Hanno dai dieci ai tredici anni e
sono in sedici. Otto maschi e otto femmine. Amano la lettura, sono bravi a
scuola, dinamici, sportivi, espressivi, curiosi, disponibili e cordiali.
Insieme, prepariamo la messa in scena delle Baccanti di Euripide. L’attività si
svolge nell’Aula Teatro dell’I.C. Verjus di Oleggio ed è organizzata dal
Comitato Genitori. Il programma ambizioso richiede un minimo di preparazione.
Le prime tre lezioni sono dedicate alla conoscenza interpersonale:
presentazioni individuali e qualche gioco. Una lezione si svolge nell’Aula Video.
Una serie di diapositive veicola la conoscenza della tragedia greca: come è
nata, come e perché veniva rappresentata nel Quinto secolo a. C. e quali sono i
tre tragediografi principali. La discussione si allarga a Eracle, Atlantide… Visioniamo
anche fotografie e brevi filmati di allestimenti moderni delle Baccanti
scaricati da Youtube. La volta successiva fornisco una scheda con la
presentazione critica di Euripide e della sua opera. Le Baccanti sono le
ribelli. Le inseriamo in un panorama storico che va da loro alle Amazzoni, alle
streghe del ‘600 fino alle femministe moderne. Le ragazze sono contente: amano
interpretare le ribelli.
L’adattamento del testo prevede
un intervento pesante. La trama va snellita, la sintassi semplificata, il
lessico verificato, i cori e i monologhi lunghi ripartiti tra gli interpreti, i
riferimenti mitologici e storici spiegati al pubblico… I personaggi sono i
seguenti: Dioniso, Penteo, Cadmo, Tiresia, otto baccanti, quattro lettori con
il compito di presentare, riassumere, spiegare, ricoprire ruoli secondari
(soldato, pastore, messaggero). Se le baccanti eseguono coreografiche e suonano
i cembali, ai lettori spettano il bongo o il darbuka.
L’opera è nel segno della visione
e dell’ascolto. Analizziamo prima la visione, la più legata etimologicamente a theatron,
il luogo dal quale si guardava. Nel prologo, Dioniso dapprima invita il
pubblico a guardarlo (“Ho mutato l’aspetto divino in umano”), quindi guarda lui
stesso verso il sepolcro della madre folgorata. Subito dopo, invita a guardare
lontano con l’immaginazione, verso l’Asia da cui proviene (la straordinaria
risorsa della tragedia greca che senza scenografie portava comunque agli spettatori
scene di battaglie, massacri, viaggi, navigazioni, eserciti in marcia…). In
seguito, per tre volte ripete il proprio intento: rivelarsi, cioè farsi vedere
come dio. Non manca il riferimento all’ascolto, in questo caso di cose non
vere: le sorelle di Semele la screditano insinuando che Dioniso è il frutto di
una seduzione umana. Dioniso ci dice dunque che ci sono cose false e cose vere
da guardare (lui uomo e lui dio) e cose false e cose vere da dire e ascoltare.
Il Coro invita i tebani a tacere nell’attesa della rivelazione (“Ognuno si
faccia da parte, non contamini la bocca con parole”) ricordando quando Dioniso
se ne stava nascosto (non veduto) nella coscia di Zeus: cose false e cose vere
da guardare e tra loro l’ombra, il nascondimento, la pausa teatrale. Poi il
Coro scatena una tempesta sensoriale di suoni, ritmi, visioni, profumi,
emozioni.
L’apertura del primo episodio è
riservata a un cieco, Tiresia. Le sue parole vertono sulla visione (“Chi sta
sulla soglia?”), quelle successive di Cadmo sull’ascolto (“Ho sentito la tua
voce”). La vista e l’udito si prendono poi per mano. Cadmo vede per tutti e due;
e tutti e due ascoltano Penteo di ritorno da una missione. Non è stato
testimone, ma immagina quello che potrebbe vedere sul monte Citerone e dà retta
alle dicerie. Per aggiustare la realtà che egli suppone deteriorata ricorre all’imprigionamento
e alla pena capitale. Vede Tiresia e il padre Cadmo, ma per loro ha solo parole
di scherno. Finora, quindi, dà valore a una realtà ipotetica e dileggia quella
oggettiva. Se ne accorge Tiresia, che lo accusa di far “correre troppo la
lingua”. Impartisce una lezione a Penteo: invece di parlare a vanvera, si adegui
ai riti di Dioniso; l’invasamento bacchico produce forza divinatoria e anche
forza d’animo. Cadmo aggiunge un’altra voce al repertorio di visione e ascolto,
la menzogna: gli suggerisce di fingere di credere. Abbiamo quindi cose false e
vere, cose sincere e simulate, immaginazione e cecità, visione oggettiva e… l’allucinazione
che tra poco Dioniso stesso inserisce nella trama. Il Coro interpella la Fede: “Ascolti
le parole di Penteo?”. Esse non vanno perse. Proprio come oggi parole e
immagini vengono eternate dalla rete, così allora venivano registrate dagli
dei.
