venerdì 23 ottobre 2015

RIGUARDO A UNA DRAMMATURGIA DELLE BACCANTI DA PROPORRE AI RAGAZZI

Hanno dai dieci ai tredici anni e sono in sedici. Otto maschi e otto femmine. Amano la lettura, sono bravi a scuola, dinamici, sportivi, espressivi, curiosi, disponibili e cordiali. Insieme, prepariamo la messa in scena delle Baccanti di Euripide. L’attività si svolge nell’Aula Teatro dell’I.C. Verjus di Oleggio ed è organizzata dal Comitato Genitori. Il programma ambizioso richiede un minimo di preparazione. Le prime tre lezioni sono dedicate alla conoscenza interpersonale: presentazioni individuali e qualche gioco. Una lezione si svolge nell’Aula Video. Una serie di diapositive veicola la conoscenza della tragedia greca: come è nata, come e perché veniva rappresentata nel Quinto secolo a. C. e quali sono i tre tragediografi principali. La discussione si allarga a Eracle, Atlantide… Visioniamo anche fotografie e brevi filmati di allestimenti moderni delle Baccanti scaricati da Youtube. La volta successiva fornisco una scheda con la presentazione critica di Euripide e della sua opera. Le Baccanti sono le ribelli. Le inseriamo in un panorama storico che va da loro alle Amazzoni, alle streghe del ‘600 fino alle femministe moderne. Le ragazze sono contente: amano interpretare le ribelli.

L’adattamento del testo prevede un intervento pesante. La trama va snellita, la sintassi semplificata, il lessico verificato, i cori e i monologhi lunghi ripartiti tra gli interpreti, i riferimenti mitologici e storici spiegati al pubblico… I personaggi sono i seguenti: Dioniso, Penteo, Cadmo, Tiresia, otto baccanti, quattro lettori con il compito di presentare, riassumere, spiegare, ricoprire ruoli secondari (soldato, pastore, messaggero). Se le baccanti eseguono coreografiche e suonano i cembali, ai lettori spettano il bongo o il darbuka.

L’opera è nel segno della visione e dell’ascolto. Analizziamo prima la visione, la più legata etimologicamente a theatron, il luogo dal quale si guardava. Nel prologo, Dioniso dapprima invita il pubblico a guardarlo (“Ho mutato l’aspetto divino in umano”), quindi guarda lui stesso verso il sepolcro della madre folgorata. Subito dopo, invita a guardare lontano con l’immaginazione, verso l’Asia da cui proviene (la straordinaria risorsa della tragedia greca che senza scenografie portava comunque agli spettatori scene di battaglie, massacri, viaggi, navigazioni, eserciti in marcia…). In seguito, per tre volte ripete il proprio intento: rivelarsi, cioè farsi vedere come dio. Non manca il riferimento all’ascolto, in questo caso di cose non vere: le sorelle di Semele la screditano insinuando che Dioniso è il frutto di una seduzione umana. Dioniso ci dice dunque che ci sono cose false e cose vere da guardare (lui uomo e lui dio) e cose false e cose vere da dire e ascoltare. Il Coro invita i tebani a tacere nell’attesa della rivelazione (“Ognuno si faccia da parte, non contamini la bocca con parole”) ricordando quando Dioniso se ne stava nascosto (non veduto) nella coscia di Zeus: cose false e cose vere da guardare e tra loro l’ombra, il nascondimento, la pausa teatrale. Poi il Coro scatena una tempesta sensoriale di suoni, ritmi, visioni, profumi, emozioni.

L’apertura del primo episodio è riservata a un cieco, Tiresia. Le sue parole vertono sulla visione (“Chi sta sulla soglia?”), quelle successive di Cadmo sull’ascolto (“Ho sentito la tua voce”). La vista e l’udito si prendono poi per mano. Cadmo vede per tutti e due; e tutti e due ascoltano Penteo di ritorno da una missione. Non è stato testimone, ma immagina quello che potrebbe vedere sul monte Citerone e dà retta alle dicerie. Per aggiustare la realtà che egli suppone deteriorata ricorre all’imprigionamento e alla pena capitale. Vede Tiresia e il padre Cadmo, ma per loro ha solo parole di scherno. Finora, quindi, dà valore a una realtà ipotetica e dileggia quella oggettiva. Se ne accorge Tiresia, che lo accusa di far “correre troppo la lingua”. Impartisce una lezione a Penteo: invece di parlare a vanvera, si adegui ai riti di Dioniso; l’invasamento bacchico produce forza divinatoria e anche forza d’animo. Cadmo aggiunge un’altra voce al repertorio di visione e ascolto, la menzogna: gli suggerisce di fingere di credere. Abbiamo quindi cose false e vere, cose sincere e simulate, immaginazione e cecità, visione oggettiva e… l’allucinazione che tra poco Dioniso stesso inserisce nella trama. Il Coro interpella la Fede: “Ascolti le parole di Penteo?”. Esse non vanno perse. Proprio come oggi parole e immagini vengono eternate dalla rete, così allora venivano registrate dagli dei.
Quando i soldati gli portano Dioniso, Penteo lo guarda a lungo, lo esamina con attenzione. Il dialogo è serrato. Le parole risultano però meno potenti della visione. Zeus, per trasmettergli i riti, guardava Dioniso, dal quale era visto: non c’era bisogno di parole. Il pensiero si trasmette e si elabora attraverso gli occhi. Quando nasce, un neonato non ha nulla da ascoltare, se non suoni senza senso; ma ha tutto da vedere e sa già dare un significato alle visioni. Siamo ai primordi, quando il significante non è di etimologia complessa, ma si basa su sette note, su movimenti codificati, su immagini ripetute nella pietra e nella pittura. Suoni, musiche, ritmi, movimenti, forme… il linguaggio della natura. Penteo, con arroganza, pretende di modificarlo e depotenziarlo (ti taglio i riccioli, confisco il tirso, t’incarcero). Ma su di lui il dio esercita il proprio controllo: gli sta accanto invisibile, la visione negata; alla quale Penteo si adegua, ordinando che lo straniero venga incatenato al buio. Il Coro contrappone all’immagine giovanile e gioviale del dio quella bestiale di Penteo: nato da un drago, mostro dagli occhi selvaggi. Immagini ingannevoli: il giovane sorridente sarà il carnefice, il mostro sarà la vittima ignara.

