora privo di parola, ma capace di combinargli brutti scherzi.
Il gustoso e sofferto monologo trova conclusione in un gioco d’ombre dietro il
fondale neutro che ci porta per la prima volta sulla strada. La strada è il
regno di una legge prepotente e incapace di dare la giusta valutazione dei
fatti; e di una folla di perdigiorno maldicenti altrettanto ottusi per quanto
concerne la comprensione della realtà che si mostra ai loro occhi ciechi. La
strada, insomma, è prevaricazione e calunnia. Una trappola.
Segue una scena drammatica. Pinocchio, che sapeva solo ridere, ora sa
recitare, probabilmente per esigenze di copione, dato che non ci si vuole
accontentare di una pantomima. La sua prima performance è un thriller. La
tensione è subito creata da una colonna sonora da incubo: cri-cri-cri… Il grillo l’accentua con il moralismo, la
saccenteria, l’invadenza. Il pubblico, a ogni sua provocazione, pensa: taci, se
no finisce male. Infatti, il breve confronto finisce male, con un grillicidio
in diretta, senza la mediazione del fuori scena e della rhesys come avrebbe
fatto Euripide. Spiaccicato sulla parete: cri-cri-cri (smorzato, con l’eco).
Buio. In questo buio inquinato per esigenze di pubblico dalla luce criptica del
sottoscala che a sua volta prende luce… da dove? da una crepa nel muro?... in
questo buio si muove un burattino loquace che ama monologare per raccontare la
fame primitiva che lo sconvolge. Un esercizio di stile. L’interprete passa in
rassegna: pentimento, buoni propositi, scoramento, sfinimento, euforia,
indecisione, stupore, rabbia, disperazione… e di nuovo senso di colpa e
pentimento.
Ci vuole un grande attore, per fare tutto questo. Oppure un burattino.
Secondo atto del thriller. Una ventata che è come la zampata di un
orso strappa via il fondale neutro e tuoni e fulmini mostrano una scena
desolata: “Pareva il paese dei morti”. Un morto c’è, il Grillo. Un altro è
prossimo a diventarlo: Pinocchio, malato di fame terminale. Siamo in un dramma
elisabettiano? Impossibile, con un protagonista come Pinocchio. Egli è il servo
sciocco della commedia plautina che dopo essersi preso una secchiata d’acqua in
testa si brucia i piedi sullo scaldino: bello ridere delle disgrazie altrui! Le
farse presuppongono scherzi e vittime e le vittime non hanno nessuna voglia di
ridere. Tanto più che quando è stato assegnato il nome di farsa a questi
intermezzi il protagonista era un diavolo precursore di Arlecchino, e siamo nel
tredicesimo secolo.
Dopo tanto trambusto, ci vuole una scena da commedia sentimentale. Il
ritorno di Geppetto è tutto nell’esclamazione: “Pinocchiuccio mio!” e nell’abbraccio
paterno, il primo. La prigione ha fatto bene al vecchietto. Cede al burattino
le tre pere (il benservito degli istituti penitenziari?) che però sfrutta per
una lezioncina sull’essere troppo sofistici e delicati di palato. Quindi: buoni
sentimenti, forte senso della famiglia, moralismo. Sì, ci troviamo in un teatro
di fine Ottocento. Tenuto d’occhio dal parroco: ogni forma d’arte dev’essere
educativa. Il quadretto si completa con ulteriore generosità da parte di papà
Geppetto: restaura i piedi di Pinocchio (dopo averlo lasciato implorare a
lungo) e gli procura un Abbecedario svendendo l’unica casacca che dovrebbe
difenderlo dal gelo dell’inverno. Chi ama, soffre. Infatti, finora i sacrifici
che Geppetto predica a Pinocchio li fa solo lui: Pinocchio incassa e fa finta
di niente. Forse questo teatro vittoriano non è così educativo come vuol far
credere. S’insegna tanto, ma s’impara poco. E l’Abbecedario non sarà il
Giannettino del Lorenzetti che ebbe fortuna, ma dispiacque ai governativi
perché… non si può insegnare divertendo!
L’Abbecedario è il mezzo per entrare nel Gran Teatro dei Burattini,
che è poi la vera casa di Pinocchio, pur essendosene dimenticato. Qui facciamo
la conoscenza di colui che è stato spesso identificato con l’Orco, ma non è per
niente Orco, è l’imprenditore di quei tempi senza né sindacati né leggi sul
lavoro: Mangiafuoco. Ma quanto fuoco c’è in questo libro! Per vedere quanto,
seguite Manganelli nel suo “Pinocchio: un libro parallelo”; vi fa esplorare
altri colori, oltre al rosso, come il bianco e il nero. Il teatro dei
burattini. Ricordo ancora l’emozione quando, in età di scuola elementare, ho
assistito allo spettacolo di una delle ultime grandi compagnie girovaghe. In
realtà, si trattava di marionette, come sembrano anche queste di Collodi. E
l’impressione che fossero vive era fortissima. Infatti, queste sono vive. Tanto
vive e sfrontate da tenere testa al pubblico e da deciderne i tempi: mettetevi
in pausa, c’è Pinocchio!