Quando i soldati gli portano
Dioniso, Penteo lo guarda a lungo, lo esamina con attenzione. Il dialogo è
serrato. Le parole risultano però meno potenti della visione. Zeus, per
trasmettergli i riti, guardava Dioniso, dal quale era visto: non c’era bisogno
di parole. Il pensiero si trasmette e si elabora attraverso gli occhi. Quando
nasce, un neonato non ha nulla da ascoltare, se non suoni senza senso; ma ha
tutto da vedere e sa già dare un significato alle visioni. Siamo ai primordi,
quando il significante non è di etimologia complessa, ma si basa su sette note,
su movimenti codificati, su immagini ripetute nella pietra e nella pittura.
Suoni, musiche, ritmi, movimenti, forme… il linguaggio della natura. Penteo,
con arroganza, pretende di modificarlo e depotenziarlo (ti taglio i riccioli,
confisco il tirso, t’incarcero). Ma su di lui il dio esercita il proprio
controllo: gli sta accanto invisibile, la visione negata; alla quale Penteo si
adegua, ordinando che lo straniero venga incatenato al buio. Il Coro contrappone
all’immagine giovanile e gioviale del dio quella bestiale di Penteo: nato da un
drago, mostro dagli occhi selvaggi. Immagini ingannevoli: il giovane sorridente
sarà il carnefice, il mostro sarà la vittima ignara.
Nel terzo episodio, Dioniso produce
immagini di qualcosa che non può essere visto in un teatro: il terremoto, il
fulmine, il crollo della reggia, l’incendio… Ma alle immagini evocate
corrisponde la realtà o è tutto un abbaglio? Entriamo nel regno dell’allucinazione.
Penteo non è più in grado di distinguere tra realtà e fantasia. Davvero c’è un
toro al posto di Dioniso? Davvero la reggia crolla? Davvero Dioniso è di carne
e non uno spettro? Davvero le baccanti compiono miracoli? Insomma, a chi e a
che cosa deve credere Penteo? Prima ancora di andare a spiare le baccanti, egli
è già immerso nell’esaltazione bacchica e vede e sente ciò che il dio vuole che
veda e che senta. Senza saperlo, è diventato suo discepolo. Ora può
congiungersi al gruppo delle tebane baccanti sul monte Citerone, dalle quali
non sarà però accettato. Ha inizio la sua fine e il prologo spetta al
messaggero. Egli ha visto e sentito e viene a riferire ciò che fanno le
baccanti. Le immagini sono precise, dettagliate, arcadiche e surreali, stupefacenti
e prodigiose. “Vedendo queste cose ti saresti messo a pregare il dio che ora
oltraggi”. Tutta questione di andare a vedere, dunque. Toccare con mano. Ma
vedere che cosa? Penteo non si pone la questione della veridicità del racconto.
Donne che fanno a pezzi i tori con le mani. Tebane, fino al giorno prima sedute
al telaio, che rapiscono i bambini e devastano i villaggi. Penteo vuole
credere. Vuole che le donne siano così, sanguinarie e indemoniate. In modo da
poter dare loro la caccia. E Dioniso fa scattare la trappola: “Vuoi vedere le
donne tutte insieme sul monte?” Acconsentendo, Penteo accetta uno
stravolgimento tragico del mondo. Le donne sono demoni e lui le deve
annientare. Per farlo, modifica la propria immagine. Non più un re, ma una
donna, una baccante. Penteo, per dare la caccia alle streghe, si fa strega lui stesso.
Ha ascoltato Dioniso, ha ascoltato il messaggero, ma non ha saputo distinguere
tra parole vere e parole false, tra verità e menzogna. Ha voluto credere a ciò
che gli fa piacere credere. È in disarmonia con la realtà. Tradisce il mondo,
la verità. Non capisce nemmeno l’ambivalenza della dichiarazione di Dioniso: “Sono
disposto a tutto, per te.” Certo, perfino a far sì che gli mozzino la testa. Penteo,
travestito, è come il cieco Tiresia guidato da Cadmo; lui è guidato da Dioniso,
dritto dritto verso la propria morte: “Passeremo per strade solitarie: ti
guiderò io.” È già fuori del mondo, autoescluso dalla società, un’ombra nei
vicoli.
Gli dice Dioniso, all’inizio del
quarto episodio: “Dico a te, Penteo, che brami vedere ciò che non andrebbe
visto e ti avvii verso cose che bisognerebbe evitare: esci dalla reggia, fatti
guardare.” Penteo risponde: “Mi pare di vedere due soli, e Tebe dalle sette
porte si è sdoppiata. E tu, che mi conduci, mi sembri un toro…”
Non si domanda se il proprio rapporto con la realtà sia rispondente al vero o
non invece un’allucinazione (che, dal punto di vista della divinità, è il
vero), ma si preoccupa solo della propria immagine: “Come ti sembro?” L’attenzione
è sempre per le apparenze, non per le sostanze. L’uomo vive di illusioni e si
scava la fossa da sé. Il Coro reclama l’esito come atto di giustizia: “Mostrati,
Bacco: toro, serpente di molte teste, leone dall’alito di fuoco. Con volto
sereno attorno al capo di chi caccia baccanti getta un laccio di morte. Cadrà,
ucciso da una mandria di menadi.”