Nel terzo episodio, Dioniso produce immagini di qualcosa che non può essere visto in un teatro: il terremoto, il fulmine, il crollo della reggia, l’incendio… Ma alle immagini evocate corrisponde la realtà o è tutto un abbaglio? Entriamo nel regno dell’allucinazione. Penteo non è più in grado di distinguere tra realtà e fantasia. Davvero c’è un toro al posto di Dioniso? Davvero la reggia crolla? Davvero Dioniso è di carne e non uno spettro? Davvero le baccanti compiono miracoli? Insomma, a chi e a che cosa deve credere Penteo? Prima ancora di andare a spiare le baccanti, egli è già immerso nell’esaltazione bacchica e vede e sente ciò che il dio vuole che veda e che senta. Senza saperlo, è diventato suo discepolo. Ora può congiungersi al gruppo delle tebane baccanti sul monte Citerone, dalle quali non sarà però accettato. Ha inizio la sua fine e il prologo spetta al messaggero. Egli ha visto e sentito e viene a riferire ciò che fanno le baccanti. Le immagini sono precise, dettagliate, arcadiche e surreali, stupefacenti e prodigiose. “Vedendo queste cose ti saresti messo a pregare il dio che ora oltraggi”. Tutta questione di andare a vedere, dunque. Toccare con mano. Ma vedere che cosa? Penteo non si pone la questione della veridicità del racconto. Donne che fanno a pezzi i tori con le mani. Tebane, fino al giorno prima sedute al telaio, che rapiscono i bambini e devastano i villaggi. Penteo vuole credere. Vuole che le donne siano così, sanguinarie e indemoniate. In modo da poter dare loro la caccia. E Dioniso fa scattare la trappola: “Vuoi vedere le donne tutte insieme sul monte?” Acconsentendo, Penteo accetta uno stravolgimento tragico del mondo. Le donne sono demoni e lui le deve annientare. Per farlo, modifica la propria immagine. Non più un re, ma una donna, una baccante. Penteo, per dare la caccia alle streghe, si fa strega lui stesso. Ha ascoltato Dioniso, ha ascoltato il messaggero, ma non ha saputo distinguere tra parole vere e parole false, tra verità e menzogna. Ha voluto credere a ciò che gli fa piacere credere. È in disarmonia con la realtà. Tradisce il mondo, la verità. Non capisce nemmeno l’ambivalenza della dichiarazione di Dioniso: “Sono disposto a tutto, per te.” Certo, perfino a far sì che gli mozzino la testa. Penteo, travestito, è come il cieco Tiresia guidato da Cadmo; lui è guidato da Dioniso, dritto dritto verso la propria morte: “Passeremo per strade solitarie: ti guiderò io.” È già fuori del mondo, autoescluso dalla società, un’ombra nei vicoli.
Gli dice Dioniso, all’inizio del quarto episodio: “Dico a te, Penteo, che brami vedere ciò che non andrebbe visto e ti avvii verso cose che bisognerebbe evitare: esci dalla reggia, fatti guardare.” Penteo risponde: “Mi pare di vedere due soli, e Tebe dalle sette porte si è sdoppiata. E tu, che mi conduci, mi sembri un toro…”
Non si domanda se il proprio rapporto con la realtà sia rispondente al vero o non invece un’allucinazione (che, dal punto di vista della divinità, è il vero), ma si preoccupa solo della propria immagine: “Come ti sembro?” L’attenzione è sempre per le apparenze, non per le sostanze. L’uomo vive di illusioni e si scava la fossa da sé. Il Coro reclama l’esito come atto di giustizia: “Mostrati, Bacco: toro, serpente di molte teste, leone dall’alito di fuoco. Con volto sereno attorno al capo di chi caccia baccanti getta un laccio di morte. Cadrà, ucciso da una mandria di menadi.”