Come in tutte le rappresentazioni di marionette, se non c’è la guerra
c’è un malvagio assassino, e se manca quello ci sono comunque indigenze e
malefici. Dopo la festa, la spavalderia dei burattini si spegne con l’arrivo di
Mangiafuoco. La sua è un’impresa redditizia e lui sa bene come farla
funzionare: risparmiando sulla forza lavoro. Gli operai hanno così poca
importanza (trova ovunque dei morti di fame disposti a sfacchinare per una
miseria) che può usarli come combustibile. Siamo in un romanzo di Dickens messo
in scena da un regista coraggioso che sfida i tempi, parlando di sfruttamento e
di infelicità delle classi subordinate e subornate, le cui vite sono comprate
per pochi spiccioli. Nella drammaturgia, non manca la nota eroica, ma qui non
c’è un arruffapopoli, ma un burattino che si sacrifica per l’amico. Insomma,
non si esce dal patetico. Tanto da portare alla commozione l’insensibile
Mangiafuoco che diventa una mammoletta, a dargli credito. E non fa, quindi,
anche l’elemosina che gli sistema la coscienza? Così può continuare a sfruttare
i burattini e a buttarli nel fuoco per arrostire il montone, cibo da ricchi.
Addirittura un bacio! Come fanno i politici e i papi, i genitori distratti e
gli amici traditori. Tutto, purché Pinocchio se ne vada: certe idee di libertà
e di eroismo sono come un virus letale per gli affari.
Insomma, Ibsen c’è e non c’è, ma si affaccia.
La partecipazione straordinaria del Gatto e della Volpe ci riporta a
quell’idea di teatro panteista che aveva stimolato Aristofane e altri a mettere
in scena uccelli, vespe, rane, cavalli… I confini tra vegetale-animale-umano si
fanno labili e si può passare da uno stato all’altro in nome della Vita con
l’iniziale maiuscola. Qui abbiamo un gatto, animale domestico, animale del
dentro; e una volpe, animale selvatico, del fuori. Una coppia bene assortita
per il comune progetto di abbindolare gli uomini. Sono ambedue infidi,
ostinati, crudeli. Sono i classici predoni di strada. Un bel pezzo di teatro
d’intreccio, una novella boccaccesca portata all’estremo, in cui le figure
negative non sono solo imbroglioni, ma esseri malvagi che non meritano pietà; e
infatti li aspetta un futuro di desolata solitudine e miseria.
La drammaturgia prevede tre atti, in un crescendo emozionante che alla
fine, però, lascia l’amaro in bocca. Ma come? Il signor Collodi, dopo tanta
passione espressa per il suo burattino, lo abbandona appeso al ramo di una
quercia, morto? Ma che finale è? Stiamo a vedere. Il primo atto si svolge per
strada, fucina di tutti gli incontri e di tutte le avventure, calderone fumante
della vita nei suoi sapori più genuini. Un incontro che svela le reciproche
esigenze: dalla parte di Pinocchio il desiderio di avere tanti soldi per
risarcire Geppetto e per avviare un’esistenza di bagordi senza la scuola e il
lavoro; dalla parte dei due delinquenti non solo questo, ma anche il gusto di
dimostrare quanto sono furbi loro e quanto stupidi gli altri: c’è un odio, in
loro, nato da chissà quali traversie nel passato, o da chissà quali rivalse
(forse odiano la propria condizione di animali e sognano di diventare uomini
come Mangiafuoco).
L’impresa continua, nell’atto secondo, all’interno di una
locanda-trappola, dove s’intuisce che il Gatto e la Volpe non sarebbero tali
senza la complicità di tanta brava gente che, sempre per soldi, li protegge e
li asseconda. Se la strada è pericolosa, non lo è da meno un luogo pubblico
come la locanda. Insomma, si è al sicuro solo a casa propria! Ed ecco l’atto
terzo di questo dramma brechtiano. Pinocchio, catturato dagli assassini, muore
impiccato. Quali le colpe? Essersi fatto ingannare, aver dato credito a persone
civili come il locandiere, essersi illuso che una casa contenga sempre gente
per bene pronta ad accogliere (e invece la casina nel bosco è una casa di morti
o di bambine che si fingono morte); e infine non avere dato retta al Grillo che
ritorna dall’aldilà per dargli il giusto consiglio (la caparbietà
dell’educatore!). Attento, Pinocchio, direbbe Brecht, hai ragione a dire:
“Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno dei consigli.” Ma se
non provvedi tu stesso a sostituirti con la tua testa, riflettendo
sull’esperienza, ai condizionamenti altrui, che ti rimane? L’incapacità di
valutare che cosa per te sia bene o male.