Di nuovo una rhesis, un discorso.
Un servo racconta sulla falsariga del primo resoconto del messaggero. Il
silenzio dei luoghi montani, l’idillio delle baccanti, la rottura dell’equilibrio
con la visione. Non più l’apparizione di un dio che disintegra, incendia,
distrugge; ma di un uomo che viene sbranato. Nel primo caso il dio si fa
vedere, nel secondo l’uomo è visto. L’efficacia delle visioni che scatenano
emozioni sarà ribadita nei secoli, a partire dagli spettacoli nelle arene alle tele
di guerra e di martirio, dal cinema horror alla televisione di violenza
metropolitana. Dioniso, dio della maschera, ha invertito il rapporto nel
sacrificio, come spiega il Coro: “Gridiamo la rovina di Penteo, un toro lo
conduceva verso la morte”. La Corifea aggiunge: “Ora vedo Agave, la madre di
Penteo, che si dirige alla reggia. Ha gli occhi stravolti.” L’accoglie Cadmo.
Cambiato. Non più il re nostalgico della giovinezza che danzava nel tìaso, ma
il vecchio che è andato a recuperare il nipote fatto a pezzi piangendone la
perdita. Quanto sono diverse ora le sue parole! Non motteggia più, come faceva
con Tiresia, dileguatosi. Agave lo esorta a guardare il trofeo in cui pone la
propria gloria, ma Cadmo… “Non si può neppure guardare questo assassinio
compiuto da mani sventurate.” Che cosa può fare? Distogliere lo sguardo per
sempre? No, cercare uno sguardo che assicuri la verità. Allontanarlo dal
particolare e dirigerlo verso l’universale, per una visione ampia che restituisca
il significato alle cose. “Rivolgi lo sguardo in alto verso il cielo” dice ad
Agave. E lei: “Mi pare di tornare in senno”. Indicando l’involto che stringe
tra le braccia, le dice ancora: “Osservalo bene.” Ampliare la visione, e
renderla acuta. “Ah, che vedo?” esclama Agave. “Guardalo. Capirai meglio”. Agave
ora è in grado di cogliere la realtà per come è davvero, ma guardare in faccia
la realtà non è fonte di gioia e serenità. “Vedo un dolore immenso”. La
tragedia ha portato verso la consapevolezza, ma la consapevolezza è dolore. Un
dolore tanto grande che induce gli uomini a credere negli dei e a piegarsi di
fronte a loro. Dice Cadmo: “Se c’è qualcuno che guarda gli dei con superbia,
osservi questa morte e impari a credere in loro.”
Ma Agave è di avviso diverso. Le
sue ultime parole sono di abbandono di una fede che l’ha tradita, prima
illudendola e poi trasformandola nell’assassina del proprio figlio. Se ne va
lontano, si mette in viaggio (con il viaggio di propagazione della fede di
Dioniso comincia la tragedia, con il viaggio di un’atea stroncata dal dolore e
dal senso di colpa finisce) alla ricerca di non sa che cosa, certo della
maniera di ritrovare la pace e l’armonia con il mondo. Basta con le visioni
soprannaturali, basta con le allucinazioni e le illusioni. Agave si nega alla
vista. “Andrò là dove il Citerone maledetto non possa vedermi, né io possa
vedere il Citerone, dove non esista nemmeno la memoria del tirso. Di ciò si
occupino altre baccanti”.
Ed Euripide se n’era già andato in
Macedonia.
Come impostare la messa in scena
su “guardare e ascoltare”? Non mi riferisco all’ambito visivo dello spettacolo
(scenografia e costumi), ma alla preparazione dell’attore. Intendo stimolare la
sensibilità riguardo a cose vere e cose false, indurre a riflettere su
interprete-personaggio, Io e maschera. Rendere il teatro metafora del mondo
nelle sue irrazionalità e incongruenze. Mostrare quanto è difficile disegnare
il confine tra la verità e la menzogna. Quanto le nostre fantasie ci
influenzino. E come spesso la realtà ci sfugga di mano. Gli interpreti devono
concentrarsi sulla visione di ciò che è finto per presentarlo come vero a un
pubblico reale che va però messo in ombra, calato nella pausa, oggetto del
nascondimento di cui all’inizio. Guardare sé stessi per guardare gli altri, ma
guardarli davvero, non con la distrazione cui siamo avvezzi; idem per l’ascolto.
I ragazzi devono inserirsi in un ritmo bacchico dominante, in cui ogni
declamazione e ogni movimento sono finalizzati alla realizzazione di un tìaso,
un gruppo coeso nelle modalità espressive e nelle finalità. Li invito a leggere
l’originale di Euripide, per valutare quanta distanza vi sia tra esso e la
riduzione. Allargo la ribellione delle baccanti ai maschi, perché motivi per
cui ribellarsi si trovano sempre. Non parlo di sommossa e rivoluzione, ma di
ribellione della mente che, come Agave, affronta un viaggio doloroso,
lasciandosi alle spalle le false convinzioni del passato per cercare nuove strade.
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