Di nuovo una rhesis, un discorso. Un servo racconta sulla falsariga del primo resoconto del messaggero. Il silenzio dei luoghi montani, l’idillio delle baccanti, la rottura dell’equilibrio con la visione. Non più l’apparizione di un dio che disintegra, incendia, distrugge; ma di un uomo che viene sbranato. Nel primo caso il dio si fa vedere, nel secondo l’uomo è visto. L’efficacia delle visioni che scatenano emozioni sarà ribadita nei secoli, a partire dagli spettacoli nelle arene alle tele di guerra e di martirio, dal cinema horror alla televisione di violenza metropolitana. Dioniso, dio della maschera, ha invertito il rapporto nel sacrificio, come spiega il Coro: “Gridiamo la rovina di Penteo, un toro lo conduceva verso la morte”. La Corifea aggiunge: “Ora vedo Agave, la madre di Penteo, che si dirige alla reggia. Ha gli occhi stravolti.” L’accoglie Cadmo. Cambiato. Non più il re nostalgico della giovinezza che danzava nel tìaso, ma il vecchio che è andato a recuperare il nipote fatto a pezzi piangendone la perdita. Quanto sono diverse ora le sue parole! Non motteggia più, come faceva con Tiresia, dileguatosi. Agave lo esorta a guardare il trofeo in cui pone la propria gloria, ma Cadmo… “Non si può neppure guardare questo assassinio compiuto da mani sventurate.” Che cosa può fare? Distogliere lo sguardo per sempre? No, cercare uno sguardo che assicuri la verità. Allontanarlo dal particolare e dirigerlo verso l’universale, per una visione ampia che restituisca il significato alle cose. “Rivolgi lo sguardo in alto verso il cielo” dice ad Agave. E lei: “Mi pare di tornare in senno”. Indicando l’involto che stringe tra le braccia, le dice ancora: “Osservalo bene.” Ampliare la visione, e renderla acuta. “Ah, che vedo?” esclama Agave. “Guardalo. Capirai meglio”. Agave ora è in grado di cogliere la realtà per come è davvero, ma guardare in faccia la realtà non è fonte di gioia e serenità. “Vedo un dolore immenso”. La tragedia ha portato verso la consapevolezza, ma la consapevolezza è dolore. Un dolore tanto grande che induce gli uomini a credere negli dei e a piegarsi di fronte a loro. Dice Cadmo: “Se c’è qualcuno che guarda gli dei con superbia, osservi questa morte e impari a credere in loro.”

Ma Agave è di avviso diverso. Le sue ultime parole sono di abbandono di una fede che l’ha tradita, prima illudendola e poi trasformandola nell’assassina del proprio figlio. Se ne va lontano, si mette in viaggio (con il viaggio di propagazione della fede di Dioniso comincia la tragedia, con il viaggio di un’atea stroncata dal dolore e dal senso di colpa finisce) alla ricerca di non sa che cosa, certo della maniera di ritrovare la pace e l’armonia con il mondo. Basta con le visioni soprannaturali, basta con le allucinazioni e le illusioni. Agave si nega alla vista. “Andrò là dove il Citerone maledetto non possa vedermi, né io possa vedere il Citerone, dove non esista nemmeno la memoria del tirso. Di ciò si occupino altre baccanti”.
Ed Euripide se n’era già andato in Macedonia.


Come impostare la messa in scena su “guardare e ascoltare”? Non mi riferisco all’ambito visivo dello spettacolo (scenografia e costumi), ma alla preparazione dell’attore. Intendo stimolare la sensibilità riguardo a cose vere e cose false, indurre a riflettere su interprete-personaggio, Io e maschera. Rendere il teatro metafora del mondo nelle sue irrazionalità e incongruenze. Mostrare quanto è difficile disegnare il confine tra la verità e la menzogna. Quanto le nostre fantasie ci influenzino. E come spesso la realtà ci sfugga di mano. Gli interpreti devono concentrarsi sulla visione di ciò che è finto per presentarlo come vero a un pubblico reale che va però messo in ombra, calato nella pausa, oggetto del nascondimento di cui all’inizio. Guardare sé stessi per guardare gli altri, ma guardarli davvero, non con la distrazione cui siamo avvezzi; idem per l’ascolto. I ragazzi devono inserirsi in un ritmo bacchico dominante, in cui ogni declamazione e ogni movimento sono finalizzati alla realizzazione di un tìaso, un gruppo coeso nelle modalità espressive e nelle finalità. Li invito a leggere l’originale di Euripide, per valutare quanta distanza vi sia tra esso e la riduzione. Allargo la ribellione delle baccanti ai maschi, perché motivi per cui ribellarsi si trovano sempre. Non parlo di sommossa e rivoluzione, ma di ribellione della mente che, come Agave, affronta un viaggio doloroso, lasciandosi alle spalle le false convinzioni del passato per cercare nuove strade. 

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