E qui Collodi-Lorenzini vuole mettere la parola fine. Un invito a una
presa di coscienza ancora poco chiara: guardate come finiscono i ragazzi di
strada che nessuno aiuta, e questa sarebbe una società civile? Perché
abbandoniamo i giovani alle grinfie dei criminali? L’azione educativa è
fallita! E così via.
Ma lettori e casa editrice esigono una continuazione e Collodi ci
presenta la seconda parte intitolata “Le avventure di Pinocchio” (la prima era
“Storia di un burattino”).
Incomincia con un colpo di scena della bambina dai capelli turchini,
che decide di non essere più morta e di aiutare il burattino. Adesso è una Fata
a tutti gli effetti, infatti comanda che è un piacere. Il Can-barbone e la
carrozza non ci fanno pensare a Molière? Siamo nel Seicento e la Fata è una
dama con tanto di neo e borotalco sulla parrucca, trucco pesante e profumi
asfissianti, vestiti ingombranti e capricci a non finire: lei è comunque
un’aristocratica.
Tutto quello che segue è una gradevole commedia di Molière, con tanto
di medici senza scienza, medicine amare non testate, sceneggiate funebri e
atteggiamenti da misantropo che chiede solo una cosa: di essere lasciato in
pace con la sua libertà stradaiola.
Molière non basta, tuttavia, per interpretare le scene successive nel
paese di Acchiappacitrulli. Ci vogliono autori novecenteschi come Beckett e
Ionesco per mettere in scena i dialoghi con il Gatto e la Volpe, il Pappagallo,
il giudice Gorilla e il signor serpente.
E alla parte più dura dell’arte recente, quella in bianco e nero, del
teatro dell’assurdo, espressionista e dadaista, futurista e verista, quella che
sfocia nel teatro dell’oppresso e di liberazione, nella performance di strada
del Living e nella narrazione civile e di denuncia.
Messo alla catena da un altro dei tanti padroni presenti nel romanzo,
Pinocchio vive un altro dilemma brechtiano: fedeltà a lui da cui dipende il
proprio destino o ai nemici che attaccano il padrone nel suo punto debole, la
proprietà? Come tante vittime, Pinocchio sceglie la via del collaborazionismo e viene premiato
con la libertà.
Possiamo definirle siparietti, le successive scene, brevi intermezzi
che introducono un nuovo genere, il musical. Pinocchio perde Geppetto e ritrova
la Fata, questa bambina-sorellina-signora-mamma (e non moglie) che i critici
ora riferiscono al mondo delle fiabe ora a quello del mito; e non manca chi le
mette l’aureola e la consacra addirittura Madonna. Resta comunque una donna
bugiarda, incoerente, cinica, insensibile, prepotente, antipatica. Altro che
fatina! D’altronde, i tanto lodati capelli turchini, sono un pugno nell’occhio
da signora attempata esibizionista o insicura che non ha un buon rapporto con
il proprio corpo. La Strega dell’Est?
Tutto sa sempre di flash back: qualcuno rimprovera Pinocchio e gli
indica la retta via; Pinocchio si accalora in promesse e giuramenti e per un
breve periodo fa il santarellino. Poi di nuovo il disastro. Siamo in un clima
di ritorni, ripetizioni e ridondanze: ritorno a casa della Fata e promesse; un
secondo Mangiafuoco ancora più mostruoso, il pescatore; il cane Alidoro… e
stavolta, invece dei burattini affettuosi, una masnada di compagni di scuola
con i quali fare una rissa epica. Essa offre all’autore, autore anche di
manuali scolastici, i primi dell’Italia Unita, la possibilità di scaraventare
in mare i libri noiosi in uso all’epoca, che infatti perfino i pesci
disdegnano.
Insomma, tra cento digressioni e qualche mostro in più, degno dei
musical di Broadway (ricordate la Piccola bottega degli orrori?), Pinocchio
approda nel Paese dei Balocchi.
Un’altra simmetria. Tre atti per raccontare una storia simile a quella
del Gatto e della Volpe.
Atto primo: sogni di una vita di baldoria. Atto secondo: la dura
realtà delle tragedie consumate nell’indifferenza generale. Atto terzo: la
morte triste del protagonista, là impiccato e qui affogato.
La parte centrale è la più interessante e offre molteplici piani di
lettura. Pinocchio si trasforma in un asino e lavora nel circo. Davvero è solo
colpa sua? Quando un uomo si trasforma in asino, iena, squalo, belva, serpente,
maiale, faina… è davvero solo colpa sua? In quale punto della propria vita, con
un atteggiamento diverso, avrebbe potuto evitare la metamorfosi? Ma, quello che
è più importante: chi è responsabile dello sfruttamento di Pinocchio-ciuchino?
L’odioso e disumano (certo un alieno, gli uomini non si comportano così; eh,
no, signora: non serve fare ricorso agli alieni, sul pianeta c’è tutto un
catalogo di uomini perfino peggiori) Omino di Burro (uscito da un incubo)? Il
direttore del circo? E gli spettatori? Ridono del somaro e addirittura pagano
per assistere alle sue sofferenze.
Questa seconda messa in scena di uno schema drammaturgico fatto di
illusione masochista, disinganno, punizione, trova il proprio ambito sul
palcoscenico attrezzato di tutto ciò che la moderna tecnologia può offrire.
Grande palcoscenico, grande orchestra, validi cantanti, stuoli di ballerini,
acrobazie e coreografie entusiasmanti, effetti speciali strabilianti e applausi
scroscianti.
Pinocchio prepara la propria apoteosi, che sarà modesta e avverrà
tutta in un monolocale male arredato, riscaldato solo da una pittura sul muro
di nessun valore artistico.
La sua resurrezione (vegetali e animali, animali e umani, vita e
morte… macedonia cosmica) ci porta finalmente al finale. In un ventre di pesce
che può essere una tana tra le radici della grande quercia o l’utero di chissà
quale femmina, magari nemmeno umana, perché di donne non è che ce ne siano
tante, in questo libro; e la Fata non è tipo da affrontare una gravidanza: lei
educa, non alleva; e tantomeno partorisce.
L’incontro tra Pinocchio e questo nuovo Geppetto che si è arreso e fa
solo il vecchietto e non più il nonno gendarme è rivelatore di un’altra
definitiva metamorfosi già avvenuta nel burattino. A guardarlo, è come prima.
Ma, come gli dirà a breve la Fata (si sta già dedicando a un altro progetto e
per non perdere tempo gli appare solo in sogno: “In grazie del tuo buon cuore…”),
il suo buon cuore, buono perché ora è in sintonia con i desiderata dei
vecchietti, dei carabinieri, dei pappagalli, dei grilli e delle fate, fa sì che
egli non sia più il burattino combina guai, ma “un ragazzino perbene”.
Che teatro è, questo? Quello che la vince sempre. Rassicurante,
assomiglia tanto alle produzioni cinematografiche di storie lacrimose
edificanti che poi si scopre hanno per finanziatori fabbricanti d’armi, pescecani
(quelli veri) della Borsa, miliardari avidi, estremisti nazionalisti, fanatici
religiosi… Il finale di Pinocchio ci rassicura su tanta produzione di
Letteratura per ragazzi: diciamo loro che bisogna essere cittadini rispettosi
delle leggi (tutte!) e religiosi e caritatevoli (non significa solidali) e
patriottici; diciamo che il mondo è bello e che se qualcosa non va lo
aggiustiamo subito; e che tutti hanno una possibilità di essere felici e di
arricchire; e che chi muove critiche è un sociopatico.
La scena in cui Pinocchio osserva il burattino “appoggiato a una
seggiola, col capo girato sur una parte, con le gambe ciondoloni e con le gambe
incrocicchiate e ripiegate a mezzo” e dice solo “com’ero buffo”, e nient’altro,
lo seppellisce così, come una cosa buffa… è tra le più amare e avvilenti della
letteratura.
Ma peggio ancora quando nella stalla ritrova Lucignolo. Prova
dispiacere, forse; infatti, “presa una manciata di paglia, si rasciugò una
lacrima che gli colava giù per il viso” (a uso e consumo degli spettatori che
amano commuoversi). E rimproverato dall’ortolano spiega: era un mio amico… ma
poi precisa: un mio compagno di scuola…
e ci manca: uno che conoscevo così così. Ecco, Lucignolo è subito
dimenticato. Come un brutto incidente, una caduta nell’eresia che è meglio
lasciarsi alle spalle. Ora Pinocchio deve lavorare e lavorare, studiare e
studiare, rinunciare per il momento a… un vestito nuovo? La sua prima spesa
importante è per un vestito? Allora è proprio vero, è diventato umano. E poi
deve salvare la Fata (ma è giusto salvare le fate che possono autosalvarsi con
i propri poteri?) e accudire un vecchio per il quale costruisce un carrettino,
così subisce un’altra metamorfosi, quella in badante che spinge la sedia a
rotelle. Ma quella Fata! Come le madri che si fingono malate e distrutte da
mille disgrazie per imprigionare nella propria mente i figli, ai quali risulta
impossibile la libertà dei burattini.
Il libro, in pratica, finisce con un necrologio.
E il teatro? Il teatro, per fortuna, non finisce mai.
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